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Comunicare l’idiozia

C’è il politico incompetente che per anni ha fatto solo i suoi interessi e commesso errori grossolani, che quando non viene rieletto commenta: è stato un problema di comunicazione, non siamo stati bravi a informare i cittadini sugli ottimi risultati raggiunti.
C’è lo stilista che disegna una linea di abiti orrendi e costosissimi che afferma spavaldo con gli azionisti che l’errore è stato nel posizionamento marketing del prodotto. C’è il rivenditore che non trova i pezzi di ricambio perché ha un magazzino caotico e disordinato che si giustifica con i clienti attaccando il software che funziona male. E l’impiegato che non ha voluto seguire i corsi di aggiornamento e da trent’anni spinge sempre gli stessi tre pulsanti che di fronte ad un aggiornamento del programma si lamenta che per colpa dell’informatica in ufficio non funziona più niente.

Fateci caso, a qualunque livello, in qualunque settore, i capri espiatori preferiti di una generazione di incapaci sono sempre loro, la comunicazione e l’informatica. Qualunque attrito, inefficienza, incompetenza, si traduce sempre in un “problema di comunicazione”. A seguire questa logica se Hitler avesse avuto un mental coach che gli avesse insegnato a gestire la sua intelligenza emotiva e allontanare le persone negative, avremmo risparmiato milioni di vite. E se l’Impero Romano non avesse aggiornato le sue norme e la sua gestione organizzativa per venire incontro all’espansione, litimandosi ai cari vecchi quattro codici, oggi parleremmo ancora latino. Come no.

Se tutto ciò serve a giustificare i nostri limiti, a crearci un comodo alibi, a scaricare sull’ufficio informatica la nostra poca voglia di imparare e cambiare, possiamo anche capirlo. Così come possiamo capire – non giustificare- il politico o il dirigente che, non volendo perdere il posto, fa fuori il suo consulente di immagine se le cose non vanno nel verso giusto. Però non ripetiamolo troppo spesso altrimenti finiremo davvero per crederlo.
Se sei un idiota e vuoi comunicare di essere intelligente, non è la comunicazione il problema.

Stavolta il sindaco l’ha azzeccata

Oggi voglio parlare bene di Merola, il sindaco di Bologna. Finora non sono stato particolarmente tenero nei confronti della sua giunta, che più di una volta mi ha fatto girare gli zebedei a velocità tale che se ci attaccassi una dinamo al posto dell’alimentatore il mio cellulare diverrebbe un tablet.

Una delle peggiori giunte a mio giudizio da quando vivo a Bologna (quindi circa vent’anni), e dire che non era facile fare peggio di Cofferati (ai livelli di Guazzaloca non c’è ancora arrivato, ma via, quelli erano primati difficili da superare, il Civis, ah il Civis…).

Il mancato rispetto della Costituzione, e in particolare dell’articolo 97 sembra infatti essere uno dei punti saldi di questa amministrazione, che organizza concorsi di cui com’è come non è si sa sempre in anticipo chi vincerà e mi fa venire certi nervi a fior di pelle che se metto i guanti di gomma si stracciano come coriandoli.

Un’amministrazione che indice un concorso per uno specialista di comunicazione, ma trascura il rispetto della legge 150/2000 che prevede per questo ruolo la laurea in scienze della comunicazione. La giustificazione è quasi peggiore dell’infrazione: “volevano consentireconsentire una più ampia partecipazione””. Come se perassumere un medico si accettassero anche laureati in giurisprudenza, così per consentire una maggiore partecipazione.

Una giunta che, sempre sulla comunicazione, trascura le decine di ottimi professionisti al suo interno per giustificare l’assunzione di un professionista esterno, anche in questo caso in barba alla legge (solo il portavoce può essere nominato dal sindaco, i comunicatori e gli addetti stampa devono essere assunti per concorso).
Insomma, se la legge vi va bene, io non vado bene, mi verrebbe da dire citando lo slogan (a proposito, pare l’abbia coniato proprio il consulente assunto dopo, che coincidenza, roba da farmi venire una bile gonfia quanto il sacchetto della spazzatura dopo una cena con i parenti).
Però una cosa Merola l’ha azzeccata, e bisogna riconoscerlo, e per una volta ha fatto bene anche alla mia salute. La chiusura al traffico del centro infatti lo ha ripopolato in maniera incredibile. E non parlo solo dei giorni di sole, quelli in cui nemmeno un sociopatico resta in casa e almeno una capatina in balcone se la fa. Parlo anche di giorni freddi e piovosi come ieri. Come topini che improvvisamente scoprono che il gatto è schiattato, i bolognesi spuntano felici da portici, zampettano per strada increduli del fatto che nessun suv cerchi di inumarli direttamente sopra i ciottoli.
Non so in base a quale calcolo i commercianti si lamentano, io ho visto bar e ristoranti pienissimi, negozi di tecnologia con i ragazzi in fila per l’iphone (ma dove li prendono 700 euro per un cellulare, questi ragazzi?). Forse si guarda più di comprare, ma sarebbe lo stesso con il traffico di auto, temo.
Accipicchia, dimenticavo di citare il finanziamento alle scuole private mentre non ci sono i soldi per mettere a norma quelle pubbliche, che mi fa venire un fuoco dentro come nemmeno quella volta che confusi la crema idratante con quella solare cuocendomi in spiaggia a fuoco lento.
Ah, già, ma avevo detto che parlavo bene di Merola, basta così.

Grazie Cardinale

Il tramontoC’è un libro che, come si suol dire, ha cambiato la mia vita. Non è un romanzo, non è un libro di poesie, forse non è nemmeno un libro: È “Il lembo del mantello”, la lettera pastorale che il Cardinal Martini scrisse nel 1992 e che io lessi un po’ di tempo dopo. Ero un liceale indeciso sul mio futuro, allora: mi affascinavano le materie sociali di stampo psicologico anche se in maniera fumosa, mi appassionavano le nuove tecnologiche e l’informatica anche se i linguaggi di programmazione mi sembravano troppo aridi, mi sembrava che ingegneria ambientale suonasse bene anche se un po’ troppo ingegneria e un po’ troppo poco ambiente, le mie capacità di favella  mi portavano a non escludere giurisprudenza.

Poi lessi “Il lembo del mantello”.

In quel testo il Cardinal Martini trattava il tema della comunicazione, che, ricordava, aveva molto in comune con la parola “comunità”. Proprio come il lembo del mantello di Gesù, che una donna malata tocca tra la folla ottenendo, grazie alla sua fede, la guarigione, gli strumenti di comunicazione di massa (allora si chiamavano ancora così) rappresentavano per Martini uno strumento umile, che talvolta striscia per terra aggiungo io, ma che può farsi strumento di salvezza. Fui letteralmente folgorato, decisi che mi sarei occupato di comunicazione, che si poteva cercare una strada in questo settore anche senza avere ambizione di diventare showman o veline (non c’erano ancora, ma il concetto sì: anzi, visto che siamo in tema di comunicazione, c’era la sostanza e in parte la forma del contenuto ma ne mancava l”espressione).

Non mi dilungo oltre su quella meravigliosa lettera che ho scoperto essere stata pubblicata integralmente dall’ordine dei giornalisti della Lombardia, per cui vi consiglio di leggerla. In seguito anche un mio docente universitario prematuramente scomparso, Mauro Wolf, ci consigliò di leggerla accanto ai manuali di giornalismo e sociologia.

Ebbi modo di sentirlo parlare di persona nel 1997 a Parigi, dove tenne una lectio divina durante la giornata mondiale della gioventù, ed è inutile dire che è uno dei ricordi più intensi di quella esperienza. Definirlo “progressista” rispetto al “conservatore” Ratzinger è sicuramente limitativo: diciamo che Martini aveva il dono di farsi comprendere ed amare da tutti, mentre forse per capire il Papa attuale bisogna avere determinati strumenti (di cui io sono privo, per intenderci). Chissà cosa sarebbe successo se fosse diventato papa lui, si dice che alla prima votazione abbia ottenuto più voti di Ratzinger ma che abbia chiesto di non essere votato perché già gravemente ammalato di Parkinson. Ogni volta che qualche comportamento nella gerarchie ecclesiastiche o nel Vaticano mi turbava, andavo a leggere le sue parole e mi tiravo su. Ossigeno puro in mezzo a scarichi maleodoranti.

Adesso non c’è più, un’altra finestra da cui scorgere la luce dello spirito santo si è chiusa. Grazie per quello che ci hai dato, Cardinale. Speriamo che si aprano in fretta altre finestre, le tenebre incombono quaggiù.

Perché non mi convince l’I-pad

Non ho mai nascosto di essere un amante delle nuove tecnologie, specialmente quelle legate alla comunicazione. D’altronde quello che state leggendo è un blog, non un volantino.

In particolare mi entusiasma la possibilità dei nuovi media di avere un ruolo attivo: non più soggetti passivi come per la televisione e la radio (per la lettura il discorso è più complesso), ma attori del processo comunicativo con un ruolo partecipe. Su Internet leggiamo, ma commentiamo, scriviamo, citiamo.

E produciamo contenuti: foto scattate con il cellulare, testi scritti con il netbook, video registrati con la videocamera o il cellulare, canzoni o discorsi registrati in mp3. Ebbene, tutto ciò non è possibile con l’I-pad.

Immagine tratta dal sito Apple. Copyriight Apple (c)

L’I-pad è, da un un punto di vista teorico, un passo indietro, perché di fatto è pensato per utenti passivi della comunicazione. Non ha la fotocamera, non registra, nemmeno permette il collegamento di questi accessori. E scrivere con quelle tastiere virtuali, non scherziamo, è più faticoso che digitare un sms. Avete provato a selezionare uno dei tasti di un word editor con le dita? Nonostante gli equilibrismi e il ritorno sulle scene del mignolo finalmente non relegato alla pulizia delle cavità auricolari, è difficile, suvvia.

Certo che ci sono applicazioni pensate ad hoc per questo strumento, ma l’impressione è che comunque il principio dell’utente passivo rimanga (non avendo un i-pad non ho certo potuto provare le migliaia di applicazioni, per questo parlo di impressione). E smettiamola poi con questa storia della portabilità, un netbook pesa poco di più… So che l’Ipad 2 dovrebbe risolvere molte di queste carenze, ma insomma, avrete capito che non mi troverete in fila per acquistarlo.