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Si impegna, ma non ce la fa

Negli ultimi tempi eravamo abituati a guardare con un po’ di stizza i super campioni della nazionale di calcio perché, l’impressione che ne derivava, era di personaggi un po’ altezzosi preoccupati più a difendere i contratti con lo sponsor e quindi a non farsi male in inutili partite internazionali, che non a difendere i colori della squadra azzurra.

L’atteggiamento era insomma quello del “è bravo ma non si impegna, potrebbe dare di più”. Frase che milioni di genitori si sono sentiti dire ai colloqui con i professori, e che tutto sommato è rassicurante, perché c’è un problema di volontà ma i numeri ci sono. Magari con una bella strigliata ci si rimette in carreggiata. La nazionale vista purtroppo contro Paraguay e Nuova Zelanda è passata ad un nuovo paradigma. Quello del “poverino, si impegna, ma non ci arriva”. Questi hanno corso, pressato, si sono impegnati allo spasimo, ma sono talmente scarsi che più di due punti non sono riusciti a racimolare.

Sarà che sono organizzati male, sarà l’inesperienza, sarà che Lippi ha lasciato a casa tutti i “geni e sregolatezza”, ma qui di genio non se vede proprio. Questa nazionale contro l’Inter prenderebbe tre o quattro gol, non scherziamo. Però siccome speriamo che anche gli zucconi prima o poi, a furia di darci sotto, riescono a passare l’esame, non possiamo che augurarci che sia così e fare il tifo per questa nazionale che più che rabbia, poverina, fa tenerezza.

Ci mancava solo il 3D

E prima gli schermi piatti al plasma, poi quelli lcd, poi quelli pronti per l’alta risoluzione (ma non troppo), poi quelli pienamente ad alta risoluzione, poi gli schermi led che migliorano la luminosità.
Adesso siamo arrivati ai televisori 3D, da acquistare con appositi occhialini. I produttori di hardware hanno tutto il diritto a provarci, finché la gente cambia televisore ogni due anni per seguire le mode a costo di indebitarsi, perché non continuare?
Personalmente mi auguro che questa corsa abbia fine un po’ come è successo con l’informatica, che dopo aver lanciato ogni 6 mesi un computer con microprocessore più veloce (ricordate la guerra del MHZ) ha finito per stomacare gli acquirenti che oggi si rendono conto che con un netbook da 150 euro possono fare quasi tutto quello di cui hanno bisogno.
Anche perché 3000 euro per avere l’impressione di avere in salotto Minzolini che ci spiega che va tutto bene e con il suo telegiornale ci illustra le nuove tendenze della moda casual e i dettagli sulla cucina fusion mi sembrano troppi.

L’ottava vibrazione, di Carlo Lucarelli

La guerra è brutta e in Africa si suda.
L’ottava vibrazione di Lucarelli è un romanzo storico che colpisce per la cura dei dettagli e l’evidente lavoro di documentazione che l’autore ha compiuto per portare alla luce un affresco corale su un periodo difficile per la storia italiana e colpevolmente trascurato, quello delle campagne d’Africa. Una serie di vicende si intrecciano e contibuiscono a rendere bene il contesto: c’è il contadino meridionale e sempliciotto, l’anarchico che non avrebbe voluto partire, c’è l’aristocrazia annoiata che aspetta di vedere cosa accadrà di questo impero coloniale, ci sono affari sentimentali e anche l’immancabile trama a sfondo giallo, forse una delle più consistenti del romanzo.
Ci sono un paio di scene madri che farebbero la fortuna di una trasposizione cinematografica (la gita in barca, l’insolito uso botanico dell’elmetto, la battaglia finale).
Eppure… eppure qualcosa nell’amalgama non funziona.
Prima di tutto perché Lucarelli osa parecchio sul piano stilistico passando continuamente dalla narrazione al passato al presente: espediente che può rendere immediata la storia e avvolgere il lettore nei fatti, ma che se eccessivo porta ad un senso di straniamento, all’interruzione di quella sospensione dell’incredulità che è necessaria per entrare in una storia senza avere l’impressione, appunto, di stare leggendo. Poi perché l’obiettivo di evitare ogni retorica è apprezzabile, ma rende talmente orribile e osceno il comportamento di buona parte dell’umanità descritta che in alcuni tratti si fa fatica a procedere nella lettura, tanto è il senso di disgusto. Infine, alcuni passaggi – per esempio le pedanti descrizioni glottologiche del diverso modo di parlare l’italiano dei militari, oppure i continui riferimenti al caldo dell’Etiopia – finiscono per rendere lo svolgimento un tantino farraginoso.
E alla fine si resta con l’impressione di aver capito che la guerra è brutta e che in Africa si suda: un po’ poco per un grande scrittore come Lucarelli dal quale era lecito aspettarsi un po’ di più.

Non stanotte almeno, di Silvia Totò

Capita spesso di leggere romanzi di esordienti o comunque scrittori alle prime armi che a fronte di una cura maniacale per la forma e la ricerca della parola ad effetto, denotano una certa carenza nell’ossatura, nella storia da presentare.
Autori insomma che sanno scrivere, ma non hanno niente da raccontare. Nel caso invece di “Non stanotte almeno”, opera prima di Silvia Totò, si rimane spiazzati perché la situazione è diametralmente opposta. L’autrice ha infatti una bella storia da raccontare, la vicenda di una ragazza che prima di trovare il coraggio di intraprendere una storia d’amore seria deve vincere i fantasmi di un passaggio irrisolto.
La Totò è abilissima nel delineare contemporaneamente la trama principale e una serie di sottotrame efficaci, spostando continuamente il piano d’azione che confluisce verso un finale consolante ma non consolatorio. E però, di fronte ad una bella “fabula”, è l’intreccio che ogni tanto delude: l’impressione è quella di una storia scritta d’impulso alla quale una seconda riscrittura, per arricchire il lessico, rivedere alcuni passaggi bruschi e curare un po’ di più il registro avrebbe sicuramente giovato. Niente di grave, per carità; solo la storia, intensa e spontanea, sarebbe emersa in maniera più efficace, mentre adesso è un po’ spezzettata in quadretti isolati.
A questo punto, aspettiamo Silvia alla seconda prova, il potenziale c’è, occorre un po’ di sacrificio per farlo crescere…

Fiera del libro

Eccomi a documentare la prima presentazione realizzata per “Bologna l’oscura”,  alla la Fiera dei piccoli e medi editori di Roma. In fondo il primo incontro del libro con il pubblico si è avuto lì.

Una fiera a cui cerco di non mancare mai perché si ha davvero l’opportunità di incontrare lettore appassionati e curiosi, senza l’effetto Show di Torino dove talvolta si ha l’impressione che ci sia più attenzione per le poesie introspettive del cantante pop e per la raccolta di ricette della diva del reality che per quei quattro sfortunati che continuano a pensare che i libri li debbano scrivere gli scrittori.

Tra i momenti indimenticabili, quello della signora di mezza età che dopo aver comprato una copia del libro, è tornata dopo un’oretta con alcune omiche che ne volevano una copia a patto che facessi anche a loro una bella dedica. Questo si chiama viral marketing!

Fiera del libro di Roma
Eccomi con l'editore Raffaele Calafiore, nel momento sempre piaceviole delle dediche e mentre mostro il mio profilo di 32enne sfatto

La pubblicit? autocompiaciuta

C’è il piccolo scatolotto giapponese che da anni continua ad autodefinirsi "geniale"; c’è l’utilitaria francese che in uno spot radiofonico simula un oscar in cui vince tutti i premi; ci sono gli stilisti che si compiacciono di stupire, scandalizzare, provocare, ma mostrare abiti, mai.
Una volta si pensava che la pubblicità servisse a vendere. Poi è cominciata l’era del customer care, della gestione del cliente, e la pubblicità, più che conquistare nuovi clienti, serviva a fidelizzare i vecchi e a far comprare loro nuovi prodotti consumando sempre di più. Adesso, le pubblicità più – non tutte, ma è una tendenza evidente – servono ad autocompiacersi.
Chi dirige le aziende vuole sentirsi dire quant’è bello, bravo e furbo, e se lo dice da solo. Forse è anche per rassicurare gli investitori, ma l’impressione è che lo spot sia un trofeo da esibire in consiglio d’amministrazione, al club con gli amici, in business class, mostrando la rivista patinata: questa è la mia azienda, sa. Siamo bravi, belli e furbi. Tanto più che non si investe, come la teoria economica insegna, quando le cose vanno male, ma quando i risultati sono buoni e si vuole celebrarli, buttando via il denaro inutilmente.
Più o meno quello che qualche anno ripetevano compiaciuti i giganti della Sony, finché non si sono resi conto che i consumatori compravano ormai solo Samsung. Perchè non saranno belli e bravi quanto certi direttori, ma i consumatori sono furbi eccome…