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Oltre il confine ultimo della bruttezza

Devo fare una confessione. Amara ma doverosa. Anzi no, amara proprio per niente, semmai piuttosto saporita, grassa e oleosa.

In passato ho completato diverse collezioni di sorpresine del pasto felice di McDonald’s. Il primo motivo è che c’era un ristorante proprio vicino al mio ufficio dell’epoca, la tentazione perciò era forte. Il secondo è che il pasto felice è l’unico che ti propone alternative non dico salutari, ma che perlomeno non sono un attentato diretto alle tue coronarie: le carotine al posto delle patatine fritte, l’acqua al posto delle bibite gassate, la mela o lo yogurt anziché il dolce.
Insomma, nel mio palmares c’è l’indimenticabile collezione dei Muppets, quella con i personaggi di Shrek (li avevo tutti, il mio preferito era Ciuchino che parlava se gli muovevi la coda); ho ancora Super Mario che mi tiene compagnia sulla scrivania e mi pare di aver conquistato anche diversi pupazzetti legati ai Peanuts, a vari supereroi e altro ancora. Mi ha sempre stupito la qualità di questi giocattoli, considerando il prezzo del menù per bambini in alcuni casi mi ha letteralmente messo in imbarazzo, pensando all’eventuale sfruttamento di lavoratori che possa nascondersi dietro questi prodotti a buon mercato.

Ebbene, quegli scrupoli sono passati. Sarà stato l’aumento dei costi energetici, sarà l’inflazione, sarà la concorrenza, ma le nuove sorpresine sono talmente brutte che se mi capiterà di nuovo un pasto felice chiederò che se le tengano pure. In realtà non sono brutte, ma superano abbondantemente il confine ultimo della bruttezza. Lo doppiano in scioltezza. Il vero capolavoro però è che, oltre alla pochezza dei materiali e alla assoluta inutilità dei prodotti (non che siano mai stati oggetti utili, ma oggettivamente Super Mario ad anni di distanza fa ancora la sua figura nel mio ufficio), anche la progettazione è imbarazzante.

Mi è infatti capitato di ordinare un pranzo da bimbo di recente e la sorpresa mi ha la lasciato a dir poco perplesso. Capisco il taglio dei costi e l’inflazione, ma che senso ha un barattolino con i piedi di cartone che per metà è Superman e per l’altra metà è Jerry? Cos’è, un travestimento? Va bene essere fluidi, ma è un gatto o un eroe extraterrestre? Come dobbiamo chiamarlo, SuperJerr????

Cos’hanno in comune Bat Girl (che già inserirla tra i super eroi DC Comics è una scelta discutibile) e Shaggy? Poison Ivy (ho dovuto cercarla su Google perché non ne ricordavo l’esistenza) e Corvina.

Boh.

Però qualcuno l’avrà studiata, questa roba qui, dei consulenti avranno organizzato presentazioni con belle diapositive e coffee break alla fine, saranno stati impiegati dei disegnatori per realizzare un soggetto metà Cyborg e metà Velma. Davvero non c’era modo migliore di celebrare i 100 anni della Warner Bros? Con questa mania del crossover che fa impazzire gli americani, spero solo di non vedere Scooby Doo al fianco di Batman nel prossimo film (che tanto rispetto a Robin è comunque un passo avanti), oppure osservare Flash che scappa con Tom mentre Jerry insegue entrambi.

Basta sorpresine, vi prego, piuttosto meglio gli albi da colorare.

Il regime di creatività condizionata

Mi capita di tanto in tanto di chiacchierare con qualche papà che mi illustra orgoglioso i sorprendenti risultati creativi del figlio alle prese con qualche gioco informatico, Minecraft in particolare, ma anche altri.

Io annuisco sorridente perché i sentimenti di un papà sono fragili e preziosi, e tengo per me questa considerazione: tuo figlio, i nostri figli, non sono dei creativi, perché si limitano a posizionare elementi che altri – loro sì, creativi – hanno predisposto perché loro li componessero. Tutto al più sono compilatori.

Gli anni contemporanei si caratterizzano appunto perché forniscono al consumatore una idea di libertà potenzialmente illimitata mentre lo si costringe in gabbie preconfezionate in cui tutto quello che realizzerai lo farai perché qualcuno te lo ha consentito, quella che io definisco creatività condizionata.
Vale per i social media, per certi sistemi di correzione automatica sempre più invadenti, per alcuni programmi di grafica e video zeppi di modelli precompilati tra cui scegliere,  chissà, forse anche per la nostra democrazia.

Provo a spiegarmi con un esempio: una volta la Lego vendeva principalmente mattoncini, con i quali potevi creare quello che ti pareva. Una casa, un astromissile, un motore a scoppio (vabbe’ non esageriamo: una sua riproduzione). Quella era creatività. Partivi da una serie di oggettini di plastica, e con l’unico limite delle leggi della fisica e del numero di elementi a disposizione, creavi. Siete mai entrati in un negozio di giocattoli, ultimamente? I mattoncini ci sono ancora, ma principalmente i prodotti venduti sono già disegnati, progettati, ogni elemento ha il suo posto, e il bambino deve solo seguire le istruzioni per mettere insieme gli elementi. Attività rispettabile, non dico di no: ma un conto è dipingere su una tela bianca, un conto è completare un puzzle.

Ecco, molti dei software che citavo prima, più che tele bianche ricordano puzzle da ricomporre. Già mi aspetto l’obiezione del papà: ma guarda che mio figlio ha progettato un castello, una nave spaziale, un’isola, un continente intero assolutamente originale. Non l’ha copiato, l’ha inventato lui. Mi dispiace, ma non è così: ha solo collocato secondo il suo gusto una serie di elementi che in potenza erano già lì. Il numero di combinazioni possibili in giochi del genere è enorme, forse incalcolabile, ma finito.

Se c’è una caratteristica della creatività, invece, è che una volta spalancate le sue finestre, i suoi mondi possibili sono infiniti. Cari papà, devo dirvelo: spegniamo quei maledetti monitor e regaliamo ai nostri figli dei fogli bianchi, o mattoncini sciolti.

Quasi quasi mi faccio un frullato

Cambiano i gusti nell’abbigliamento (e meno male, non potrei più andare in giro con quegli enormi scarponi da pallacanestro che a dodici anni mi sembravano forti), cambia il modo di trascorrere il tempo libero (a quindici anni per esempio non dovevo stirare), cambiano le priorità (ho capito che non vincerò mai il Nobel per la letteratura e me ne sono fatto una ragione). Gli anni ci fanno cambiare, ma difficilmente cambiano i gusti a tavola. Mi piacevano le orecchiette con le cime di rapa, mi piacciono ancora. Mi piaceva il panino col salame, mi piace ancora (ma non posso mangiarlo più, maledetto colesterolo). Non impazzivo per la cioccolata e affini, ancora adesso non capisco cosa ci troviate di così eccezionale. Mi piaceva il frullato, mi piace ancora.

C’era qualcosa di magico nell’inserire diversi frutti in un quel recipiente capiente, schiacciare il pulsante e aspettare che le lame fameliche facciano il loro lavoro. Le avanguardie tecnologiche che hanno riempito di schermi, notifiche e stimoli le nostre vite, a pensarci bene, hanno in buona parte trascurato i frullatori, che continuano a frullare esattamente come facevano quarant’anni fa. Per carità ogni tanto qualcuno prova a introdurre qualche modifica, ci inserisco più lame e parlano di omogeneizzatore,  inspessiscono i filtri e parlano di macchina per i succhi di frutta.

Ma in fondo non è cambiato molto: la banana matura è sempre un elemento affidabile, da affiancare però a qualcosa di aspro come i mirtilli o il kiwi, per evitare una bevanda troppo dolce. La mela funziona sempre, da sola è un po’ triste ma abbinata ad altri frutti regala grosse soddisfazioni, frutto gregario che porta altre prime donne alla vittoria. La fragola dà un tocco di colore ma ha bisogno di un frutto di carattere accanto per non scivolare nella banalità.

Esclusi purtroppo gli agrumi, la cui consistenza impedisce loro di amalgamarsi agli altri, ma d’altronde il succo d’arancia fa storia a sé. 

Oggi come quarant’anni fa mi diverto a combinare diversi ingredienti, limitando il più possibile l’uso di integratori che dopizzino il risultato, come il latte, lo zucchero (giammai!) o il succo di frutta, che uso di tanto in tanto solo per convincere le mie figlie a prendere un po’ di frullato ogni tanto. Purtroppo loro sono abituate a prodotti complessi e ingegnerizzati per piacere e non condividono la poesia di un onesto, trasparente frullato.

Che poi, quanto sarebbe più facile l’esistenza di tutti noi, se imparassimo ad amalgamarci come banane, fragole e mele? Certo, direte voi, bisogna passare per le lame per ottenere il risultato. Ma ogni trasformazione richiede un po’ di sacrificio.

E adesso, se permettete, vado a farmi un frullato.

Le serie tv consigliate da papà

TelecomandoLe serie tv sono sicuramente uno dei fenomeni dei nostri anni: certo, anche trent’anni fa guardavamo i telefilm, ma la complessità della scrittura, la qualità della produzione, la cura dell’ambientazione e il valore stesso degli attori erano ben lontani da quelli di oggi. E insieme alle serie ci sono tante recensioni qualificate, accurate, interessanti.
C’è davvero bisogno di altri consigli? Ci ho pensato prima di scrivere questo post, e ho pensato che il mio contributo in fondo può essere di qualche utilità: le serie che consiglio infatti sono le serie che secondo me vanno bene per le famiglie. Attenzione, non mi riferisco a quel genere “family” che di fatti raccoglie film per bambini. Quelle sono serie che i bambini possono guardare da soli. No, io penso a serie che, proprio per i contenuti, è consigliabile guardare in famiglia perché danno il via a spunti, discussioni, e perché no, a toccare alcuni elementi un po’ pruriginosi che però devono far parte dell’educazione dei nostri figli

How I met your mother

Arriviamo subito al sodo: questa serie parla di sesso. Tanto, in tutte le forme. Molto più di quanto non facesse Friends, di cui pure HIMYM è la naturale prosecuzione. Per uno dei personaggi principali, Barney, è praticamente un’ossessione. Però è una sessualità raccontata sempre in senso gioioso, allegro, divertente, forse un po’ libertino (senza forse) ma che offre al genitore tante possibilità per offrire spiegazioni che prima o poi bisogna dare, e forse meglio prima. Papà cosa sono i profilattici? Sono dei guanti che i maschietti mettono sul punto intimo sia per non avere figli sia per non trasmettere o prendere  alcune malattie brutte, non come l’influenza o il raffreddore, peggio, molto peggio. Papà cos’è un’erezione? Quando un maschietto è molto, ma davvero molto contento, e non riesce a contenere il suo entusiasmo. Papà che vuol dire vergine? Che non è mai stato con un uomo o una donna. Ma non dovete preoccuparvi, prima dei 35 anni almeno è così per tutti, lo sarà anche per  voi. Papà cosa stanno mangiando? Deve essere cibo piccante… (Piccola nota per chi non ha mai visto la serie: quando i protagonisti fumano delle canne, soprattutto negli anni del college, sono rappresentati come se mangiassero hotdog, con un atteggiamento puritano tipicamente yankee. Solo che gli hotdog non producono gli stessi effetti).

Legends of Tomorrow

La serie in questione racconta di un gruppo di supereroi che viaggiano nel tempo per evitare che i cattivi  distruggano il mondo. Ci sono tutti gli elementi del genere supereroistico declinato in salsa teen-ager, come nel nuovo corso della DC Comics impresso (ahimé) dai nuovi padroni della Walt Disney, per cui più che
dubbi sulla responsabilità di salvare gli indifesi, qui i dubbi sorgono su quanto è carino tizio e quanto slancia la tuttina di caia.

Da un punto di vista narrativo interessante l’incredibile cross-over che ha coinvolto addirittura quattro serie (oltre a Legends, anche Arrow, Super Girl e Flash) incrociandole in un episodio, trionfo produttivo davvero notevole, al di là del risultato. Il motivo per cui può essere interessante vederlo in famiglia è che una delle protagoniste, Sara Lance, è dichiaratamente lesbica. O fluida, o come cavolo si dice (non voglio essere offensivo ma davvero ormai nell’universo non eterosessuale ci sono più sigle che nei formati video). Però vive il suo stato senza troppi pudori, remore o peggio ancora vergogna, come dovrebbe essere per tutti.

The IT Crowd

Questa serie è un gioiellino inglese di parecchi anni fa ambientato in una azienda di non si sa bene cosa. I protagonisti sono i classici “nerd” dell’ufficio di  assistenza informatica, in uno scantinato disordinato, ma qui più che le loro passioni e i loro limiti sociali a essere messi alla berlina sono i comportamenti
organizzativi: il capo con i suoi strampalati discorsi motivazionali, il collega i cui problemi si risolvono spesso con una battuta (ha già provato a spegnere e riaccendere?), l’incompetenza diffusa. Bambine, è in un posto così che andrete a lavorare un giorno. Se sarete così fortunate da trovare un lavoro.

Community

Anche in Community non mancano i riferimenti più o meno espliciti ad attività e gusti sessuali, forse in maniera più visionaria che in altre serie (il preside di una fantomatica università di serie B si traveste da donna praticamente ad ogni occasione). Ma in verità l’aspetto straordinario di questa serie è il suo essere così completamente intrisa di cinefilia. Papà che citazione è questa? E quest’altra? Papà questo che genere di film è? E vi assicuro che per trovare tutti i richiami avrete bisogno di Wikipedia a portata di mano. Attenzione, le citazioni in Community non sono banalmente testuali, ma al contrario impregnano gli episodi. Così ci sarà quello in cui i protagonisti, a causa di cibo avariato, rivivono la notte degli Zombie, quello girato come un gangster movie, fino ad arrivare addirittura ad un episodio girato in passo uno, con i pupazzi di plastilina, per capirci. Geniale.

I Goldberg

Concludo con una serie, questa sì, per famiglie, anzi forse la serie per famiglie per eccellenza. Buoni sentimenti, nostalgia, ironia, ci sono tutti gli elementi di cui sono intrisi questo genere di prodotti americani dai tempi dei Robinson. Con una prerogativa: la serie è ambientata negli anni ottanta, e si apre sempre con la voce fuori campo dell’autore che ricorda qualcosa di quegli anni. Dalle spalline nelle giacche alle audiocassette, dalle riprese con le enormi videocamere VHS ai capelli cotonati, solo chi è senza cuore può guardare questa serie senza un briciolo di emozione. Oppure, come accade con le mie figlie, balbettare di fronte a domande che sono una pugnalata al cuore per noi ometti di mezza età: papà, ma non c’era Youtube negli anni ottanta? Che cose’è un floppy-disk? Chi erano i Twisted Sisters? Che programma era Supercar? Preparate i fazzoletti, ne avrete bisogno.

La scuola ai tempi del grande fratello

SuolaSe i miei genitori volevano sapere come mi era andata a scuola, me lo dovevano chiedere, e fidarsi delle mie parole. Almeno fino al giorno del colloquio con i professori. Quel giorno si sarebbero messi in coda pacificamente, selezionando con attenzione le file per evitare magari di passare il pomeriggio ad aspettare il turno, vittime della logorrea dell’insegnante di italiano, mentre gli altri raccoglievano soddisfatti i bollini del professore di disegno o musica. Alla peggio si poteva fare un salto anche dal docente di educazione fisica, giusto per dargli una pacca sulle spalle e dimostrare che lo si riteneva un essere umano come gli altri, o addirittura da quello di religione. Opzione questa indispensabile, per le famiglie come la mia, se l’insegnante era un sacerdote verso il quale sarebbe stato insostenibilmente scortese non fare una capatina.

Tutto questo trent’anni fa. Il ruolo dei genitori negli ultimi anni ne frattempo si è dilatato ed esteso come una macchia di colore troppo annacquata che, per voler coprire tutto, alla fine non colora bene niente. Tramite telefono, sms, chat, ologramma 3d del bidello (pardon, collaboratore scolastico) sappiamo se i nostri figi non sono arrivati a scuola, pronti a tracciarne la posizione con gps e ultima connessione telefonica. Giustissimo, per carità, specie per i piccolini. Ma già dopo i sedici anni questo sistema poliziesco appare abbastanza coercitivo, senza contare che ha messo in ginocchio l’economia delle gloriose sale gioco con biliardi e videogames, nonché trasformato le partite improvvisate di calcetto in piazza in raduni di ricercati pronti alla carica delle forze dell’ordine.

I voti sono online, dietro la cortina fumosa di un nome utente e password, e ci sono genitori che ci si collegano quasi quotidianamente, generando sulle cartelle temporanee del pc curiose insalate di cookies che mescolano promiscuamente scuolaviva, amazon e youporn. Se tuo figlio va male a scuola lo sai quasi in tempo reale, e c’è qualcuno che vorrebbe le telecamere per assistere in diretta alla scena e magari saccagnare l’insegnante insensibile, che non ha capito che il proprio figlio ha un quoziente intellettivo troppo alto per ricordare i sette re di Roma,

E le file per incontrare i professori appartengono ad un passato che non ritorna. Per incontrarli, bisogna prenotarsi in rete. Magari a mezzanotte, quando si attiva la procedura online che scatena mamme impazzite tra i borbottii di papà scoglionati che l’ultima volta si sono svegliati a quell’ora per vedere Schumacher in diretta.

Sono contento di essere un papà, ma porca miseria ho completamente sbagliato il periodo storico in cui diventarlo.

Papà in carrozzina

Il momento della vita di un individuo maschio in cui costui si sente davvero importante, realizzato, completo, essenziale, riguardevole e considerato si identifica senza ombra di dubbio nel momento in cui trasporta la carrozzina con la prole.

Non il passeggino, che son buone anche le mamme (anzi, realisticamente ammettiamo che sono molto più brave), non quando tiene il piccoletto in braccio come una nonna qualsiasi. No, è con la carrozzina che la fulgida potenza del maschio latino si esprime in tutto il suo splendore. Avete mai visto un papà con la carrozzina? Si guarda intorno osservando l’eventuale presenza di cecchini sui tetti delle abitazioni. Tiene ben salda la carrozzina con tutte e due le mani, l’avambraccio contratto in uno sforzo poderoso, sbuffa irritato di fronte ai tentativi della consorte di interferire nel suo momento di gloria. Comprime i bicipiti senza una particolare ragione e verifica con la coda dell’occhio che il freno sia correttamente inserito. Non parliamo poi delle scene trionfali nel momento in cui sale in autobus, con la carrozzina, o sul treno. Dopo l’impresa si guarda intorno con il petto gonfio e si domanda quand’è che scatterà l’applauso.
In misura minore, ma comunque in ogni caso fuori da ogni ragionevole senso della misura, si mostra orgoglioso l’uomo che partecipa al trionfo senza avere legami biologici con il neonato: lo zio, il nonno, un passante, un pendolare. Per tutti quel momento è il ristabilimento di una presunta e discutibile superiorità fisica sul gentil sesso che ormai non resta che essere un lontano ricordo di tempi paleolitici.

Se un giorno, per motivi che proprio non riesco a immaginare, qualcuno dovesse decidere di commemorarmi con una statua, è così che voglio essere ricordato: con il mento in alto e gli occhi fieri a sfidare le incognite del futuro con la carrozzina contenente mia figlia (una delle due, è uguale).