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“Messaggio nella bottiglia” di Katia Brentani

messaggio_nella_bottigliaNon ci sono più quei bei romanzi gialli di una volta, in cui segui la trama con attenzione, raccogli indizi fino a capire chiaramente come andrà a finire, e scopri nelle ultime pagine che l’autore si è bellamente preso gioco di te. Non ci sono più quei romanzi gialli che raccontano la periferia, strade e percorsi meno noti e meno descritti dagli autori più famosi. Non ci sono più quei colpi di scena che credevi di sì e invece no. Non ci sono più quei romanzi gialli che li leggi perché non hai voglia di fare pensieri faticosi, e alla fine ti fanno pensare, ma senza fatica.

E invece no, romanzi così ce ne sono ancora. Come per esempio “Messaggio nella bottiglia” di Katia Brentani, edizioni Albus, ambientato a Vergato, sull’Appennino Bolognese, che racconta un’indagine del commissario Volpi. Alle prese con una bottiglia che contiene un messaggio davvero insolito da decifrare, un caso da risolvere in fretta e se possibile senza creare troppe seccature alla gente bene in qualche modo coinvolta, il protagonista ha tutto quello che serve per piacere al lettore. Preciso, metodico, ostinato, ma capace anche di trasgredire le regole se necessario. Forse un po’ troppo figo per i miei gusti, ma questa è una considerazione personale (questi commissari che fanno strage di cuori femminili che neanche le rockstar anni settanta sono piuttosto popolari, ma io preferisco quelli un po’ sfigati, almeno non mi fanno salire la bile per l’invidia).

Il bello di questo romanzo è che fa tutto quello che deve fare un bel romanzo giallo senza forzature lessicali, divagazioni ingombranti, accelerazioni splatter, come alcuni credono sia necessario fare per farsi notare. L’immersione nella storia da parte dell’autore è tanto completa quanto più l’autrice fa un passo indietro, nascondendosi quasi dietro i suoi personaggi e lasciando che sia la storia a prenderci e non le sue acrobazie linguistiche.

A proposito, l’assassino è uno spacciatore a cui la vittima doveva dei soldi.
No, scherzo, non ve lo direi mai.

In realtà è il marito di una donna che aveva una relazione con il tossicodipendente.
Ma dai, credevate che ve lo dicessi davvero?
Lo capirete anche voi che l’assassino ha a che fare con la mafia.
O forse no?

L’opera struggente di un formidabile genio

Questo romanzo fa cagare. Ecco. L’ho detto. Natale è passato, possiamo anche essere un po’ meno buoni e dire le cose come stanno. Certo avrei potuto dire semplicemente che non mi è piaciuto, che è troppo lento, che le divagazioni stancano, sono poco interessanti e manifestano solo il delirio egocentrico dell’autore, che si identifica nel protagonista essendo il romanzo autobiografico. Ma non basta, perchè questo è vero di tanti romanzi, ma non tutti riportano in copertina la frase “Grande, grande scrittura. Un libro che non lascia scampo ” (a proposito, chi è il Wallace che ha dato questo commento? Devo scoprirlo).

Lo spunto di partenza è drammatico e interessante: tre fratelli e una sorella si ritrovano in pochi mesi la vita sconvolta dalla scomparsa per cancro dei due genitori. Le poche pagine non dico belle ma almeno di una qualche dignità letteraria sono proprio quelle dedicate agli ultimi giorni della madre dell’autore. L’autore e il fratello minore chiudono allora i ponti con Chicago, la loro città natale, e si trasferiscono in California.

E poi non succede più niente, perché per centinaia e centinaia di pagine è solo il continuo vaniloquio del protagonista che schiaccia gli altri personaggi, li riduce a macchiette quando non a semplici spalle del “formidabile genio”, uno che ci ammorba con discorsi insulsi che non conclude mai e con una scrittura che dovrebbe far ridere tutte le volte che ripete il turpiloquio in maniera ossessiva ma che già la terza volta stanca. Ho fatto una fatica indicibile a terminare questo romanzo, ma ci tenevo a farlo perché prima di stroncare un’opera bisogna essere sicuri che davvero non ci sia, su 369 pagine, almeno una frase degna di nota. E non c’è, ve lo assicuro. A parte il titolo, che è veramente bello, e che riesce a battere persino “La solitudine dei numeri primi” per contrasto tra un titolo promettente e una storia fiacca e deludente.

Il tocco della sposa, di Nevio Manente

Cominciamo col dire che l’inserimento del romanzo “Il tocco della sposa” nella categoria “Mistery” da parte della casa editrice è quantomeno fuorviante. Ci troviamo infatti di fronte ad un romanzo che trae i suoi spunti da quella ricca narrativa umoristica e popolare (nel senso migliore del termine, cioè non elitaria) che va da Guareschi a Calvino fino al più recente Vitali.
Una narrativa leggera, quindi, fresca, talmente piacevole da leggere che un po’ ci dispiace essere arrivati in fondo. L’autore è bravo nella scelta dei tempi e nel tratteggio divertito di quadretti rappresentati con cura lessicale (il mio preferito è il dibattito tra i novelli Don Camillo e Peppone sul nome da dare al paese).
? un’opera prima e come tale preserva quella spontaneità e quell’inventiva (magari qualcuno dirà anche un po’ di ingenuità) che fanno di questi lavori una categoria a sè stante.
La storia è quella di due coppie, una di giovanissimi adolescenti alle prese con i primi approcci con l’altro sesso, l’altra appena un po’ più grande di ventenni universitari. Sullo sfondo, un paese che dopo aver conquistato l’autonomia comunale vuole riscrivere la sua identità, a cominciare dal suo nome. La sposa del titolo è una donna che ha vissuto un amore travagliato in quel paese e di cui si racconta una leggenda che qui non è il caso svelaree che lascio ai fortunati lettori di questo romanzo.

Non stanotte almeno, di Silvia Totò

Capita spesso di leggere romanzi di esordienti o comunque scrittori alle prime armi che a fronte di una cura maniacale per la forma e la ricerca della parola ad effetto, denotano una certa carenza nell’ossatura, nella storia da presentare.
Autori insomma che sanno scrivere, ma non hanno niente da raccontare. Nel caso invece di “Non stanotte almeno”, opera prima di Silvia Totò, si rimane spiazzati perché la situazione è diametralmente opposta. L’autrice ha infatti una bella storia da raccontare, la vicenda di una ragazza che prima di trovare il coraggio di intraprendere una storia d’amore seria deve vincere i fantasmi di un passaggio irrisolto.
La Totò è abilissima nel delineare contemporaneamente la trama principale e una serie di sottotrame efficaci, spostando continuamente il piano d’azione che confluisce verso un finale consolante ma non consolatorio. E però, di fronte ad una bella “fabula”, è l’intreccio che ogni tanto delude: l’impressione è quella di una storia scritta d’impulso alla quale una seconda riscrittura, per arricchire il lessico, rivedere alcuni passaggi bruschi e curare un po’ di più il registro avrebbe sicuramente giovato. Niente di grave, per carità; solo la storia, intensa e spontanea, sarebbe emersa in maniera più efficace, mentre adesso è un po’ spezzettata in quadretti isolati.
A questo punto, aspettiamo Silvia alla seconda prova, il potenziale c’è, occorre un po’ di sacrificio per farlo crescere…

La solitudine dei numeri primi

Il titolo è veramente molto bello. E anche la copertina è una di quelle che si ricordano. E poi? E poi un gran lavoro di editing, la capacità di gestire con maestria i tempi, il colpo di scena la momento giusto, l’equilibrio da manuale di scrittura che copre un vuoto pneumatico di idee e passione.
Personaggi disegnati con l’accetta, genitori cattivissimi, giovani alla continua ricerca della scena madre cinematografica, incomunicabilità eretta a letteratura. Storia inconsistente costruita che si regge sull’autocompiacimento della scrittura e poco altro, molta da mostrare e poco da raccontare.
L’autore ha un certo gusto per il trucido e il ripugnante che fa tanto moderno, quella mancanza di rispetto nei confronti del lettore che piace ai critici e la capacità di infilare qua e là qualche riferimento interessante. Ma se questo è il meglio che la letteratura italiana di oggi ha da offrire, allora vengono in mente Benigni e Troisi.
Non ci resta che piangere…

Farfalle Rosse

Due studentesse universitarie vengono ritrovate assassinate a Bologna: l’assassino ama firmare i suoi delitti perché tinge di rosso i capelli delle sue vittime e le sottopone, dopo averle uccise, alla pratica barbara dell’infibulazione.
Sono le “farfalle rosse” del titolo del romanzo di Filippo Maria Andreani edito da Il Filo: alla caccia dell’assassino si muoveranno l’ispettore Carini e l’agente Nisi, una coppia di poliziotti che fanno rivivere riaggiornandolo ai giorni nostri il dualismo classico tra poliziotto esperto e meditativo e giovane irruento e istintivo.
Tecnicamente si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, che offre parecchi spunti di riflessione: il confronto tra il mondo universitario delle vittime e quello degli agenti di polizia, attraversato, nonostante le diverse prospettive culturali, dalle stesse pulsioni e dagli stessi sentimenti; il ruolo della donna nella civiltà contemporanea, visto che le vittime subiscono una pratica ancora in uso in alcune popolazioni del terzo mondo, volta a “preservare” un’idea per noi incomprensibile della sessualità femminile; il fascino del male, perché al contrario di certe storie dozzinali da fiction di quarta serie, qui non si capisce nettamente chi siano i buoni e chi cattivi, e questi ultimi non sono certo gli stereotipati killer in cerca di vendetta.
E ancora, l’idea che chi conosce bene il sistema della giustizia in senso lato, sa come scardinarlo e prednersi gioco di chi ne fa parte. Di più non posso raccontare, perché il racconto è pieno di indizi e false piste, e svelarle sarebbe, quello sì, un delitto…