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Quaranta

40anniUno dei più insopportabili luoghi comuni del cinema è quello per cui il protagonista rivede il film della sua vita un attimo prima di passare all’altra, di vita. Ma perché dobbiamo proprio aspettare l’ultimo momento, con la beffa poi di non poterlo raccontare a nessuno, questo film?
Io voglio rivederlo adesso, almeno qualche scena. Sta per cominciare il mio secondo tempo, voglio rivivere alcune scene salienti del primo. Ovviamente ci sono le scene davvero importanti, la laurea, il matrimonio, la paternità. Ma sono altre che adesso ho voglia di raccontare, dettagli che non rientreranno negli album dei ricordi ma che invece mi frullano per la testa adesso.
In una delle prime c’è mio padre che non riesce ad accettare che io metta un auto di traverso sul trenino elettrico tanto per aggiungere un po’ di pathos mentre mia madre si lamenta del disordine che facciamo con i nostri vagoni, scambi e stazioni. Poi c’è Antonio che dopo una partita a calcio in strada (e il portiere che urla ogni volta che un’auto si avvicina e fa sgombrare il campo) ci invita in casa a vedere il suo meraviglioso videogioco Atari. Wow. Tre stanghette al posto dei calciatori ma wow, quando segni ci sono i fuochi d’artificio. Altro che Playstation 4. Wow.
In un’altra c’è mio fratello entusiasta che apre il regalo del suo ottavo compleanno, una audiocasseta dei Poison (gruppo glam-metal), confermando i miei timori sul fatto che i miei gusti musicali avrebbero potuto influenzarlo negativamente. C’è mia sorella che mi accompagna preoccupata in qualche pronto soccorso dove finisco frequentemente per infortuni vari, c’è mio zio che mi accompagna allo stadio a vedere il Taranto che vince 2 a 1 contro la Juventus (e non era una amichevole, ma Coppa Italia: io c’ero). Ci sono gli anni della scuola elementare, il caschetto di ricci di Emma per fortuna copre buona parte della visuale della maestra, i tiri liberi dell’infallibile Andrea che si è allenato per lunghi pomeriggi con il canestro sotto il balcone di casa, da dove non puoi tirare da tre ma da sotto diventi invincibile.
Ci sono gli anni della scuola media seduti sul muretto ad aspettare che suoni la campanella con Mina che mi racconta nei dettagli quant’è ‘bono uno di terza che ha visto, e per quanto mi sforzi non riesco a partecipare alla conversazione, ma sì, sarà come dice lei, in effetti dev’essere proprio carino, poi quelli di terza sono tutti più belli.

E ce ne sono tante altre, di foto, nella mia testa. Ci sono quelle degli Ambarabaciccicogiochi organizzati con Carla, Fabiana e Rosa che mi fregano anche una fotografia del rullino della macchina fotografica che mi regalano per i 18 anni, pretendendo di avere sempre l’esclusiva. C’è quella con Paola che ride sfogliando il mio quaderno con le vignette mentre ce ne stiamo schiacciati nel 4 che ci porta a scuola a Taranto, e davvero ci vuole un un forte senso dell’umorismo per ridere in quella situazione.

C’è una festa di compleanno in cui Cristina mi tira per un braccio per costringermi a ballare invece di fare il musone (ma io facevo il musone nella speranza che qualcuno mi tirasse un braccio per costringermi a ballare).
In un’altra sequenza c’è Mirko che apparecchia il banco del liceo con tovaglietta, bottiglia, pane e posate per approfittare dell’ora di Filiosofia per un meritato banchetto (al liceo Battaglini non c’era la ricreazione, e non era l’unica cosa che mancava!).
C’è il quaderno di Cristina che passa sotto i banchi e a cui tutti aggiungono un pensiero o un commento (il social con vent’anni di anticipo!). E ovviamente c’è Piero che mi dà un passaggio in moto e che inaugura la fioritura del mio primo capello bianco a meno di diciassette anni. Il capello mi è venuto quando ha incominciato a impennare, per la cronaca.
L’ultima scena del liceo, una delle mie preferite, è quella dell’esame di maturità, prima di Caputo c’è, Dario, e gli chiedono di leggere e commentare “A Zacinto”. Dario prende l’antologia, comincia a sfogliare, sfoglia ancora, cerca, maneggia con un po’ di irritazione, quasi strappa le pagine, poi si gira verso di me e bisglia “Addo’ cazz ‘ste, Capu’?” E io gli rispondo che nell’indice deve cercare “Né più mai toccherò le sacre sponde”, e il momento di impasse è superato.
Sfoglio ancora il mio album di foto mai scattate. C’è quella in cui Sebastiano e Tonio vengono a salutare alla stazione di Bari me e Mario, che siamo di transito e viaggiamo verso nord, a chiusura di un’infanzia che abbiamo fatto durare vent’anni. Appaiono dal finestrino e sulle prime non sappiamo nemmeno se sono veri o un’allucinazione. Sono veri, se fosse stata una nostra allucinazione avremmo visto Sabrina Ferilli in bikini sui binari. In un’altra passeggio per le vie di Cesena con Annamara, abbiamo vent’anni e non sappiamo quello che accadrà, ma sappiamo che sarà bello, in un’altra Luigi a bordo della mitica Renault Cinque suona il clacson scatenato per festeggiare i goal di Baggio in America.

Poi ci sono quattro ragazzi, il sottoscritto e Nico, Daniele, Francesco e Pippo che fanno il giro delle Orcadi con uno scozzese che il quinto amico ha conosciuto su Internet (erano gli anni in cui su Internet si faceva amicizia con gli scozzesi o gli australiani tramite chat testuali, ed era fichissimo). Lo scozzese li ospita due giorni a casa loro e organizza anche un barbecue nel suo splendido giardino. “Quasi mi dispiace calpestare un prato così bello”, gli dico. “Oh, non preoccuparti – risponde lui – è un prato all’inglese. Va calpestato”.
C’è Umberto Eco che, dall’altra parte della scrivania, osserva la tesina preparata con Nico, e propone: facciamo così, vi faccio una domanda, se rispondete bene prendete la lode, altrimenti ventotto. Se rinunciate allora è trenta. I due impavidi eroi ci pensano due secondi, tirano subito fuori il libretto, trenta andrà benone, e non sapranno mai cosa sarebbe stato chiesto loro.
In un’altra immagine ci siamo io e Sara che scriviamo di Netizens seduti sulle sdraio da spiaggia che ho in casa, e che rappresentano l’arredamento del soggiorno, visto che lo zio di un inquilino aveva un bagno in Romagna.
Caspita quanto ho scritto. Bisogna velocizzare. Ma come faccio a non citare il primo giorno di lavoro in azienda, con di fronte la nordica Stella che mi fa pensare che sì, lavorare in azienda non è poi così male, come faccio a trascurare l’immagine di Barbara che si muove tra scatoloni, gadget e pacchi da imballare con un tacco dodici alla fine di un convegno mentre Kate la guarda scuotendo la testa? E potrei dimenticare Alessia che fa sciopero con i metalmeccanici ma siccome il nostro è un contratto del commercio è costretta a prendere un giorno di ferie? O Roberto con i suoi siti battaglieri che aggiorna di notte e che scatenano servizi segreti e antiterrorismo? No, non posso. Ho scritto tanto, ma posso dimenticare Emilio, Filippo e Carlo Fava che discutono di web design, programmazione e Mazinga Zeta nel loro “laboratorio creativo” in via Lame?
O la professionale Michela che cerca di spiegare ai vertici aziendali che con questa nuova azienda americana, Google mi pare si chiami, non basterà mandare una raccomandata per fargli cancellare dei link sgraditi? O Sara che ha il coraggio di entrare nel – fino ad allora – maschile universo del web marketing, introducendo in quel circolo di grezzoni il concetto di tinta, sfumatura ed eleganza?
In un’altra scena compro un mazzolino di fiori che ho preso per far pace con Margherita che ha commesso l’errore di domandare da che parte fa goal l’Italia durante la partita dei mondiali contro la Corea, scatenando i miei commenti sessisti.

Troppo materiale, davvero, bisogna tagliare. Forse avrei dovuto tagliare i tornei di calcio con i catechisti dell’anno Alberto, Marco, Matteo  che danno un nome aggressivo alla squadra della parrocchia, “Le iene”, ma ciò nonostante si vedono sempre superati da squadre di ospiti maleducati. Oppure lo storico 13-2 con cui la squadra messa su da Rocco chiude inglorosiamente un torneo universitario. E pensare caro Rocco che allora almeno avevamo il fiato! E ancora, le serate a giocare a fare i giornalisti del Baraccano con Giorgia con la povera Lorenza che cerca di mettere ordine, i giri su e giù per l’Appennino con quel testardo di Ermanno che vuole convincermi che al mare non si sta poi così bene, o forse vuole convincere se stesso.

Io non voglio tagliare proprio niente. Voglio tenere tutto nella mia capoccia, e di tanto in tanto ritirarlo fuori. Chiedo scusa a tutti quelli che non ho citato, perché non sono su Facebook o perché davvero, rischiavo di scrivere un papiro. E chiedo scusa anche a quelli che ho citato, potete sempre dire che mi sono inventato tutto.
Forse non siete in questo scritto, ma siete stati nei miei primi quarant’anni, e ci siete stati tutti con un ruolo determinante. Perché nel film dei miei primi quarant’anni non ci sono controfigure ma solo protagonisti.

Buon secondo tempo

40 anni di Beatles

Quella del 68 è stata un generazione che ha avuto il merito di conquistare il dominio culturale "generazionale" sui loro genitori ed il demerito di non mollarlo più nè per i figli, nè, ormai, per i nipoti.
Quando parlo di dominio culturale mi riferisco alla capacità di conquistare spazio sui media, nella politica, nell’arte, in modo da imporre i propri gusti: i sessantottini smontarono secoli di musica "alta" e ci piazzarono i Beatles, trasformando in musica d’elite persino quei generi, come il jazz, nati nei ghetti poveri. Dopo vent’anni hanno cominciato con il revival, disprezzando la musica anni 80 dei loro figli (musica commerciale, musica vuota, musica usa e getta, vuoi mettere John Lennon).  Vi ricordate i vari "Vent’anni dopo", "Sapore di mare", "Una rotonda sul mare"? Ora, quarant’anni dopo, uno potrebbe pensare che c’è stato un ricambio generazionale, che magari si ripropongono i programmi nostalgici, ricordando gli anni ottanta. Macché.
Sempre e comunque Beatles, di cui si festeggiano il quarantennale dell’uscita si Sgt.Pepper, sempre e comunque noi si che sapevamo vivere, noi sì che abbiamo cambiato il mondo, noi si che ci sapevamo fare. Ma basta! I Beatles sono stati un grande gruppo, ma questo non vuol dire che David Bowie, Queen, U2 e Rem (i primi che mi vengono in mente in un percorso post anni sessanta) non valgano nulla. Quando andranno in pensione i sessantottini che sui giornali si interrogano se siano meglio i Beatles o i Rolling Stones? Quando lasceranno cadere la penna gli sceneggiatori che ricordano e vivono solo di Piper, Bandiera Gialla e Woodstock? Secondo me è ancora presto.
Prepariamoci anzi ad un convegno "68, cinquant’anni dopo" fra una decina d’anni. A organizzarlo, sempre i soliti arzilli sessantottini inchiodati alla poltrona…