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Dieci piccoli indizi: nove di spade

Da ormai molto tempo gli Gnurket, uomini dalla carnagione scura che vivevano nella città di Tardnuestr, nel cuore del regno di Apul, rappresentavano l’ultimo baluardo contro i feroci eserciti dei Mucidi, provenienti da sud.
La loro disperata difesa impediva alle orde mostruose di invadere le terre pacifiche e più civilizzate che si estendevano fino all’estremo nord della penisola, abitato dai tranquilli e inoffensivi Berfatt. A permettere di resistere nonostante la schiacciante inferiorità numerica era soprattutto l’ammirazione e la stima che i soldati riponevano in Turtigghiun, valoroso re sempre in prima linea a combattere contro gli invasori.
E se la forza fisica degli uomini era sicuramente inferiore a quella dei Mucidi, in compenso il loro re era capace di escogitare ogni sorta di tranello per trarre in inganno i nemici forti e possenti sì, ma non particolarmente brillanti, ad eccezione del famigerato condottiero Trappagghiun.
Era sera. Un gruppo di soldati, stanchi dopo una lunga giornata di guerriglia contro truppe sparse di Mucidi che cercavano di penetrare i confini, si scaldava intorno al fuoco prima di andare a dormire per qualche ora, giusto il tempo di recuperare le forze per poi iniziare un nuovo turno di guardia.
Qualcuno cominciò a parlottare della leggendaria retromarcia. Nei momenti di difficoltà, infatti, i soldati per farsi forza raccontavano lo storico inganno della retromarcia, che aveva salvato Tardnuestr da una distruzione che era ormai data per certa, anni prima. Il più anziano dei soldati, avvertendo che come al solito si stavano aggiungendo particolari inesatti, scosse la testa. Non era così, che erano andate le cose. Lui c’era, infatti, nei giorni della retromarcia. In quei giorni in cui un gruppo numeroso di Mucidi sembrava ormai prossimo a vincere definitivamente le forze degli uomini a cui mancavano acqua e viveri, a causa di un incidente alla carovana che avrebbe dovuto rifornirli.

Turtigghiun, allora molto giovane, era partito di notte con un gruppo di soldati fidati alle volte dell’accampamento dei Mucidi. Era difeso da almeno una decina di guardie su ogni fronte. Se le avessero attaccate, queste ultime avrebbero immediatamente svegliato gli altri. Occorreva stanarle. Turtigghiun decise di far accendere un fuoco in una boscaglia non distante dall’accampamento e di cominciare ad arrostire michimaus. I Mucidi infatti ne erano ghiotti, e forse anche per questo riuscivano ad avere una massa muscolare maggiore rispetto a quella degli uomini che invece quelle bestiole faticavano a mandarle giù. Quando la prima guardia vide il fuoco, partì subito in avanscoperta, ma arrivata nei pressi del fuoco trovò solo michimaus fumanti, e con l’ingordigia tipica dei Mucidi cominciò a ingurgitare a più non posso. Così fece la seconda che si era mossa per capire perché la prima non tornava, e così la terza, finché tutte le guardie dei Mucidi non si ritrovarono a banchettare. I soldati allora pensarono fosse venuto il momento di attaccare. Avrebbero potuto colpire tanti Mucidi. Costoro erano talmente superiori numericamente che alla fine anche darsi alla fuga sarebbe stato difficile, ma certo ne sarebbe valsa la pena. Un sacrificio da eroi. Ma Turtigghiun disse che no, non voleva attaccarli. Voleva solo rubare le insegne che i Mucidi erano soliti depositare sulla linea più avanzata dell’accampamento. I suoi compagni borbottarono allibiti: tutti quei rischi per rubare due bandiere senza valore? La mossa avrebbe solamente fatto infuriare il generale dei Mucidi che la mattina seguente avrebbe attaccato con maggior veemenza! Ma Turtigghiun non ne volle sapere. Partì lui stesso alla volta delle insegne: la notte era buia ma aveva osservato con cura l’accampamento il pomeriggio precedente, sapeva dove trovarle, le estrasse dal terreno senza troppa difficoltà, ma anziché fuggire nelle retrovie, corse oltre, invitando i suoi a seguirlo. Raggiunsero le retrovie dell’accampamento. Certo, pensarono i suoi: un attacco alle spalle, ecco a cosa pensave il giovane sovrano. Cogliergli da dietro sarebbe stato più violento e spietato. E invece il re riorganizzò il banchetto per le guardie, anche stavolta michimaus arrostiti, anche stavolta violazione delle regole dei Mucidi per una lauta mangiata. Però stavolta non c’erano insegne da rubare: e infatti il re andò a piantare nel terreno quelle che aveva rubato dall’altra parte, tra lo sgomento dei soldati che continuavano a domandarsi se stavano rischiando la vita per un pazzo furioso.

La mattina dopo fu finalmente tutto chiaro. I Mucidi disponevano di un mediocre senso dell’orientamento, e scrutare le stelle era complicato, in un’isola quasi sempre ricoperta da un cielo nuvoloso come era Apul. Quando la mattina si ritrovarono con le insegne a sud anziché a nord, semplicemente pensarono che quella era la direzione verso cui andare. Ovviamente nessuna delle guardie ebbe molto da obiettare, anche perché Turtigghiun aveva fatto condire i topastri arrosto con spezie ottenute da papaveri blu e rossi, e la mattina dopo era già tanto se le vedette riuscivano a fare pipì senza innaffiarsi i piedi.
L’esercito mucido si rese pertanto protagonista in quella occasione della più impressionante retromarcia che la storia ricordasse. Addirittura si narra che quando all’orizzonte apparvero le prima città dei Mucidi, queste vennero assediate e colpite, in uno scontro fratricida che richiese un po’ di tempo prima che il generale si rendesse conto del pasticcio combinato.
Da quel giorno in poi i Mucidi impararono a prendere nota con attenzione del posto in cui si accampavano, cercando riferimenti precisi nell’ambiente circostante. Si erano resi protagonisti della più clamorosa retromarcia della storia.
Non potevano correre il rischio di ripetere la figuraccia.

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Dieci piccoli indizi: apertura e Re di denari

Apertura

Lo starnuto del brigadiere Crisafulli fu talmente violento che la pastiglia alla menta balsamica che teneva in bocca gola si proiettò fuori dalle sue labbra, rimbalzò sulla scrivania e andò a spataccarsi sulla giacca del maresciallo Zavaglia che proprio in quel momento faceva il suo rientro in caserma.

La pastiglia rimase incollata alcuni istanti prima di scivolare, lentamente, lasciando una scia verdastra sul petto del militare, tra l’incredulità del maresciallo che istintivamente portò la mano al fodero della pistola. Decisamente non era una medaglia di cui andare fieri, quella pastiglia contro il mal di gola, che per fortuna ritenne opportuno cadere per terra senza l’intervento da parte di alcuno.

«Mi perdoni maresciallo. È il raffreddore. Forse dovrei stare a casa a riposo qualche giorno.»

Zavaglia stava per avviarsi verso il suo ufficio senza nemmeno rispondergli quando si accorse di un mazzo di carte napoletane sul tavolo del suo sottoposto. Per un attimo, pensando al fatto che quella notte era stato chiamato alle due per un furto in una abitazione, che doveva predisporre un paio di verbali urgenti, che doveva occuparsi di uno spacciatore che aveva colto in fragrante quella mattina, che doveva accompagnare l’ufficiale giudiziario per eseguire alcuni sfratti e che soprattutto non ricordava più nemmeno quando era stato in ferie l’ultima volta, ebbe sul serio la tentazione di ricorrere all’arma e svuotare il caricatore contro la scrivania del brigadiere.

«Fai sparire subito quelle carte. Quante volte te lo devo ripetere? Che figura ci facciamo con un cittadino che entra e ti vede impegnato in un solitario?»

«Posso spiegare tutto, maresciallo. Sto lavorando. Cioè sono al centralino, ma non chiama nessuno. Le carte…»

Il maresciallo allargò le braccia e lo invitò, almeno, ad avere la decenza di giocare con il computer, così da dare meno nell’occhio. Ma Crisafulli aveva una risposta per tutto, e gli spiegò che il solitario al computer non gli piaceva: una volta era andata via la corrente e aveva perso tutto. E invece un mazzo di carte non si spegneva mai, funzionava all’aperto e in treno, era portatile e silenzioso. Tuttavia quelle non erano carte, erano un referto. Il giovane carabiniere stava ancora fornendo dei dettagli quando il suo superiore lo interruppe.

«Sai che ti dico, Crisafulli? Mi hai convinto. Ho bisogno di fare una pausa. Gioco anch’io. Però non un solitario. Giochiamo a briscola. E però ci giochiamo qualcosa.»

A Crisafulli non piaceva l’andazzo che stava prendendo la conversazione. Non era un granché come giocatore di briscola. Non era un granché nemmeno con il solitario a dire il vero, ma lì non poteva perdere niente se non un po’ di tempo. Con quelle carte, però… Se vinci tu, concluse il maresciallo, dimentichiamo l’increscioso episodio delle carte, della caramella, e persino del fatto che se non metti a posto quella cornetta difficilmente riceverai mai telefonate. Se vinco io, tu ti fai gli sfratti di oggi e no, non mi importa che hai promesso di tornare a casa in Sicilia entro sera, vorrà dire che ci metterai un po’ di più. Allora, mescoli le carte o no?»

Crisafulli eseguì gli ordini maledicendosi in silenzio per non essersi messo in malattia, quella mattina, come gli aveva suggerito Cosimina, la sua fidanzata che l’aspettava a Messina un fine settimana sì e uno no.

Re di denari

La notizia della morte del re si era diffusa velocemente nel piccolo regno dei Berfatt, a nord dell’isola di Apul, gettando nello sconforto sudditi e familiari. Benché anziano, infatti, il re godeva di buona salute e probabilmente avrebbe vissuto qualche anno in più se non avesse fatto il bagno di mezzanotte dopo aver mangiato mezzo chilo di alghe al forno. Non che fosse stata la congestione a ucciderlo: quella l’aveva costretto semmai a un paio di giorni a letto. Il re però non sopportava di stare recluso in casa, e per evitare le guardie che sua moglie aveva posto accanto alla sua porta aveva cercato la via di fuga dalla finestra, cadendo precipitosamente al piano inferiore. Non che fosse stata la caduta a ucciderlo. Quella l’aveva imbracato in una serie di fasciature piuttosto ingombranti e aveva costretto la moglie Capurél a prevedere una guardia anche vicino alla finestra. Ma al re la convalescenza dava sui nervi, soprattutto perché l’umidità rendeva crespi i suoi magnifici capelli e complicava la cura dei baffi a cui teneva molto. D’altronde per il suo popolo Dio, patria e ciglia erano i valori fondanti, ma visto che la fede ultimamente viveva una fase di stanca e il regno era al sicuro da parecchio tempo da invasioni e razzie, quello che rimaneva ai suoi sudditi era una cura maniacale per l’aspetto fisico.

Insomma, il re era pacificamente morto nel sonno, ma secondo alcuni saggi chiamati a verificare le cause della sua morte, ad accelerare la dipartita era stato lo smarrimento del suo pettine preferito, che aveva lasciato in consegna ai suoi figli, visto che da solo non riusciva più a pettinarsi a causa delle fratture.

Quale che fosse la causa della morte dell’anziano sovrano, di una cosa erano certi quasi tutti: nessuno dei due figli era ancora pronto per raccoglierne l’eredità. Vacandin, il maggiore, era timido, riservato, silenzioso. Tutte caratteristiche che rendevano difficile adempiere alla principale missione di tutti i sovrani dei Berfatt: trovare una moglie combattiva e coraggiosa e lasciare che a occuparsi del regno fosse lei. Al massimo il re poteva dilettarsi in pubbliche relazioni e battute di caccia ai funghi, le uniche battute di caccia possibili visto che ad Apul gli animali scarseggiavano e i cacciatori erano talmente fuori forma che più che un fungo immobile non avrebbero potuto catturare.

Il fratello Cip Ciap avrebbe avuto meno difficoltà a trovare una donna, ma il problema non era la donna, ma semmai l’una; al giovane una sola compagna pareva non bastare. Erano piuttosto numerose le ragazze a poter raccontare di aver avuto una relazione, di un giorno o di un mese, con il bel principe gaudente e spensierato.

La regina Capurél convocò pertanto i due figli subito dopo le esequie del marito. Non era infatti scontato che il trono sarebbe passato a Vacandin: la regina avrebbe potuto scegliere il figlio minore, come speravano i popolani (soprattutto le popolane) o anche un estraneo, purché bello e senza problemi di alopecia, secondo le sacre tradizioni dei Berfatt. Parlò loro con estrema franchezza. Voleva sapere chi dei due avesse perso il sacro pettine del padre. Non era tanto la loro l’impudenza, che voleva valutare, spiegò loro, quanto la sincerità e il coraggio dei suoi figli. Cip Ciap prese subito la parola: a perdere il pettine era stato Vacandin, lo custodivano una settimana per uno, e quando era arrivato il suo turno, il fratello non glielo aveva consegnato. Cip Ciap affermò anche di aver visto Vacandin uscire con il pettine in borsa, senza prendere precauzione alcuna. Non si poteva affidare il regno ad un inetto incapace di custodire un oggetto di valore. Non si poteva.

Vacandin rimase in silenzio. Capurél attese allora la sua versione dei fatti. Il figlio le rispose che era vero, il pettine era in custodia da lui, ma che non lo aveva mai portato fuori dal castello. Tuttavia questo non aveva importanza, ormai. Era stato perduto mentre lui avrebbe dovuto custodirlo, e doveva pagarne le conseguenze.

Capurél si volse indietro verso un armadio in fondo alla sala, aprì un cassetto e ne estrasse il pettine. Era stata lei a prenderlo per farlo ripulire. Cosa che faceva abitualmente senza avvisare il marito, il quale temeva potesse sciuparsi. Lo faceva perché il re era capace di farsi cogliere da profonda malinconia alla vista dei capelli attaccati al pettine, e con gli anni era andato peggiorando. Per questo la moglie li faceva rimuovere di nascosto. Solo che questa volta l’artigiano che se ne prendeva cura le aveva chiesto un po’ più di tempo per completare il lavoro

Capurél guardò con aria severa Cip Ciap: un mentitore non solo non sarebbe mai stato un buon re, ma non sarebbe mai stato un buon berfatt. Doveva cambiare e in fretta, se non voleva fare la fine che il destino assegna agli uomini falsi. Poi mise una mano sulla spalla di Vacandin e lo invitò a farsi coraggio, a guardare al futuro con fiducia e ad usare più balsamo.

Il popolo dei Berfatt avrebbe presto incoronato un nuovo re.

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