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L’editorazzismo: come l’editing ha stravolto la narrativa gialla

Che la narrativa cambi, si adatti ai tempi, si evolva, è un dato di fatto. Nel caso del romanzo poi questo è ancora più evidente, visto che con i suoi quattro secoli o giù di lì rappresenta un modello di composizione relativamente giovane, se confrontato ai millenni della poesia in versi, per esempio.

Ho deciso allora di svagarmi con un passatempo che non ha nessuna valenza scientifica o critica, ma è solo un diletto più o meno intelligente. Ho scelto due romanzi di genere, in particolare due romanzi di genere giallo, che avessero qualcosa in comune, e appartenessero però a periodi storici diversi. E mi sono divertito a confrontarli. Gioco a carte scoperte sin da principio. Sono un amante dei classici, detesto il modello industriale che gli editor negli ultimi anni hanno imposto alla narrativa, quello che definisco provocatoriamente editorazzismo; quindi, tra i due non c’è stata assolutamente gara e non farò nulla per nasconderlo.  I due romanzi in questione sono Il profumo della dama in nero di Gaston Leroux del 1908 e Il caso Alaska Sanders di Joël Dicker del 2022. Se temete le anticipazioni, non preoccupatevi, non svelerò nulla del finale.

Cos’hanno in comune questi due romanzi in apparenza così lontani e diversi tra loro? Il fatto di essere profondamente legati ad altre opere di successo degli stessi autori, tanto da poter essere addirittura considerati dei seguiti: Il mistero della camera gialla nel caso di Leroux e La verità sul caso Harry Quebert nel caso di Dicker. Direttamente connessa a questo aspetto c’è la presenza di un personaggio più evocato che raccontato: Frédéric Larsan nel primo caso, Harry Quebert nel secondo. Più tenue infine il legame tra i due protagonisti, che in comune hanno il fatto di non essere investigatori di professione: Rouletabille è un giornalista, Goldam uno scrittore.

Le affinità, come vedremo, finiscono qui: oggi nessun grande editore pubblicherebbe il capolavoro di Leroux. Appartiene infatti a una razza reietta per il semplice motivo che viola quasi tutte quelle famose regole commerciali di cui parlavo prima. Regole che invece Dicker rispetta al punto tale che il suo lavoro le incarna, ne è completa identificazione. Se esistesse un Premio Nobel per gli editor, lo dovrebbero vincere quelli di Dicker.

Ma procediamo con ordine: nel romanzo di Leroux abbiamo una coppia di sposi, Robert Darzac e Mathilde Stangerson che chiedono aiuto a Rouletabille, il giornalista investigatore, una specie di Sherlock Holmes più empatico e appassionato; qualcosa non va, un’ombra del passato è tornata a manifestarsi (uso il punto e virgola solo perché tanto non ho un editor che me lo impedirebbe, perché per loro il punto è il virgola è il male). Si tratta del primo marito di Mathilde (la dama in nero del titolo), Larsan, che nel primo romanzo della saga, Il mistero della camera gialla, tutti davano per morto. E con la trama mi fermo qui, aggiungendo che non mancano alcuni capisaldi del genere: la suspense, il colpo di scena, le false piste.

E veniamo a Dicker. Siamo a Mount Pleasant nel New Hampshire, ma potremmo essere a Los Angeles, nel Mozambico o a Molinella: anticipando una delle riflessioni successive, vi anticipo che l’ambientazione non ha nessuna rilevanza. Come il titolo anticipa, la vittima si chiama Alaska Sanders, il colpevole confessa e si uccide. Ma le cose non sono andate davvero così: ci troviamo insomma di fronte al più classico del cold case, cioè quelle indagini su casi irrisolti – o risolti senza trovare il reale colpevole – decine di anni prima. Protagonista della vicenda sono il sergente Perry Gahalowood, che aveva seguito malamente la prima indagine, e il suo amico scrittore Marcus Goldman, l’autore de La verità sul caso Harry Quebert, precedente romanzo di Dicker. Questo è lo spunto più originale di questo lavoro, il dettaglio che il protagonista sia un alter ego dello scrittore. Anche qui, come detto, abbiamo un fantasma che ritorna dal passato, Harry Quebert in persona, anche se con un ruolo marginale, più da life coach (altro aspetto che piace tanto ai contemporanei, quei due o tre consigli della nonna su come scoprire te stesso e vivere felice inseguendo un sogno).

E con la storia fermiamoci qui, spero di avervi invogliato a leggerli perché leggere fa sempre bene. Divertitevi, se volete, a dare un’occhiata alle recensioni più attuali dei due autori: sono in tanti a massacrare il povero Leroux, segno di quanto il gusto moderno sia stato modificato dalla combriccola degli editor. Qualcuno a cui non è piaciuto Dicker c’è pure, ma i toni sono per lo più positivi: il romanzo infatti è un perfetto esempio di midcult secondo la definizione di Dwight Macdonald: ha una trama riconoscibile, temi consensuali, stile comprensibile facile facile facile, non troppo originale, non troppo eccessivo.

Se dovessi fare un paragone, direi che il romanzo di Leroux è una sonata di Beethoven: parte lentamente, rallenta, accelera, si prende delle pause, ha dei picchi e poi delle frenate, divaga e illumina. Dicker è più che altro una compilation di reggaeton latino americani: sempre orecchiabili, sempre di facile ascolto, sempre lo stesso dannato ritmo. Il lettore contemporaneo medio lo adora, mentre invece lamenta la lentezza di Leroux, le sue pause, le sue divagazioni, la sua introspezione psicologica. Il romanzo francese infatti viola quasi tutte le regole di Santa Maria dell’Editing: descrive a lungo ambienti e paesaggi, con dovizia di particolari, in alcuni passaggi basta chiudere gli occhi per sentirci lì, sulla Costa Azzurra, giusto pochi chilometri dentro i confini italiani. Queste descrizioni aggiungono qualcosa alla storia? Niente. Un editor contemporaneo le avrebbe cancellate senza pietà, non producono jump scare e peggio ancora rallentano l’arrivo dello story twist: non va, caro Leroux, il lettore a quel punto si sarà messo a cercare su youtube gattini sovrappeso che camminano sui cornicioni. Come anticipavo prima, il romanzo di Dicker avrebbe potuto essere ambientato ovunque perché non c’è traccia di descrizioni, paesaggi, ambienti, se non quelli indispensabili alla storia. E non è solo una questione immaginifica: è il contesto anche sociologico a mancare completamente. Quegli eventi avvengono lì ma sarebbero potuti accadere altrove, i paesi sono solo uno scenario, non sono parte della vicenda. Al contrario Leroux è ossessionato dai risvolti psicologici dei suoi personaggi e del contesto angosciante che i suoi protagonisti vivono, prede impotenti che si sono rinchiuse nella loro stessa prigione.

Per non parlare dell’infodump, altro mantra degli adepti dell’editorazzismo: si tratta insomma dell’errore dello scrittore che fornisce troppe informazioni, tutte insieme, al povero lettore, senza che queste aggiungano nulla allo svolgimento. Per carità, può capitare, ma gli editor di oggi vedono il lettore come un disgraziato semianalfabeta che non può reggere a troppe subordinate causali. Che abbondano in Leroux, e sono completamente assenti in Dicker. Quest’ultimo ha uno stile leggerissimo, semplice: una azione dopo l’altra, una vicenda dopo l’altra, nessun salto, nessuna evocazione, tutto straordinariamente lineare, sempre paratassi, via l’ipotassi. Legata al dogma dell’infodump c’è poi il primo comandamento fondante della combriccola: show, don’t tell. Lo scrittore deve mostrare, non raccontare. Anche in questo caso, mio caro Leroux, la invitiamo a rileggere il suo manoscritto: la storia c’è, per carità, ma c’è un eccesso di raccontato. Inutile dire che nessun editor oggi potrebbe leggere Dostoevskij o Tolstoj senza contorcersi sul divano.

Non parliamo poi della cosiddetta narrazione a focalizzazione zero, quella cioè del narratore onnisciente che vede e giudica. Anatema! Un buon editor come minimo brucerebbe un manoscritto del genere e chiamerebbe poi un prete esorcista per cacciare gli spiriti maligni che potrebbero aleggiare nella stanza. Indovinate dove c’è questo narratore e dove no, nel mio confronto?

Non parliamo poi del colpo di scena. Lo scrittore contemporaneo deve essere ossessivamente realistico e credibile: niente conigli tirati fuori dal cilindro. Leroux, come gli autori del suo periodo (ah, che invidia), se ne infischia della verosimiglianza. Qui devo essere sincero: persino io ho sollevato un po’ il sopracciglio, perché alla fine sono un lettore dei miei tempi ed evidentemente ho assorbito un po’ di editorazzismo. Neanche Dicker scherza però, su quest’ultimo aspetto.

Potrei continuare ancora, ma mi fermo con un’ultima riflessione. C’è stato un periodo in cui gli scrittori pensavano al proprio romanzo già in chiave di trasposizione cinematografica: tempi giusti per rientrare nell’ora e mezza o due di una proiezione, senza fare ammattire lo sceneggiatore. Dicker va oltre. La sua è praticamente già la sceneggiatura di una serie televisiva in dieci puntate: ci sono persino i cliffhanger alla fine di ogni puntata. Il metodo è talmente industriale da risultare stupefacente.

In conclusione, io non ho nulla contro i romanzi contemporanei scritti come Il caso di Alaska Sanders: appassionano, divertono, sono un ottimo passatempo. Quello che non sopporto è la combriccola di editor e le loro regole ortodosse che fanno sì che tutti gli autori di gialli, oggi, devono mirare a scrivere qualcosa come Il caso di Alaska Sanders.

Consentitemi uno sfogo personale: se è il prezzo da pagare per avere successo, mi tengo stretti i miei venticinque lettori.

Cronache marziane, di Ray Brandbury

Risulta sempre particolarmente affascinante leggere testi di fantascienza ambientati in un futuro anteriore che poi non si è concretizzato, o che ha preso forma diversamente da come gli scrittori avevano immaginato.

In questi racconti che possono ormai essere considerati un classico, Brandbury considera più probabile che l’uomo del terzo millennio colonizzi Marte piuttosto che i neri raggiungano una emancipazione dignitosa. È andata peggio? Meglio? Chissà.

La raccolta ha una peculiarità, e cioè i racconti seguono un percorso cronologico, dall’arrivo dei primi colonizzatori sino al finale che non mi sembra corretto anticiparvi ma che non sorprenderà chi conosce un po’ l’autore.

Alcuni interpreti ritornano più volte, altri sono continuamente evocati, come i marziani, che qui non sono né brutti né mostruosi, ma semmai talmente angelici da far vergognare noi esseri umani per la nostra pochezza. Dal momento che i racconti sono stati scritti in periodi diversi, anche lo stile ne risente: dalle avventure quasi western dei primi, alle meste riflessioni escatologiche degli ultimi. I miei preferiti? Quello del marziano che cambia sembianze e carattere a seconda delle persone nei cui ricordi si rispecchia e quello dei due abitanti solitari che scoprono al telefono di non essere più soli, salvo essere delusi poi dell’incontro.

Sia chiaro, siamo lontani dall’ottimismo fanciullesco della fantascienza disneyana di Star Wars o dei fumetti Marvel, così come il discorso meramente scientifico alla Asimov passa in secondo piano (Brandbury non ci spiega mai come si respira su Marte, perché semplicemente non gli interessa).

Sono i meandri della psiche umana a interessare lo scrittore, e l’abisso nel quale siamo condannati a sprofondare non sembra evitabile nemmeno dall’altra parte della galassia.

Come vento cucito alla terra, di Ilaria Tuti

Faccio una premessa doverosa: chi scrive, anche a livello dilettantesco, è spesso invidioso nei confronti di chi ha più talento e più successo. Aggiungo poi che sono mesi che mi sento dire “Devi leggere Tuti” “Ah io leggo solo Tuti” “Tuti Tuti, Tuti tutto l’anno” per spiegare che mi sono avvicinato a questo romanzo pieno di aspettative e pregiudizi, in parte ahimè confermati.

Gli ingredienti più amati da un certo pubblico ci sono tutti: donne talentuose, coraggiose, eroiche, intelligenti, brillanti, circondate da uomini ridicoli, stucchevoli, stupidi, insignificanti, infantili. Nella migliore delle ipotesi, teneri coccoloni da proteggere e consolare, non è colpa vostra in fondo se siete maschi. Non manca neanche la sotto trama di discriminazione LGBT senza la quale oggi non sei nessuno. Sia chiaro, la confezione è perfetta, sin troppo studiata: dialoghi sagaci in cui le donne accettano il ruolo di salvare il mondo con garbo e determinazione, intervallate da lunghe e dettagliate descrizioni di ferite, mutilazioni, cancrene e infezioni per dire che la guerra è una roba da maschi, e pertanto fa schifo.

La storia: un gruppo di donne chirurgo decide di salvare soldati gestendo in autonomia ospedali. L’establishment maschilista fa di tutto per contrastarle, specie quando si mettono a insegnare il ricamo ai soldati mutilati dalla guerra. Fine. Non succede altro. Va detto che l’autrice spiega nelle note di essersi ispirata a vicende reali, e questo probabilmente ne ha limitato le possibilità espressive. In qualche momento c’è un po’ più di tensione sul campo (molto valido il tentativo di stanare il cecchino), ma giusto un po’.

C’è spazio anche per la famiglia reale, o almeno per la parte cool, cioè quella composta da donne.

Ovviamente Cate, la protagonista, ha l’intelligenza di Einstein, il coraggio di Wallace e i muscoli di Rambo, grazie ai quali salva due volte un maschietto appena più decente degli altri che si caccia sempre nei guai.

Ho come l’impressione che queste storie non facciano un gran servizio alle sacrosante rivendicazioni del femminismo e alla lotta per l’emancipazione femminile, ma che volete, sono solo un maschio invidioso.

Chiudo con un paio di citazioni, se volete leggetele ad alta voce con il sottofondo di “The eye of the tiger” dei Survivor e alla fine vi sembrerà quasi naturale gridare “Adrianaaaaa”.

“La sua voce era calma mentre il loro mondo andava in fiamme. Cate capì che ciascuno di loro in quegli attimi concitati sentiva di avere un destino da compiere, e non poteva sottrarsi senza in seguito doverne rendere conto a se stesso”.

“Le luci barbare che la notte ardevano nelle latebre delle prime linee non erano solamente quelle delle torce da campo. Era l’anima a bruciare di puro istinto, a sopravvivere perché dimentica di tutto ciò che era stata nella vita precedente; un altro sé, fino ad allora rimasto sopito, si era risvegliato e faceva digrignare i denti (…)”

“Ciascuna di loro era chiamata a stare in piedi davanti alle proprie rivendicazioni, e non solo metaforicamente. Era la storia a chiamarle, era il sacrificio delle compagne rinchiuse in cella e torturate, e ancora di più di quelle percosse dentro le mura di casa”.

L’ora del mistero. Come tornare bambini di fronte a una serie che ha fatto la storia

Avevo una decina d’anni, la televisione d’estate di solito non proponeva granché, a parte i Giochi senza frontiere e le solite commedie con Bud Spencer. Però quella sera la guardai, evidentemente non avevo nulla di meglio di fare, in prima serata su Rai Uno. Trasmisero un breve film di 70 minuti talmente claustrofobico e angosciante e con un finale così stupefacente, che non ho fatto che pensarci per anni. Magnifico.

Però noi non avevamo Internet né servizi streaming, e anche i videoregistratori sarebbero arrivati tempo dopo. Per cui solo la memoria poteva fissare l’emozione, e magari la condivisione il giorno dopo con qualche amico che avesse visto lo stesso programma. Potete immaginare la sorpresa e l’entusiasmo di riscoprire quel breve film su Prime Video, rendermi conto che si chiamava “Un gioco da bambini” e che faceva parte di una serie di 13 episodi prodotti per la tivù inglese a metà degli anni Ottanta, indipendenti uno dall’altro, intitolata in italiano “L’ora del mistero”. Il nome inglese “Hammer House of Mystery and Suspense” forse dirà qualcosa agli amanti del genere horror, visto che la Hammer Productions è una celebre casa di produzione che nel secondo dopoguerra ha realizzato decine di film (di qualità spesso discutibile) con Dracula e Frankenstein. La mano della Hammer si sente in questa serie, è inevitabile. Uno dei cliché più ripetitivi è quello dell’incredulo, il personaggio cioè che di fronte a fenomeni paranormali nega fino alla fine, e di solito non è una bella fine. Poi ci sono le corna, tante corna, quasi in ogni puntata. L’altro, che a me ha fatto sorridere, è il fatto che prima o poi le protagoniste (bellissime) vengono colte nel sonno in sottoveste e devono fuggire o correre mostrandosi in abbigliamento intimo. Alla Hammer piacevano certe situazioni pruriginose che oggi troviamo ridicole ma all’epoca evidentemente erano il massimo che si potesse chiedere a una serie televisiva in prima serata. Sul fronte tecnico, abituati come siamo a effetti speciali, uso spericolato della fotografia, inquadrature originali, sappiate che la regia è spesso più piatta delle ripresa di uno spettacolo parrocchiale (con diverse valide eccezioni), i colori sono quelli di una serie tivù di quaranta anni fa e il doppiaggio di tanto in tanto si perde la traduzione italiana: non litigate con il telecomando, è proprio la versione online ad avere qualche carenza.

Detto ciò, ecco di seguito i miei commenti alla serie, episodio per episodio: a parte le donne in sottoveste, si spazia dall’horror allo spionaggio, dalle storie di fantasmi al giallo più tradizionale, cercando sempre il colpo di scena finale. Purtroppo “Un gioco da bambini” è l’unico veramente straordinario; degni di nota anche “Salto nel tempo” dello stesso regista, il grottesco e stralunato “Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers?” e soprattutto “Un grido lontano”. Per gli altri c’è molto mestiere, a volte talento, a volte né l’uno né l’altro. Ecco in ogni caso gli episodi con il mio voto, evito ovviamente di anticipare i finali che spesso presentano colpi di scena interessanti.

  1. Il marchio del diavolo. Voto: 3

Uno dei peggiori della serie, superato solo dal leggendario “Il campo da tennis”, davvero non capisco la sequenza scelta dai produttori perché immagino che molti spettatori abbiano abbandonato dopo questo episodio. Il protagonista è Sberla dell’A-Team (sì d’accordo l’attore ha un nome ma per la mia generazione è Sberla dell’A-Team), che fa il piacione squattrinato. A causa di una sua cattiva azione, un misterioso tatuaggio comincia a espandersi sul suo corpo. Dopo la buona idea iniziale l’episodio scivola verso il finale più scontato e prevedibile della serie.

  1. Il video testamento. Voto: 6

La trama sembra uscita da una commedia con Nando Buzzanca e Renzo Montagnani: un anziano è sposato con una giovane bellissima che però trova sollazzo con carni ben più giovani. Non tutto andrà come previsto. C’è il tema della tecnologia che oggi risulta obsoleta ma che all’epoca doveva destare una certa inquietudine (videocamere e registrazioni che torneranno anche nell’Eredità Corvini), c’è una cattiveria di fondo che però non disturba, anzi solletica il sadismo dello spettatore. Mistero però poco.

  1. Accadde a Praga. Voto: 6,5

Episodio abbastanza insolito, visto che siamo nel mondo delle spy-story, con una suggestiva ambientazione nella Praga sovietica. Una donna si ricongiunge con l’ex marito che la porta con sé per un viaggio di lavoro a Praga e poi sparisce. Che ne è stato di lui? Un po’ piatto come giallo, dalla storia ingarbugliata per non dire confusa, che però si riscatta con un finale inatteso.

  1. Un grido lontano. Voto 7

Bellissima ambientazione in un hotel sulla scogliera, dove una coppia di amanti si rifugia al riparo dal marito di lui. Un uomo misterioso però spia la donna. Chi è? Il suo amante stesso, invecchiato e moribondo, che ritorna dal futuro per comprendere quello che da allora lo angoscia. E in un ribaltamento spazio temporale tipico della fantascienza ecco che il destino dell’uomo del futuro è segnato proprio dal suo viaggio nel tempo. Qualche ingenuità di troppo tipica della serie che non vi svelerò, ma merita.

  1. La defunta Nancy Irving. Voto?

Il più misterioso di tutti, visto che da Prime Video è scomparso. Non c’è. Evidentemente non sono riusciti a recuperare una versione qualitativamente decente del video, o più probabilmente del doppiaggio.

  1. Salto nel tempo. Voto 8

Come anticipato, questo è un altro episodio che con un uso sapiente di rallenty, soggettive, colpi di scena e musiche di commento in alcuni momenti riesce davvero a mettere paura. Una coppia sta per lasciare l’appartamento a Londra per trasferirsi all’estero a causa del lavoro di lui, ma l’ultima notte una serie di apparizioni li fa cadere nella più profonda angoscia. Che siano fantasmi? Che si tratti di un appartamento stregato? Attendete il finale per scoprirlo, ma godetevi anche il resto.

  1. Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers? Voto 7,5

Sicuramente il più “Hammer” episodio della serie, perché qui c’è veramente di tutto, omicidi, misteri, necrofilia, villaggi dannati, personaggi fuori di testa, musica rock. Mescolato in maniera a volte arbitraria ma proprio per questo ancora più divertente. Uno scrittore e una giornalista devono scoprire cosa è successo ai Verne Brothers, coppia di musicisti di successo scomparsi anni prima, di cui nessuno sa più nulla. C’è la nebbia, il paesino abbandonato, il finale teso anche se un po’ prevedibile. Come verosimiglianza siamo a livelli bassi, ma cosa importa? Un episodio che sarebbe piaciuto a Shalaman, e chissà che non l’abbia visto.

  1. Il dolce profumo della morte. Voto 6,5

Eccoci di nuovo nell’ambito del giallo più classico. C’è una dimora di campagna isolata (un elemento classico della serie) e una donna perseguitata dal suo passato. C’è un marito preoccupato ma molto preso dalla sua vita professionale (è un politico), c’è un finale coerente e credibile. Più Jessica Fletcher che mistero, a dirla tutta, ma si lascia guardare.

  1. L’uomo che dipinse la morte. Voto 7

Come sempre i titoli in italiano svelano più di quanto non dovrebbero. Però se vi dico che c’è un pittore che dipinge la sua morte non svelo troppo, perché è proprio questo l’incipit della storia. Un artista si finge morte perché i suoi quadri acquistino valore, nel frattempo la moglie si distrae con il commerciante d’arte e scopre che spassarsela con lui mentre il marito dipinge chiuso nella soffitta non è poi così disdicevole. Interessante la critica del mondo dell’arte, belli anche i quadri anticipatori, unico elemento paranormale estraneo alla solida costruzione gialla, il problema dell’episodio è il finale: se di solito sono il punto di forza dell’Ora del mistero, questo invece è veramente scontato.

  1. L’eredità Corvini. Voto 7

Forse il più cinefilo episodio della serie, tra Hitchcock, De Palma, Polansky e Cronenberg, girato molto bene anche se decisamente lento e in alcuni momenti addirittura noioso. Forse è il più profondo ma non necessariamente il più appassionante. Come al solito finale sorprendente anche se dalla collana maledetta mi sarei aspettato qualcosa in più.

  1. La parete maledetta. Voto 5

I temi cari all’horror ci sono tutti. La setta satanica, la chiesa maledetta, il dipinto nascosto. E poi la bella funzionaria che crede nel paranormale, i costruttori preoccupati del rispetto dei tempi (ma quando mai? In Inghilterra, forse, in Italia dopo il primo omicidio avrebbero chiuso il cantiere per cinque anni almeno), il giovane che fa disegni misteriosi e inquietanti. Il tutto però è parecchio raffazzonato, tirato via, gli attori recitano sopra le righe, la regia ha un’unica buona idea, quella del dipinto satanico che non riusciamo mai vedere se non per qualche macchia di colore.

  1. Un gioco da bambini. Voto 10

Non vi dirò assolutamente nulla. Dovete guardarlo e basta. Capolavoro.

  1. Il campo da tennis. Voto 2

Purtroppo il finale crolla nel comico involontario. In assoluto il peggiore episodio della serie, ha tutti i difetti della Hammer (donne svestite e sin troppo libertine, trucchi splatter di pessima fattura, paranormale di bassa lega, risparmio sui costi) senza avere quel mistero che invece caratterizza altri episodi. Qui a essere maledetto è un campo da tennis, ma lo spirito che vi aleggia non è quello di un morto, ma di un vivo che ha in parte abbandonato il suo corpo (e già qui…). Nonostante le palline sanguinantI e i rumori notturni, il capannone però non ha il fascino di una vecchia magione o di una cantina dimenticata.  Il finale da esorciccio poi davvero non si può guardare, nonostante il successivo tentativo di ribaltamento, ancora più irritante. Vi dico solo (e pazienza se faccio un po’ di spoiler, questo film va visto per quanto è brutto, la trama non c’entra) che in pieno stile Ed Wood, la trama si sposta tra il presente e il passato: ma mentre il protagonista, per rendere la storia più credibile, è interpretato da due attori diversi, uno giovane e l’altro anziano, gli altri due per risparmiare sono interpretati dagli stessi attori a cui aggiungono giusto qualche capello bianco. Argh!

Pietoso a dir poco, per non parlare dell’esperto di paranormale, il peggior personaggio dell’episodio, della serie, del cinema di tutti i tempi forse. Ammazza che zozzeria.

La boutique del mistero, di Dino Buzzati

Alla fine comunque si muore. Per fortuna, verrebbe quasi da dire.
Il titolo della raccolta di racconti di Dino Buzzati “La boutique del mistero” potrebbe trarre in inganno: non si tratta di un giallo su una commerciante di abbigliamento che fa la serial killer. Il mistero cui fa riferimento il titolo è il mistero per eccellenza, cioè la morte, e i sentimenti a lei connessi: l’angoscia, la paura, l’ansia.

I presagi della morte, che siano una malattia o il naturale invecchiamento, diventano così lo spunto per riflettere su quel pensiero che, volenti o nolenti, turba tutti noi. Sia chiaro però che qui non siamo di fronte a racconti semplicemente cupi, al contrario: il talento di Buzzati, complice anche il fatto che i racconti sono stati scritti in epoche diverse, sta nel cambiare registro, ritmo, stile addirittura viaggiando dall’epica bellica al racconto realista, dal fantastico al gotico passando persino per il fantascientifico.

Non manca poi quel tocco di umanità che l’autore ci regala mettendosi in gioco in prima persona di tanto in tanto e lasciando spazio a una speranza spirituale.

Ognuno potrà scegliere il preferito, alla fine rimane solo un rimpianto. Se Buzzati fosse vivo oggi, altro che Stranger Things, Black Mirror, The Loop o Russian Doll, chissà che razza di serie imperdibili potrebbe scrivere. Anche perché, a ben guardare, la stragrande maggioranza degli espedienti narrativi del genere fantastico li aveva messi in campo con cinquanta anni di anticipo. Compreso l’inevitabile finale: alla fine, comunque, si muore.

Consigliatissimo a chi vuole anticipare le atmosfere del 2 novembre senza scadere nella narrativa grossolana e truculenta di zucche, spaventapasseri e dolcetti scherzetti.

Noiosa da morire. Recensione della fiction di Rai Uno con Cristiana Capotondi

Amo particolarmente le serie televisive, soprattutto quelle brevi: capolavori di scrittura come Modern Love, dall’impatto visivo notevole come The Loop, spassose e irriverenti come Good Omens, persino dai risvolti insospettabilmente profondi come The Good Place (viste tutte su Prime Video). Per non parlare dei classici come la Signora in Giallo o delle indimenticabili situation comedy come Friends, How I met your mother, The Big Bang Theory. Se il format era già vincente di per sé, perché per esempio con una miniserie si può raccontare un romanzo in maniera più rispettosa che in un film, perché la durata è più flessibile,  oggi con le tv via streaming il successo è diventato dirompente. Penso, per citarne solo alcune, a Stranger Things, Arsenio Lupin, La Regina di Scacchi e Black Mirror di Netflix. Senza contare che la Marvel edizione Disney userà sempre di più questo strumento, come ha già fatto con Wanda Vision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier.

Questa lunga e fondamentalmente inutile premessa (ma il blog è lo spazio delle inutili divagazioni che non mi posso permettere né da addetto stampa né da romanziere) serve solo ad attestare che le serie mi piacciono, ma soprattutto mi piace parlare di quelle riuscite male. Perché tanto le stroncature sono un genere che i giornali non possono permettersi più (chi lo sente poi l’editore), al massimo se qualcosa non ti piace non ne scrivi.  E invece io ne voglio scrivere eccome.

La stroncatura di oggi è dedicata alla fiction (chissà perché usiamo questo termine inglese che gli inglesi non usano) “Bella da morire” di Rai Uno. Perché ho cominciato a guardarla? Perché noi italiani con le serie balbettiamo un po’, per carenze di risorse e di scrittura, scivoliamo troppo spesso nella sciatteria. Non siamo capaci per esempio di scrivere serie comiche (e dire che nel cinema invece è un genere in cui eccelliamo),  i tentativi di situation comedy sono tutti facilmente dimenticabili. Lasciamo perdere poi il fantasy o la fantascienza, lo storico è spesso limitato ad agiografie di santi religiosi e laici. Nel poliziesco, però, abbiamo una certa competenza. Anche perché gli sceneggiatori possono saccheggiare da una letteratura piuttosto ricca e variegata: facile citare Andrea Camilleri con il suo immortale Montalbano, ma anche l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli è da anni un cult. Tra gli ultimi arrivi l’Imma Tataranni di Mariolina Venezia e l’Alligatore di Massimo Carlotto. Poi capita però che qualcuno scriva storie originali per la tivù. Insomma, dopo aver visto un bel film del regista, Andrea Molaioli, che si era fatto apprezzare per le atmosfere da thriller nordico de “La ragazza del lago“, ho voluto provare.

Ed è arrivato il patatrac.

Bella da morire” è una serie in otto puntate basata su un soggetto che avrebbe potuto reggere al massimo un lungometraggio di un’ora e mezza, due al massimo. C’è un omicidio, le indagini, un paio di false piste, il colpo di scena. Però mamma Rai ci tiene a fare un prodotto “educational” contro la violenza sulle donne, e allora dacci dentro con monologhi moraleggianti, dati e statistiche sul femminicidio snocciolati in dialoghi surreali. E poi tante sottotrame sentimentali, troppe.
Un lago c’è anche qui, e anche una ragazza: peccato però che Cristiana Capotondi, la protagonista, ricordi il primo Clint Eastwood dei western di Sergio Leone, quello che per intenderci aveva solo due espressioni: con il cappello e senza. Solo che nel caso in questione non c’è neanche il cappello, e la protagonista si limita a sbarrare gli occhi tutto il tempo, probabilmente esterrefatta dalle battute che è costretta a recitare. Intorno a lei altri attori che abbiamo amato in altre serie: la Buffa e Gambero di Coliandro (Benedetta Cimatti e Paolo Sassanelli) l’Alligatore (Matteo Martari), persino una bellissima Lucrezia Lante Della Rovere che ha fatto tanto teatro e ci tiene che gli spettatori se ne accorgano.

Siccome i primi piani agli occhioni della poliziotta non bastano a riempire otto episodi, gli sceneggiatori si inventano improbabili sottotrame sentimentali per allungare il brodo. Intanto c’è la banalissima storia della protagonista con l’ispettore bello e tenebroso (con un passato opaco). Non solo: quasi tutti gli altri interpreti meritano una sottotrama: la sorella della protagonista ha la sua  complicata storia di ragazza madre, il padre ha problemi con il vicino, il procuratore capo (pure lei!) non sa scegliere tra amante e marito, il medico legale soffre per un amore impossibile. Per non parlare della famiglia della vittima. Il povero regista cerca di arrabattarsi con lunghe inquadrature del suo amato lago, aiutato da una buona fotografia, la disperazione lo porta persino a infilarci un paio di scene di sesso passionali quanto una puntata delle previsioni del tempo, ma alla fine sembra stufo anche lui.

C’è addirittura chi minaccia una seconda serie. Con la prima ho raggiunto il bonus noia per i prossimi dieci anni, non ci ricascherò. Cari sceneggiatori italiani, ce l’avete Netflix e Prime Video? Ecco, dateci un’occhiata. Imparare da chi è più bravo è segno di intelligenza.