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Il futuro è Città 10

Le polemiche cittadine sull’istituzione a Bologna del limite di velocità a 30 chilometri orari sono superate, vecchie, inutili. Bisogna guardare avanti, guardare al futuro, osare, chiedere, pretendere di più.

E il futuro è Bologna città 10. Il limite di velocità infatti deve scendere ancora. D’altronde è provato che un impatto tra un’auto e un pedone a 50 km/h equivale a una probabilità di morte pari al 55%. Un impatto a 30 km/h può essere fatale “solamente” nel 5% dei casi. Un impatto a 10 km/h dà tempo al pedone distratto di scaccolarsi, spostarsi, nel caso appoggiarsi o sedersi sul cofano della vettura, liberarsi del prodotto interno lordo e riprendere a camminare con serenità.

Con città 10 sarà più facile trovare parcheggio, perché tutti andranno alla velocità di chi sbircia tra i marciapiedi per trovarne uno: non ci sarà più lo stress di quello dietro che ti suona, e maledette siano le Smart che sembrano sempre un posto libero e invece no.

Città 10 è anche l’occasione di apprezzare le belle ragazze che passeggiano, e seguirle in auto, senza correre il rischio di passare per maniaci: tanto a piedi vanno più o meno a 10 km/h anche loro. Ovviamente vale anche per i ragazzi.

Quante volte ci hanno ripetuto che non conta la destinazione, ma il viaggio? Finalmente è arrivato il momento di provarlo. Con città 10, una volta arrivato in ufficio dopo 3 ore, a quelli che ti chiedono com’è andata, potrai rispondere: è stato un viaggio! E nelle tre ore del tragitto di ritorno avrai tutto il tempo di finire quelle serie di podcast che com’è come non è non concludi mai.

Perché Città 10 è riscoprire le nostre origini, quegli anni in cui i nostri nonni caricavano il mulo con le granaglie e si avviavano pazienti verso la città, senza l’ansia e il logorio della vita moderna. Riscopriamo il mulo come mezzo di trasporto sostenibile, con Città 10 sarà finalmente possibile, con il ricorso anche ai cavalli quando necessario: carovane FlixHorse per i lunghi viaggi, calessi per raggiungere l’aeroporto, corriere che consegnano la merce trainate da possenti buoi.

Città 10 è una città più accogliente e inclusiva, con i bambini che giocano alla campana o con le biglie per strada e al limite si spostano quando passa qualcuno. Anche l’industria si adatterà, eliminando sia il cambio che il cambio automatico: con Città 10 basta la prima, tipo gettone dell’autoscontro, pigi il pedale e vai. A dieci all’ora.

Città 10 produrrà anche posti di lavoro, perché gli odiosi autovelox saranno sostituiti da artisti dell’Accademia di belle arti che ritrarranno le auto degli esagitati che vanno a 20 o addirittura 30 all’ora: non solo avranno infatti il tempo di prendere la targa, ma potranno anche realizzare agili schizzi da inviare incorniciati con la sanzione.

Bologna città 3000

Da qualche mese il dibattito bolognese è concentrato sul tema della cosiddetta “Città 30“. Lo spiego in due parole: l’amministrazione comunale ha stabilito che in larga parte del centro cittadino , pari a circa il 70% delle strade, non si potrà superare la velocità di 30 chilometri all’ora.

Attenzione, però, prima che finiate nel coro di quelli che gridano di giornate intere trascorse in auto per raggiungere l’ufficio o di frizioni bruciate, sappiate che nelle ore di punta a Bologna andare a 30 all’ora è un sogno. Quando usavo l’auto per attraversare la città a fatica riuscivo a inserire la terza, in certe circostanze. E poi il limite dei 30 all’ora non coinvolge le arterie a scorrimento più veloce.

Personalmente la trovo una scelta tipicamente italiana: metto il limite di velocità ai 30 così almeno non superi i 50, vista l’abitudine italica a farsi uno sconto rispetto alle norme. Io personalmente avrei mantenuto i limiti ai 50, sequestrando l’auto e penalizzando fortemente i criminali che vanno a 90 all’ora in stradine frequentate da anziani e bambini (e ce ne sono eccome).

Però la velocità non è che la punta dell’iceberg di un’idea di città che prima di essere bolognese è delle grandi metropoli europee come Parigi e Londra, centri che questo percorso l’hanno già intrapreso. Una città che rappresenta il trionfo della classe borghese su quello che una volta si chiamava proletariato. La città dei ricchi che non sopporta lo smog prodotto dai poveri, insomma. Alla faccia della città più progressista di Italia.

Sì perché il modello di questa città è fatto di piste ciclabili, aree pedonali, zone verdi, riduzione delle corsie e soprattutto sparizione dei parcheggi. Chi usa l’auto è un avvelenatore mefitico, un retrogrado, uno sporcaccione.
Evidentemente a essere soddisfatto di questo modello è chi ha una villetta in prima periferia con il garage che ospita le vetture di papà, mamma e figlio, lavora in centro e si reca in ufficio in moto, forse in bici perché tanto ha il bagno personale dove può fare la doccia, oppure può spendere venti o trenta euro all’ora per una di quelle macchinuzze elettriche che salveranno il mondo. Via i parcheggi, più spazio per dehor, viva la democrazia del tagliere.

E se abiti lontano dalla città, ma ci lavori? Usi i mezzi pubblici, ovvio. Ora, premetto che io ho da diversi anni l’abbonamento annuale ai mezzi e li uso per andare a lavoro tutti i giorni. Ma prima di fare una affermazione del genere, bisognerebbe usarli i mezzi, cacchio. Per recarmi a Vergato con i mezzi uscivo di casa alle 7,15 e timbravo alle 9,10. Per Monzuno l’uscita era prevista alle 6,15, prima autobus, poi treno, poi corriera. Arrivo alle 7,45. Se però il treno faceva tardi e la corriera non lo aspettava, arrivavo intorno alle 10. E succedeva, ah se succedeva. Ovviamente, lo stesso vale per un poveraccio che fa il viaggio in direzione opposta. Impediamogli di usare l’auto puzzona, al maledetto, che si adegui. E il pensionato che vorrebbe trascorrere il fine settimana nella casa in Appennino? Anche lui senz’auto? Ovvio. E se la domenica non ci sono i mezzi pubblici, ci vada in bici, con le ciclabili siamo collegando Helsinki con Malta, hai voglia.

Quando fai notare queste difficoltà, la risposta è: i mezzi pubblici sono lenti perché ci sono le auto. Ma è falso. I mezzi pubblici sono lenti perché da anni gli investimenti si concentrano su turisti, manager, su quelli di cui sopra: perché abbiamo potuto spendere milioni di euro per collegare l’aeroporto con la stazione con il trenino di Gardaland, ma la ferrovia Porrettana è a binario unico dal secolo diciannovesimo.

Le nuove linee del tram seguono questa logica. Un metropolitana connessa alle linee ferroviarie che collegasse San Pietro in Casale a Porretta e Zola a Ozzano, quella sarebbe servita. Magari evitando le zone del centro più delicate.

E non venitemi a dire che non si può perché Bologna è una città sull’acqua: è anche l’unica città con la stazione per l’alta velocità sotterranea,  che stanno collegando con un percorso ferroviario interrato fino alla zona Roveri, in periferia. Praticamente un pezzo di metropolitana ce l’ha senza saperlo.

Una metropolitana ci voleva, non questi trasportini per stranieri pronti a pubblicare su Instagram le bellezze colte dal finestrino del tram elettrico. Ma a un certo punto parlare di metropolitana ha voluto dire essere di destra, mentre il tram è di sinistra. Magari un giorno qualcuno mi spiegherà perché.

I centri delle città italiane si avviano a trasformarsi in parchi dei divertimenti per turisti e per cittadini benestanti che le frequentano per una mostra, un aperitivo o una passeggiata. Che gli altri si arrangino.
Non è una città 30, è una città 3000, e sono gli euro che devi guadagnare al mese per essere degno di frequentarla.

Università di Bologna dalla A alla Z. Ieri, oggi e domani

Alcuni giorni fa sono stato invitato dal professor Mario Rivelli, meglio noto come Otto Gabos,  il nome con cui firma romanzi e fumetti, a un appuntamento piuttosto originale. Di fronte alla sede dell’Accademia, in quella che adesso si chiama piazzetta Roberto Raviola, è stato creata da un artista una installazione, o scultura, che richiama un podio, o un terrazzino, insomma un luogo da cui parlare, nella tradizione anglosassone degli speaker corner.

E in tanti, accomunati dai nostri trascorsi di studenti universitari a Bologna, abbiamo inaugurato quest’angolo del parlatore raccontando la nostra esperienza, con un occhio rivolto al passato e un altro invece che si sforza di focalizzare le prospettive future con proposte e idee per piazza Verdi, il quartiere universitario, l’Università in generale.

Ho dato il mio piccolo contributo senza prepararmi un discorso scritto, ma giusto una traccia. Ecco quello che credo di aver detto, ma non ne sarei troppo sicuro. 


Quando mi hanno invitato a parlare di passato e presente della cittadella universitaria di Bologna ho subito pensato che avrei potuto parlare per dieci ore almeno. Poi però nella lettera di invito ho guardato meglio le regole di ingaggio e mi sono accorto che erano proibite volgarità o apologia di reato, quindi alla fine dieci minuti mi basteranno. Per mettere in ordine un enorme flusso di pensieri che mi attraversa quando penso a Bologna e alla sua università, ho pensato all’ordine italiano per eccellenza. Quello che ci solleva dalla responsabilità di scegliere: l’ordine alfabetico. Ecco dunque i miei pensieri dalla a alla zeta.

A.A.A.
Cominciavano così gli annunci sui giornali, proprio per risultare i primi nell’ordine alfabetico. Io uso la tripla AAA non come eccellente votazione delle agenzie di rating, ma come sigla di Affissioni Abusive di Annunci. La prima volta che arrivavi a Bologna (per me fu il 1994), se chiedevi informazioni su appartamenti in alloggio, la risposta era sempre la stessa: annunci in piazza Verdi. Che all’epoca era completamente ricoperta di carta, e chi oggi parla di degrado finge di non ricordarsi i quintali di carta su bacheche, colonne, dentro le cabine del telefono o sui portoni dei palazzi. Carta sostituita continuamente, perché la caccia all’appartamento era quotidiana, in un’epoca in cui “digitale” era solo l’orologio che ti svegliava con la radio. C’era chi per attrarre l’attenzione pubblicava la foto di una bella attrice, seguita da “difficilmente vedrai lei, anche perché il posto è in una doppia con un fuorisede che a casa non torna MAI, ma il prezzo è buono”, c’era chi anziché prendere una strisciolina di carta con il numero di telefono, strappava via tutto il foglio per ostacolare la concorrenza.

A proposito di quelle striscioline, mi viene in mente un’espressione ormai sconosciuta: ore pasti
Negli anni Novanta si telefonava nelle ore pasti, cioè indicativamente tra le 13 e le 14 e tra le 20 e le 21, semplicemente perché i telefoni erano solo fissi. Non eravamo reperibili in qualunque momento in qualunque luogo. Non sono un nostalgico, però quel messaggio “ore pasti” devo dire la verità, un po’ mi manca.

Burella

Latte con i biscotti al mattino, burella a pranzo, spaghetti con il tonno a cena. La dieta dello studente fuorisede era molto semplice e poco variegata. Certo, accedendo alle mense universitarie si poteva variare, ma per il resto la burella del 25 ha caratterizzato tanti pasti negli anni della mia giovinezza. Il 25, per chi non è di Bologna, è il 25 di via Zamboni, un immobile che si affaccia su piazza Verdi e che trent’anni fa ospitava un bar che offriva diverse bevande, dessert, ma fondamentalmente burelle. Oggi non si trovano più, le avrà bandite l’OMS. La burella era una specie di focaccia rotonda, piuttosto piatta, morbida e – nome omen – burrosa. Credo che il colesterolo che ho ancora in circola dipenda da quei pasti, ma insomma, la burella costava poco, mille, duemila lire forse, era alla portata delle tasche di tutti. Non so se lo stesso si possa dire dei locali sorti ovunque per vendere frullati bio, insalatone (che oggi si chiamano poke), trancetti di pizza mignon.

Crocevia

Piazza Verdi per me è sempre stata un crocevia. Non un banale incrocio, ma un’area di movimento, di spostamento, in cui confluiscono diverse strade che qui rallentano, prendono fiato e ripartono. Non è un’agorà come piazza Maggiore, non ha la teatralità di piazza Santo Stefano, con le sette chiese sullo sfondo e palazzi memorabili a farle da quinte. Per capirla, bisogna accetterà che la vitalità di questo luogo le impedisce di essere uguale a se stessa. Non è un luogo di panchine e monumenti, piazza Verdi, è un luogo di incontro, anche tra culture diverse. Gli amministratori non potranno mai domare questa sua essenza, semmai assecondarla.

Destino o destinazione?

Mi affascinano le parole che,  pur partendo da un’origine comune, assumono poi significati fondamentalmente differenti. È il caso di destino e destinazione, che provengono entrambe dalla parola greca ìstemi, sto. Per me e per tanti altri Bologna è stata un destino, cioè è entrata con forza nella mia esistenza appropriandosene, stravolgendola. Oggi vedo che per tanti ragazzi è più che altro una destinazione, cioè una meta da raggiungere che però può rivelarsi solo la tappa di un cammino che poi li porterà altrove. Ecco, sei io fossi un amministratore cercherei di domandarmi cosa fa questa città per entrare nel destino dei tanti fuorisede che la attraversano, accolti talvolta soprattutto con l’obiettivo di spogliarli della paghetta di mamma e papà e mandarli via quando non servono più.

Eco

Difficile parlare della mia esperienza universitaria senza citare il professor Umberto Eco, del quale ho seguito due corsi e qualche seminario. In questa circostanza non voglio però vantarmi di questi trascorsi, quanto raccontare un aneddoto. Era il 15 settembre 1994, ero a Bologna per sostenere l’esame per accedere a Scienze della Comunicazione, in viale Berti Pichat. C’erano più di quattromila pretendenti per 150 posti: allora Scienze della Comunicazione era un corso di laurea innovativo proposto in cinque o sei sedi in tutta Italia, che si fregiavano di eccellenze tra i docenti. Se oggi parliamo di scienze delle merendine è perché l’avidità commerciale delle università l’ha trasformata in un corso in cui si può imparare di tutto, e quindi fondamentalmente niente. Ad ogni modo. Io ero uno studente meridionale al NORD. Nella mia vaga idea di NORD tutto ciò che stava al di sopra di Roma, fosse Helsinki o San Giovanni in Persiceto, era ammantato di un’aura di perfezione, puntualità, efficienza teutonica. E Bologna era al NORD. Ebbene, quella mattina Eco si avvicinò a me e a un gruppo di altri ragazzi, chiedendo: sapete se è qui che si tiene il test per accedere a Comunicazione? Io risposi timidamente di sì.
Un momento storico.
L’unica volta nella mia esistenza in cui ho saputo qualcosa che Eco non sapeva.
Il professore si avviò verso l’entrata, io pensai che Bologna era NORD, ma non così NORD in fondo, e per la prima volta pensai che avrebbe anche potuto diventare casa mia.

Fumo, fumo, fumo, bici, autoradio

Chi oggi si lamenta del degrado a Bologna in piazza Verdi forse non ricorda o finge di non ricordare il mercato pubblico di bici rubate che l’ha caratterizzata negli anni Novanta. Non si vendeva un prodotto, attenzione, ma un servizio: i tossici del tempo avevano capito tutto di marketing. Tu chiedevi una bici, loro ti mostravano quello che avevi, se non eri soddisfatto si allontanavano con la loro sacca contenente pinze e tenaglie, e dieci minuti dopo tornavano con la “tua” nuova bici. Per non parlare del fumo. Al tempo avevo una condizione tricologica più rigogliosa: capelli lunghi fino alle spalle, spettinati, un po’ metallaro un po’ figlio dei fiori. Insomma, a me il fumo non lo offrivano, il fumo lo chiedevano. Ce l’hai il fumo? No che non ce l’ho, non spaccio. E dai, dammi un po’ di fumo, che fai, tiri sul prezzo? Mi serve un po’ di erba, non fare il bastardo.
Ogni tanto qualcuno diversificava e offriva anche autoradio. Con esiti mediocri a dire il vero, visto che non avevamo i soldi per una bici, figurarsi per una automobile.

Grazie

Si ringrazia alla fine, è vero, ma avendo optato per questa tecnica alfabetica, devo farlo adesso. Meglio, così non lo dimentico. Grazie a voi, grazie a questa splendida città che ci ha fatti crescere. Il sentimento della riconoscenza non dovrebbe mai essere sottovalutato.

Halloween

Qualche tempo fa un amico mi fece notare come negli anni Settanta, quelli più caldi da un punto di vista sociale e politico, uno degli slogan più in uso tra i giovani era “Arresta il sistema”. Oggi arrestare il sistema vuol dire molto più prosaicamente spegnere il computer. 
Cosa c’entra tutto quello con la festa del 31 ottobre? C’entra perché tempo fa ho visto un volantino di un centro sociale che promuoveva appunto una festa di Halloween. Trent’anni fa Halloween semplicemente non esisteva, quello era il periodo delle feste delle matricole. Se anche i giovani più “ribelli” oggi festeggiano una festa tipicamente americana, figlia di un sistema mercantile che gioca sulle paure, vuole dire che il sistema ha vinto. Altro che combattere il capitalismo e l’individualismo, oggi combattiamo contro Freddy e Jason.

Insieme

Il futuro della città universitaria – che ormai è una galassia di cittadelle universitarie, se si considerano i satelliti disseminati, da Ozzano a Viale del Risorgimento, da Lame al Tecnopolo CNR – non può essere deciso solo dai vertici universitari, né da quelli amministrativi. Non può rispondere alle esigenze dei commercianti che amano il movimento, né a quello dei residenti che vorrebbero dormire. A tal proposito, dopo le undici di sera a Bologna si dorme bene praticamente ovunque, dalla periferia ai colli, dai palazzoni popolari alle villette più esclusive. Chi frequenta un po’ la città nelle ore notturne lo conosce bene quel silenzio ovattato, interrotto giusto dalla marmitta di qualche motorino che consegna pizze fuori orari. Poi ci sono le piazze dove ci si incontra per far tardi. Ma è davvero necessario zittire anche loro? Davvero un’unica cappa di silenzio è l’unico orizzonte che pensiamo per questa città? Non sarebbe forse più semplice che i residenti che vogliono legittimamente dormire si trasferissero a vivere nel 95% delle case tranquille invece che zittire l’ultimo 5%? (ndr la parte in corsivo non l’ho pronunciata, sebbene l’avessi predisposta. La ragione è semplice: prima di me ha parlato una professoressa che vive in centro che ha chiesto di porre fine ai rumori notturni. Ho vigliaccamente deciso allora di soprassedere.

Largo Respighi, Mense e Mangiatoia

Qui facciamo il salto triplo proponendo addirittura tre parole, che però sono legate. Ai miei tempi gli studenti mangiavano in mensa o al 25. Certo che c’erano i bar, ma al limite ci andavi per bere. Non che non offrissero niente di buono, è che erano cari per le possibilità di uno studente fuori sede. In Largo Respighi c’erano agenzie di viaggio, negozi, cartolerie. Oggi ci sono solo ristoranti. Tutto il centro è ormai una enorme mangiatoia, si mangia dalla mattina a notte fonda, ho visto gente addentare la pasta asciutta alle cinque del pomeriggio. Non esprimo giudizi, è una delle immediate conseguenze dell’apertura al turismo. Però non dimentichiamo che i turisti fanno altro, oltre a mangiare dalla mattina alla sera.

Non si fanno fotocopie

Durante gli anni universitari ho passato più tempo in copisteria che all’interno di qualunque altro locale pubblico, anche perché soldi per ristoranti e bar erano pochi e l’abbigliamento lo compravamo “giù” dove il costo della vita era minore.  

Fronte retro, bianco e nero o (raramente) a colori, riduzione da A3 ad A4, due pagine per foglio. La competenza che si acquisisce in quegli anni è sorprendente e, ammettiamolo, ti accompagna negli anni dove prima o poi in ufficio una fotocopia devi farla.

In copisteria prevalentemente si fotocopiavano appunti e dispense ma anche, ammettiamolo, libri. Credo che il reato sia ormai prescritto. Anche perché a dire la verità la maggior parte dei libri fotocopiati erano ormai fuori catalogo, faticosamente presi in prestito dalla biblioteca.  Vedo che il numero delle copisterie è calato: ci sono ancora, ma non sono onnipresenti. Può darsi che oggi gli studenti si documentino maggiormente online. Può darsi che abbiano più soldi e comprino tutto in libreria. Non voglio nemmeno pensare che persino loro, oggi, leggano meno.

Occasioni

Direttamente legata alla precedente, c’era la disperata ricerca di occasioni, cioè libri in sconto, usati, di terza mano, apocrifi. Ricordo bene che gli studenti di medicina erano i più attivi in questo ambito, appropriarsi di uno dei tomi sui quali studiavano poteva generare faide sanguinarie. 
C’era in particolare un negozio nella zona universitaria gestito da due fratelli: erano identici, tranne che uno era alto e magro, l’altro basso e paffutello. Sembravano usciti da un esperimento di genetica: prendiamo due gemelli e modifichiamo giusto due geni. Vediamo che ne esce, vi va?
Ebbene, nel loro negozio tra settembre e novembre si vivevano scene da Wall Street, ma non quella attuale fatta di computer e connessioni, no quella dei film anni Ottanta in cui si urlava, gesticolava, si facevano segni.  L’arrivo di un nuovo testo usato generava scene parossistiche con una folla che spesso occupava i marciapiedi fuori dal negozio perché dentro non c’era spazio a sufficienza. 

Oggi la libreria non c’è più, c’è un bar taglieri e aperitivi di cui si sentiva la mancanza.

Piazza Scaravilli

Ai miei tempi si diceva che chi attraversava piazza Scaravilli, anziché percorrere il giro lungo sotto i portici, non si laureava. Oggi l’arredo urbano è meno spoglio, più accogliente, ho visto che addirittura ci sono delle panchine. Meglio così, io non ho mai creduto nella superstizione, infatti piazza Scaravilli l’ho attraversata tante volte. 
Dopo essermi laureato.

Q&R, Quesiti e Risposte

I computer sono noiosi, sanno dare solo risposte, diceva Picasso. Figuriamoci adesso che si spacciano anche per intelligenti. Le domande sul futuro dell’Università e della zona universitaria dobbiamo farcele noi, essere umani.  Mettendo da parte i “si è sempre fatto così” e anche le nostalgie di cinquantenni che ricordano quanto era bello il mondo trent’anni prima, solo perché trent’anni prima avevano vent’anni. L’ho già scritto, il quartiere universitario deve essere convivenza. Però bisogna dire basta alla dittatura generazionale di quella fascia d’età, compresa tra i quaranta e i sessant’anni, che di solito è all’apice della propria carriera e rifiuta di fare spazio a chi viene dopo. I ragazzi hanno bisogno di spazi. Di incontrarsi, parlare, vivere, anche se questo è rumoroso.  Così nessuno più vivrà in centro? Perché, quanta gente credete che viva a Down Town a New York o al Quartiere Gotico di Barcellona? E dai, muovetevi. Il silenzio notturno di Baricella o Vergato aspetta solo voi.

Santa Cecilia

Cos’ha il quartiere universitario di Bologna che non potranno mai avere i campus delle giovani metropoli del resto del mondo? Cultura. Proprio così. A pochi passi da piazza Verdi c’è l’Oratorio di Santa Cecilia, che qualcuno ha definito la Cappella di Sistina di Bologna. Forse un po’ troppo, mai generazioni di artisti, scrittori, ma anche biologi e ingegneri si sono ispirati e fatti trasportare dalla bellezza di quelle mura.
Trasferite pure le vostre aule universitarie in periferia in asettici scatoloni ignifughi e antisismici. Allontanate gli studenti dal centro, sono così fastidiosi. Quando poi scoprirete che hanno deciso di andare a vivere altrove, non lamentatevi,

Teatro Comunale 

Il Teatro Comunale non potrebbe vivere senza piazza Verdi e la piazza perderebbe la sua identità senza il Comunale. Certo però più che una convivenza, in tanti momenti sembra una coabitazione forzata. Possibile sia così difficile aprire le porte del Comunale agli studenti? E poi, davvero il Teatro di tanto in tanto non può fare uno sforzo e ospitare qualche sonorità differente? Perché la musica che piace ai giovani deve essere sempre relegata ai palazzetti dello sport?

Ultime Valutazioni

Non so se quello che ho scritto sarà di qualche interesse per qualcuno, o si ridurrà a uno sterile esercizio di stile. Il bello di Bologna in fondo è quella sua irriducibile tendenza anarchica che sfugge a qualunque pianificazione e impostazione dall’alto. Se militarizzate piazza Verdi i giovani si sposteranno in piazza Santo Stefano, e poi in piazza San Francesco. Ascoltiamoli, questi giovani, e non negli stucchevoli recinti delle assemblee studentesche. Ecco, se c’è una cosa che i miei coetanei dovrebbero riscoprire, è l’ascolto. Abbiamo passato pomeriggi ad ascoltare musica nei negozi Ricordi e Virgin, spazi perduti per sempre, non sappiamo ascoltare i nostri figli?

Zavorra

E a voi ragazzi, dico una sola cosa. Siete cresciuti in  un mondo che faticosamente si liberava dei pesi ideologici di schieramenti contrapposti che vedevano nell’altro un nemico. Il rischio però è che a quelle ideologie se ne sostituiscano altre, peggiori; quella del denaro facile, del successo come indicatore della felicità personale, della popolarità che sostituisce il popolo. Non fatevi appesantire da queste idee mercantilistiche. Ricordatevi che è solo liberandovi da questi pensieri confezionati, da questa Zavorra, che potrete prendere il volo.
Buon viaggio.

Ho sognato di essere Batman

Il fatto che i nostri sogni raccontino una parte di noi che non conosciamo, o che forse fingiamo di non conoscere, non è certo una novità. Ci sono fior di professionisti in prestigiosi studi del centro che, grazie a questa scoperta, si fanno pagare duecento euro all’ora per ascoltare i sogni altrui, accomodati su una poltrona in pelle, per poi tirare fuori un trauma infantile che sarebbe all’origine dei problemi del paziente, quasi sempre per colpa dei genitori.

Ora, di recente ho fatto un sogno che credo meriti di essere raccontato. Non a quei tizi delle poltrone in pelle di cui sopra, no grazie, al limite con me potrebbero tirare fuori la storiella dell’ansia prodotta dall’istinto di voler controllare tutto, che mal si concilierebbe con l’imprevedibilità della vita.

No, il mio sogno ho intenzione di raccontarlo a voi, che se vi va mi ascolterete gratis senza darmi responsi saccenti, se non vi va potete tornare a frugare su Amazon o Zalando, oppure sulla Gazzetta dello Sport o Youporn, a seconda dei vostri gusti (ho fatto un distinzione sessista? Sì, l’ho fatta. Denunciatemi alla Murgia se vi va).

Ebbene, qualche notte fa ho sognato di essere Batman. Complimenti all’autostima, starete pensando. In effetti mi rendo conto che come personaggio da impersonificare sia impegnativo, ma riflettiamoci un attimo: l’uomo pipistrello ha gadget fichissimi ed è un uomo super forzuto, però, alla fin fine, è un uomo. Non il figlio di qualche divinità nordica dotato di un martello mille usi che al Brico Center se lo sognano, e nemmeno un extraterrestre che vola e brucia tutto con la vista laser. Autostima sì, insomma, ma con moderazione.

Dunque, tornando al mio sogno, in veste di supereroe non dovevo confrontarmi con Joker e nemmeno sventare i piani criminali di Pinguino. Non c’erano. Ahimè non c’era nemmeno Cat Woman, che invece una ventina d’anni fa avrebbe monopolizzato le mie illusioni oniriche. Nel mio sogno affrontavo criminali, ma, come dire, si trattava della parte inutile della storia, come i dialoghi nei film di Rocky o le panoramiche turistiche finanziate dalle film commission nelle fiction Rai. I problemi erano altri.

In primis, parcheggiare la Bat Mobile. Sì, lo so, questo più che un sogno è un incubo, ma vivo a Bologna, la città dove i possessori di auto nella considerazione degli amministratori sono criminali da punire senza pietà, meno forse degli spacciatori ma di sicuro più dei vandali. Dove la parcheggi la Bat Mobile, che tra piste ciclabili, posti auto per disabili e riservati ai commercianti, ormai si trova parcheggio solo tra le 9 e le 10 del mattino? E se ci fosse bisogno di Batman in un’altra ora? Ce lo vedete Batman che aspetta il 13, per scoprire poi che in centro non ci arrivi più nemmeno con gli autobus, perché nella città più progressista d’Italia il centro deve essere lasciato libero ai tavolini?

Questa parte del sogno veniva risolta perché non usavo l’auto, punto, il mio inconscio lo risolveva così. Però si poneva una seconda questione. Una volta concluso l’intervento, dovevo tornare ad essere Bruce Wayne, perché mi attendevano a una riunione, o a una mostra, vai tu a sapere. Allora, dove lo riponi il travestimento di Batman? Di Clark Kent sappiamo che andava in giro sempre con il costumino di Superman sotto i vestiti, e gli evidenti problemi di traspirazione mettevano continuamente in crisi il suo rapporto con Lois Lane. Per non parlare della questione del mantello. Dove lo tieni nascosto quel mantello, birbante? Lo tiri fuori con un colpo di magia dal buco del… cilindro? Ma dove lo tiene il cilindro il signor Kent?

Insomma, dove lo ripone il suo armamentario Batman quando torna in abiti civili? Consideriamo che si tratta di un outfit piuttosto impegnativo da dismettere. Ti porti dietro un trolley? E se le orecchie a punta di sciupano? Uno zaino tipo camminatore? Può funzionare, però che ci fa un miliardario come Wayne con uno zaino sulle spalle? Non è credibile. Non sapere dove riporre la propria roba è un incubo, ammettiamolo.

Anche in questo caso il mio inconscio risolveva con l’ennesimo buco di sceneggiatura: mi ritrovavo infatti a riporre il costume nero nel cassetto, facendo attenzione a non esagerare che poi si sfondano, come fanno abitualmente persone a me care riponendoci più di quanto non possano contenere, sfidando la legge della impenetrabilità dei corpi.

Dopo di che qualcuno (un parente, ma non ricordo chi) apriva il cassetto e apriti cielo, che ci fa un costume di Batman qui?

È per Carnevale, rispondevo io prima di svegliarmi e tirare un sospiro di sollievo.

Con una consolazione: non sono un supereroe, o forse lo sono sempre stato senza rendermene conto.

La discarica distribuita

Lo smaltimento dei rifiuti è uno dei costi maggiori per gli enti locali. Le discariche sono sempre più piene, differenziare i rifiuti è costoso e complicato. Come fare? 

Ci sono alcune amministrazioni che incentivano la riduzione dei rifiuti, per esempio promuovendo l’uso di compostiere che trasformino in concime i rifiuti umidi, soluzione ottima se vivete in campagna, un po’ meno se pensate di piazzarla sul balcone che si affaccia sul cortile condominiale. Non è detto che i vicini apprezzerebbero.

Altre che incentivano l’uso dell’acqua pubblica (la cosiddetta acqua del sindaco) per evitare che si accumulino bottiglie di plastica. Altre ancora che hanno investito molto sulla raccolta differenziata, arrivando a far sparire i bidoni sostituendoli con la raccolta porta a porta (e tra questi c’è il mio Comune del cuore, Statte, uno dei primi in Puglia).

E poi c’è Bologna. A Bologna hanno pensato: poche enormi discariche sono difficili da gestire. Creiamo centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di piccole discariche: una per ogni abitazione. Geniale. Ciascuno si tenga la monnezza, insomma. Vedrai se non impareranno a produrne di meno.

Certo in questi casi l’eliminazione del cassonetto sarebbe risultata eccessiva. Che fare allora? Attuare dei sistemi che disincentivino l’uso. Intanto con l’umido: chiudiamoli a chiave. Chi non ha la chiave, non butta l’immondizia. Si, avrà detto un consulente, ma uno la chiave la mette insieme alle chiavi di casa, e ha risolto. Ed ecco il colpo di genio: una chiave abnorme, che non può stare tra le chiavi di casa, neanche in casa. La chiave per aprire il bidone dell’umido a Bologna è una specie di stella ninja solo cinque volte più pesante. Nei paesi del nord Europa la chiave dell’umido di Bologna richiede il porto d’armi, in America vogliono sostituirla al teaser ma poi rischia di rallentare troppo gli agenti e in auto occupa un posto da sola.

E la carta e la plastica? Semplice. Teniamoli chiusi, Eh ma non si può. E allora sostituiamo l’apertura con una fessurina piccola piccola. Tanto per dire: oh ma che vuoi, il cassonetto è aperto. Se poi è tecnicamente impossibile inserire, per esempio, un contenitore del detersivo formato famiglia nella fessura, o un secchiello, vorrà dire che te lo porterai a casa. Puoi sempre conferirla alla stazione ecologica nei comodi orari di apertura tra la terza e la quarta luna degli anni bisestili o in caso di congiunzione astrale di due o più pianeti del Sistema Solare negli altri anni.

E la carta? Bisogna essere onesti: i fogli di carta nella fessura ci stanno. Anche un giornale ripiegato. Qualunque altre sacchetto contenente carta no, riportatelo a casa, via, sciò.

Vi starete chiedendo: ma se l’accesso alla differenziata è così complicata, finiranno tutti per buttare tutto nell’indifferenziata. Era così, infatti. Ma poi i mega consulenti ci hanno pensato, e hanno introdotto la tessera digitale che ti consente di aprire Sesamo e inserirci un sacchettino, piccolo però.

Il modello è sempre lo stesso. I disonesti facciano come gli pare, possono lasciare la spazzatura sul marciapiede, se gli va. Per tutti gli altri, tenetevi la monnezza a casa. Anzi, visto che siamo a Bologna, il rusco.

E mo’…bici!

Ebbene l’ho fatto. Sono tornato in bici, a quasi vent’anni da quel furto che segnò negativamente la mia esperienza di ciclista sotto le due torri. Era il 2000, dopo 6 anni a cavallo di ferraglia sgangherata, troppo arrugginita per interessare un ladro, avevo finalmente deciso di acquistare una bicicletta. 250 mila lire, usata, ma per un laureando era tanto, “tanta roba” come dicono a Bologna. Durò poche settimane, e l’immagine dei due lucchetti spaccati ancora evidentemente sconvolti e abbracciati al palo dove l’avevo legata mi ha perseguitato per anni.
Ma con Mobike è tutto diverso. Il funzionamento lo conoscete, si installa una app, si caricano pochi euro sul conto, e attraverso una mappa si va alla ricerca della bici più vicina da individuare, sbloccare, e lasciare una volta arrivati a destinazione.

La prima sgradevole impressione è che l’italiano è pur sempre un italiano, anche se va in bici. Ho individuato almeno tre mobike vicine a casa mia, ma invisibili: semplicemente, il genio l’ha lasciata in garage, per poterne usufruire a proprio piacimento. Si tratta di un malcostume che – ho letto – è piuttosto comune, e racconta bene la crisi prima di tutto morale di un paese che non riesce a superare le sue grettezze.

La seconda impressione è l’euforia di tornare a circolare in bici dopo tanti anni, su una bici tutto sommato comoda. Ha tre marce: la marcia Fantozzi con cui puoi pedalare quanto vuoi, resti sermpre lì, la marcia Coppi, con cui hai l’impressione di scalare le Alpi anche se sei in via Indipendenza, e una marcia intermedia che chiameremo “tu” perché è quella che userai tu. Ricorda che se sono trascorsi vent’anni dall’ultima volta che hai preso la bici, ne sono trascorsi venti anche per la tua prostata. Trattala bene. Le strade del centro di Bologna non hanno il problema delle buche, ma il rimbalzo sui mattoni di via Zamboni fanno male lo stesso. Penso che gli over 40 apprezzerebbero molto una versione moll-bike con un sedile imbottito e comodo, ma non stiamo a piagnucolarci addosso, che con la pancia le lacrime si fermano tutte sull’addome e non è bello.

La terza impressione è che le piste ciclabili sono belle (specie quando sono vere piste e non banali strisce bianche sul marciapiede) ma hanno la brutta tendenza a portarti dove vogliono loro. Perché tu ti fai prendere da quella trance agonistica e segui quelle strade con passione, ed è un attimo finire alla Bolognina quando invece dove andare in Via Saragozza. Non ho provato la tangenziale delle bici, ma so che quando lo farò comincerò a girare in circolo dimentico completamente delle destinazione, nel caso venite a cercarmi addormentato vicino a qualche albero, senza nemmeno l’ansia che qualcuno mi porti via la bici.

Mobike m’hai provocato, e io te pedalo.