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La panchina

panchinaPomeriggio primaverile. In un giardino pubblico nei pressi di un plesso scolastico, bambini di diversa età rilasciano con allegria la loro energia tenuta a freno per otto lunghe ore. Intorno a loro, mamme, nonne e qualche papà si siedono sulle panchine e osservano. Basta soffermarsi un attimo a osservarle per fantasticare su di loro e sul loro stile di vita semplicemente dal modo in cui occupano la panchina.
La mamma corriere ha con sé più pacchi di un furgoncino DHL nell’ora di punta. Ha occupato completamente la panchina e peccato che non ce ne sia un’altra vicino. C’è lo zaino del figlio, forse quello del fratellino o dell’amico che è con lui. Poi c’è la sua borsa, enorme come solo le borse delle mamme corriere sanno essere. Un’altra borsa che probabilmente contiene gli stivali di gomma che non si sa mai, un sacchetto con la merenda, un altro con un ricambio, un altro che probabilmente si limita a contenere un raccoglitore con l’indice di tutte le cose che si porta dietro.
La mamma in carriera si appoggia alla punta della panchina, ma solo in apparenza: in realtà è posizione accovacciata con le gambe contratte così non sporca la gonna del completo e al tempo stesso rassoda i glutei. Risponde ai clienti al cellulare, rivede la presentazione per il giorno successivo e ad un certo punto un messaggio sullo schermo le ricorda che è lì con suo figlio e che è ora di tornare a casa. Subito, senza esitazioni, che il tempo è denaro.
La mamma crocerossina sulla panchina non ci sta mai. Vorrebbe sedersi un attimo, ma eccola scattare verso lo scivolo prima che il figlio si cappotti rovinosamente. Si rassetta i capelli ed eccola al centro di una piccola rissa scoppiata dopo uno sgambetto dato al centravanti durante la partitella (come capisci che è il centravanti? A quell’età sono tutti centravanti, tranne lo spilungone emarginato che sta in porta e ride). La mamma crocerossina ha una funzione civetta: finché sta lontana dai tuoi figli vuol dire che questi sono al sicuro.
I nonni di solito stanno immobili e sorridono, uno vicino all’altra. Non gliene frega una emerita cippalippa se il nipotino mangia cioccolata e la sua mamma non vuole. E se si farà di nuovo male, pazienza. Non sono minimamente interessati alle condizioni dei vestiti che non laveranno loro e sono lì solo per sorridere e godersi il momento. Hanno sofferto tanto come genitori ma adesso possono infischiarsene di tutto perché sono nonni ed è questo che i nonni fanno, sorridere, che tanto il problema non è il loro.
La zia (o magari la babysitter occasionale) la individui subito perché non è nell’ambiente e non ne conosce le regole essenziali. La prima è quella di non posizionarsi nella panchina centrale perché quella panchina è posta in fondo alla tre quarti campo del Bernabeu immaginario nel quale i ragazzotti giocano la loro coppa del mondo. Se non verrà asfaltata da quella massa vociante probabilmente una pallonata le deformerà irrimediabilmente i connotati, e le insegnerà che non ci si siede sulla panchina centrale.
Infine la mamma sociopatica passa tutto il tempo a guardare il suo smartphone, magari sta litigando nel gruppo whatsapp con la mamma a venti metri di distanza, o sta ripostando una bufala sulla galleria sotterranea costruita dai romani tra Sicilia e Calabria. Forse sta leggendo l’oroscopo o guardando gli addominali di un modello, di sicuro non sta guardando suo figlio, che temo sia lo spilungone emarginato.  Che magari se n’è già andato a casa da solo senza che sua madre nemmeno se ne accorgesse e adesso non ride più…

2015. Un anno da giovane papà

bimbe_villaggioPiù invecchio, più mi rendo conto che un Natale all’anno è troppo

Papà oggi a cuola matenna è venuto Babbo Natale! Ma era finto però, no quello vero noncicascoio
noneravero-no-no
?
-Tu quanti anni hai papà?
– Quaranta..
-Ah…sei cresciuto davvero tanto papà!

Papà ma cosa ha faciuto la mamma di Icaro quando è tornata a casa dopo il lavoro? ?#?mitologia? ?#?domandedifficili?

– Che cosa dice quella maglietta che ti sei comprato? Non saranno cose brutte?
– Niente cose brutte, ma’, non vedi? AC/DC. Azione Cattolica Democrazia Cristiana.
– Hum…

3 minuti di emozione, 3 ore di scientifico sminuzzamento dei cabasisi. prepararsialsaggiodidanza

Papà io non ti ho sentito, ma tu hai gridato “bis” quando abbiamo finito la canzone?
– Ehm…Certo! È che ero lontano per fare le foto dal fondo!

Svuotare un vasino colmo senza bagnarsi la punta dei piedi è un’operazione molto più complessa di quanto non appaia ad una prima sommaria valutazione

È arrivato il momento di fare delle scelte educative importanti, come padre. Sono decisioni difficili da prendere. Ebbene, devo iniziarla al cammino di “Star Wars” seguendo la cronologia narrativa, partendo dunque dalla Minaccia Fantasma, oppure seguire una linea storica-produttiva e iniziare da Guerre Stellari? Nel primo caso, potrebbe non avere voglia di vedere il seguito, nel secondo vivrebbe l’esperienza che è toccata a tutti noi, e cioè griderebbe sconsolata “Prequel? E lo chiamate prequel?” Potrei nasconderle del tutto l’uscita dei tre film prequel. Ma per quanto tempo potrei nasconderle la verità?

Dammi a cannuccia!
– Prenditela tu, non sono mica la tua serva. Oppure chiedila a papà.
incimaallagerarchia

– Questa non è una principessa, è una fatina, vedi? Ha le ali.
– Ah. Peò novvola.
– Perché dici che non vola? Ha le ali…
– Novvola pecché è un gioccatolo.
nonfaunapiega

– Papà, papà, andiamo a vederlo al cinema?
– Eh, dipende… Se prendi parecchi “bravissima” ci andiamo
– Ma guarda che non è che posso prendere dei “bravissima” così, quando voglio. Al limite possiamo fare che ci andiamo se non prendo più nemmeno una nota. Che dici?
….
farapiustradadime

 

Papà, facciamo i compiti?

altalenaNon mi è mai piaciuto fare i compiti. Andare a scuola era un dovere, magari noioso, ma, con i limiti della maturità che può avere un bambino, ne comprendevo l’utilità. Ma i compiti no, i compiti erano un’invasione dei miei tempi che tolleravo a fatica. Certo c’era qualche eccezione: non mi dispiacevano i “pensierini” che poi divennero “composizioni” e infine “tema”. E anche gli esercizi di matematica, quelli con il risultato finale previsto che doveva corrispondere al tuo, avevano un che di divertente, una sorta di rompicapo. Insomma però, sempre compiti erano.
Con i ricorsi storici che la vita ci propone, anche i compiti, come i peperoni, si ripropongono. Sono quelli di mia figlia, che ovviamente chiede un sostegno al papà o alla mamma. E se il tempo pieno ci ha liberati dall’incombenza quotidiana, ecco che lo spettro della paginetta fitta fitta del diario si protende minaccioso sugli equilibri del week-end.
E il guaio è che adesso non posso nemmeno farli io, i compiti (anche se la tentazione è forte: con tutto quello che ho da fare, non posso, davvero non posso aspettare che tu colori quella paginetta, tesoro mio). Devo, come dire, sovraintenderli, indirizzando talvolta le scelte (non se ne parla proprio, cominciamo con la matematica: le letture le farai quando sei ormai cotta) sollecitando l’operatività (e basta temperare le matite! Pensa a ‘sta cacchio di sottrazione che siamo fermi da dieci minuti!) sostenendo nei momenti di difficoltà (lo so che scrivere in corsivo è faticoso e ormai quasi inutile e ti servirà a poco nella vita, ma il bello sta proprio nello scoprire quante cose non ti sono servite cammin facendo. Non posso mica toglierti il gusto elencandole tutte adesso!).
Insomma, ho un ruolo di responsabilità. Con l’aggravante che il resto della dirigenza mi boicotta (la mamma mi ha sempre fatto fare così) e che i reparti operativi non nutrono particolare rispetto per i vertici, sapendo che non posso né licenziarli né rifiutare loro le ferie (uffà papà non è così che si fa).
Quali altri ricorsi mi riserva il futuro? Devo prepararmi alle nottate prima delle interrogazioni e al ritiro a inizio della stagione sportiva? Non lo so. Anche perché, con l’avanzare degli anni, più che ricorrere, al massimo queste attività ripasseggiano, che di più non ce la faccio.

I papà e la tivù dei piccoli

tivvuAlla fine è successo anche a voi, siete diventati papà. E dopo i primi mesi trascorsi attaccati a mammina, ecco che i pargoli acquistano autonomia, si rendono intraprendenti, cominciano a nutrirsi di strumenti televisivi di indottrinamento di massa. Ed è bene che vi prepariate, perché è roba che picchia 24 ore al giorno su cinque o sei canali, per non parlare di quelli tra voi talmente ricchi da comprarsi anche i canali a pagamento (non è il mio caso, se non si è capito dal rancore sottinteso).
Avete presente le teorie sulla parità dei sessi, sulla costruzione sociale del genere, sulla libertà di crescere liberi da cliché? Bene, dimenticatele. Perché gli autori dei programmi per bambini queste teorie non le conoscono. Se avete una figlia femmina, la parola chiave sarà: principessa. Non architetto, ingegnere, e nemmeno astronauta. Vuoi mettere tutta quella fatica sui libri per trovare poi un lavoro sottopagato o dover fuggire all’estero, quando puoi trovarti un bel fusto e farti mantenere tutta la vita? Certo dovrai magari per un po’ occuparti delle faccende domestiche (Biancaneve e Cenerentola) ma poi vivrai felice e contenta. Oppure dovrai fare lo sforzo di baciare un rospo, che però ti sistemerà per sempre. Ancora meglio se tua madre ti toglie questa incombenza e il re se lo sposa lei, come succede a Sofia la principessa.
Certo, qualche eccezione c’è. Come la dottoressa Peluche. Che non è un’attrice porno anni settanta. Dimenticate quelle cose, siete papà ora. È una simpatica aggiustatrice di giocattoli, ma attenzione, è di colore. Evidentemente s’è trovata un lavoro visto la carenza di principi nel suo quartiere. Che poi il lingua originale è Doc McStuffins, e a quanto mi risulta non aggiusta i peluche. Davvero i traduttori stavano pensando ad altro. A CUI NON DOVETE PENSARE VOI. Siete papà ormai.
E già che siamo in tema, ricordate che la mamma di Peppa Pig è una porcellina. Non una maiala, e nemmeno una porcellona. Anche se, considerando il perenne sorriso soddisfatto di suo marito, probabilmente un po’ porca è. Ma rimanga tra noi. E le Wings, nonostante gli abiti striminziti, il trucco vistoso e i tacchi a spillo non fanno il mestiere più antico del mondo. Sono fatine. Ricordatevelo, perché il giorno che i vostri figli troveranno nascosto in un cassetto quel vostro vecchio dvd che non avrebbero dovuto scoprire, spiegherete loro che quello è un film di fate, solo per bambinoni un po’ più grandi.
Se invece avete un figlio maschio, probabilmente i suoi modelli televisivi saranno il postino, il pompiere, il costruttore edile e il vichingo. Considerando che non ci sono da anni concorsi pubblici e vista la crisi dell’edilizia, probabilmente indossare un copricapo con le corna e assediare i porti a bordo di velieri a vele non sarà poi una cattiva idea, un domani.

PS Lo so, lo so, ci sono delle valorose eccezioni, da Pocahontas a Ribelle, passando per Tiana. Per non parlare della mia preferita, Fiona. Ma sempre aristocratiche sono. Insomma l’idea che ci provino a insistere su ruoli nobiliari stereotipati rimane, specie per quanto riguarda la Disney. E per i maschi le cose non migliorano: qui se non sono nobili sono insulsi. L’eroe per quelli della mia generazione era l’intrepido Zorro. Adesso c’è quel palestrato salutista di Sportacus che mangia solo mele, ha gli stessi baffetti di Zorro ma il carisma di un Don Diego in pigiama.

Dietro la porta colorata

Questo messaggio è rivolto a chi sa già che diventerà padre. O a chi vorrebbe diventarlo, un giorno. Ma soprattutto a chi è nel dubbio e si domanda, con tutto quello che ci succede intorno, se ne vale la pena, se ne sarà capace, se è pronto.

Ebbene, pronto no, non lo sei. Non lo sarai mai. Non lo è nessuno, perché non ci si può preparare ad essere travolti da un treno di esperienze, sentimenti e responsabilità che prima si potevano appena immaginare. Se sarai capace, lo scoprirai. Intanto però posso dirti cosa significa per me. E non lo farò con argomentazioni psicologiche, etiche o storiche. Per quelle ci sono i libri di persone molto più preparate di me.

Lo farò con un’immagine. L’immagine di una porta, di solito colorata e festosa. Dietro quella porta c’è il tuo bimbo, che disegna, colora, si picchia e si scambia liquidi biologici infetti con altri bimbi. Che sia il nido o la scuola materna, poco cambia. Quando busserai a quella porta, sentirai, tutte le volte, come la prima volta, una sensazione che le parole possono provare a descrivere, a fatica, tramite accostamenti o similitudini, ma che in sé racchiude l’essenza della paternità.

Perché aperta quella porta, tra tante testine vocianti (a meno che tu non abbia fatto di nuovo tardi, mannaggia, e allora di testina ce ne sarà una sola, e pure incazzata), ce ne sarà una a cui tieni particolarmente. E quando la maestra farà segno, quella testina si rivolgerà verso di te, ti riconoscerà, sorriderà, e ti correrà incontro a braccia aperte.

Vale la pena? Fosse solo per quel momento, caro mio, si, ne vale la pena. Perché nel primo passo che farà ci sono i libri che avresti potuto leggere negli ultimi anni, e sono lì sul comodino. Nel secondo passo ci sono le cene con gli amici che ti sei perso. Nel terzo passo ci sono i chili che hai preso perché non ti alleni più, il quarto raccoglie tutti i film che hai visto e che si fermano a qualche anno fa, nel sesto le partite di calcetto a cui non hai partecipato, nel settimo passo ci sono le occasioni di carriera a cui hai rinunciato. Per essere lì, in quel momento, per allargare le braccia e ringraziare il cielo che i passi sono otto altrimenti chissà a quante altre cose avresti dovuto rinunciare.

La paternità, secondo me, per me è tutta lì, in quell’abbraccio che ti aspetta dietro quella porta. E guarda che ci vuole davvero tanta forza, ma non per accoglierlo, quell’abbraccio, ma per rinunciarci, come magari in certi momenti hai pensato di fare tu.

Buon viaggio, bimbe

libri sullo scaffaleIn principio fu il Giornalino, delle Edizioni Paoline. Le storie a volte erano un po’ complesse per un bambino delle elementari, ma aveva il vantaggio che, essendo venduto in chiesa, spesso ne ottenevo una copia dalla nonna senza dover attingere alla paghetta. Poi arrivò la scoperta di Topolino: centinaia di albi che mio zio regalò ai miei perché aveva gli armadi piedi, e nei quali mi avventurai combattendo i criminali nella 313 truccata di Paperinik, scovando i malfatori sulle tracce di Topolino e appassionandomi alle storie multiple, quelle in cui ad una certa pagina potevi scegliere cosa fare e osservare come andava a finire.
Il primo libro fu la biografia di Cristoforo Colombo. Non so perché, me lo regalarono. Forse perché aveva le mie iniziali, forse un regalo riciclato. Non un granché a dire il vero, ma non mi scoraggiai e feci un secondo tentativo più fortunato con l’Isola Misteriosa. Bingo. Un libro che mi appassionò, emozionò, scosse al punto tale che ancora ricordo bene i caratteri di stampa e la copertina arancione. Non la trama, perché una strana maledizione fa sì che ricordi bene gli stati d’animo che mi hanno accompagnato nella lettura ma non le storie. O magari è una fortuna, perché potrò rileggerle di nuovo e sarà come la prima volta. Proseguì a spulciare tra quello che trovavo nella libreria, passando da Piccole Donne e Piccole donne crescono (niente di che ma la verità è che mi ero innamorato di Joe, non si spiega altrimenti la lettura anche del seguito) a Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in 80 giorni, che posero definitivamente Jules Verne in cima alla mia Hit-Parade.
Intanto mio zio si era sbarazzato anche di copie di Tex, e la scoperta del fumetto “da grandi” fu uno dei profondi turbamenti del passaggio alle scuole medie. A quel punto ero ormai un lettore provetto, leggevo di tutto, dai fatti incredibili della Settimana Enigmistica alle storie sdolcinate di “Confidenze” che comprava mia madre, uno di quelli che non vede l’ora di tornare a immergersi nell’avventura in cui lo scrittore l’ha calato, e leggere Agatha Christie, Ellery Queen e gli altri classici del giallo mondadori diventò una piacevole dipendenza. E dopo vennero i libri a mille lire di Newton Compton, i primi che potevo comprare con la mia paghetta, i fumetti della Marvel dai quali mi separai dolorosamente perché per amore di continuity spendevo più di quanto non potessi permettermi, e insomma, sono sempre stato un ragazzino attento a proprio limitatissimo bilancio.
Leggere è vivere altre vite, appropriarsi del dono dell’esperienza, della fantasia e dell’immaginazione che un altro ti dà, leggere è indossare gli abiti di eroi metropolitani, supereroi o leggende storiche potendo tornare ai nostri rassicuranti jeans non appena si chiude la pagina. Leggere è partire per uno di quei tour in cui ti affacci al finestrino e da ogni parte tu guardi osservi una meraviglia.
Confido di riuscire a trasmettere qualcosa di questa passione quando chiudo le mie serate leggendo in compagnia delle mie bimbe le storie che arricchiscono questa fase della mia vita: Scacciabua, Mano Manina, Voglio il mio ciuccio, Ciao papà, La rabbia. Spero che il viaggio cominci anche per loro, e se non ci sono gli armadi dello zio da svuotare, ci saranno quelli di papà.