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Quei giovani da valorizzare

Ogni anno, in questo periodo, resto particolarmente colpito dall’entusiasmo, l’abnegazione, la professionalità di ragazzi giovanissimi che lavorano nel settore turistico. Sono attenti, pronti, dinamici. Penso per esempio ai ragazzi che nei villaggi turistici lavorano diciotto ore al giorno per paghe miserevoli, organizzando attività sportive, animazione serale, balli e giochi vari, ma anche servendo ai tavoli, cucinando, riassettando. Con l’energia, la propositività, lo spirito che solo a vent’anni puoi avere.

Ma anche quelli che lavorano nei ristoranti o negli hotel, o magari fanno solo del volontariato per la sagra della Pro Loco. Quanto farebbe comodo ad un ufficio dell’INPS, per esempio, avere un po’ di quello spirito? L’esempio dell’INPS è casuale, qualunque ufficio pubblico, condannato dal blocco del turn over ad essere popolato da cinquantenni quando va bene, avrebbe un disperato bisogno di forze fresche.

Se vogliamo lasciamo perdere il pubblico, visto che tanto il progetto dei nostri governanti è quello di portarlo all’esaurimento sostituendolo con appalti succulenti per ditte amiche, ma possibile che neanche le aziende riescano a intercettare queste capacità? Sicuramente ci sono dei ragazzi “bamboccioni”, ma ce ne sono anche di volenterosi, e non valorizzarli è un delitto. Possibile che solo un capo vilaggio sia in grado di fornire loro un’occasione professionale?

mareQualcuno potrebbe obiettare che il lavoro nel settore turistico è più ambito di quello, non so, in un ufficio, o in una fabbrica. Ma infatti io non sto proponendo di far trascorre l’estate ai ragazzi imbullonando macchinari. Lasciamo che operino pure dove gli pare, che si godano le loro vacanze tra un esame universitario e l’altro. Poi, quando dovremo selezionarli tramite un colloquio, anziché chiedergli un diplomino di lingua comprato dal papà, chiediamo loro come hanno trascorso l’estate dopo i diciotto anni. Secondo me potremmo avere delle ottime sorprese.

Creatività precaria

uffici2001

  • Ma davvero hai mandato il curriculum a diverse aziende?
  • Certo.
  • E se poi ti chiamano, ci vai al colloquio?
  • Certo che sì.
  • Mah, io non potrei mai. Tutti i giorni la stessa vita, sveglia presto, timbri il cartellino, un capo che ti dà ordini tutto il tempo, le riunioni, gli straordinari. Per carità, non c’è niente di male per un operaio, o un ragioniere. Ma per un esperto di comunicazione è diverso. Noi abbiamo bisogno di stimoli, di allevare la nostra creatività, di viaggiare. Non possiamo inaridirci dietro una scrivania. Sono appunto stato ad un convegno sulla convergenza digitale, guarda il futuro è quello, verrà il giorno in cui i computer, i telefoni e le televisioni saranno connessi, e ci sarà un sacco di lavoro per chi produrrà contenuti. E un sacco di soldi.
  • Può darsi, non dico di no. Però io non ho il carattere per fare l’imprenditore e nemmeno i soldi. Se trovo un lavoro bene, altrimenti non so nemmeno quanti mesi potrò mantenermi a Bologna.

2005

  • Ciao come stai? Ehilà che eleganza, che bel vestito. Ma allora? Non dirmi che davvero ti sei fatto assumere in banca?
  • No, non in banca… Però sì, sono un impiegato.
  • Ma dai, non posso crederci, e davvero timbri il cartellino, poi vai in pausa pranzo con i colleghi, caffettino a parlare di vacanze, il sabato la spesa e queste robe qui?
  • Be’ più o meno…
  • E dai, con il tuo talento, sprecarti così per mille euro al mese, scommetto! Sono appena stato ad un workshop ad Amsterdam sulla nuova cittadinanza, le nuove reti di connessione, c’è un mondo di occasioni da sfruttare! Domenica parto per una serie di conferenze a Barcellona, in una sono relatore, perché non ci vieni?
  • Be’, veramente è novembre, prendere una settima di ferie in questo periodo…
  • Già, le ferie, che dramma! Ma scusa, non hai un po’ di flessibilità, tipo staccare per una settimana o due per fare un po’ di formazione, ricarburare, approfondire i tuoi interessi… Prenditi un anno sabbatico, no?
  • Per me la flessibilità vuol dire entrare tra le 8,30 e le 9,30…
  • Non me lo dire, ti prego, non me lo dire, non ti posso vedere sprecare così la tua vita. Molla tutto, dai, fai come me che sono un libero professionista, ho appena preso tremila euro per lo storyboard di un portale, sai io mi limito a definirne la corporate identity, le possibili redemption in termini di customer satisfaction, poi per carità la parte informatica la fanno altri che è una materia così arida io non potrei mai, poi se capita l’occasione magari organizzo qualche evento. Anzi, sai che ti dico? La prossima volta che organizzo una conferenza stampa ti chiamo, tu sei pubblicista, no?
  • Sì ma lavoro in un ufficio stampa… È un po’ diverso.
  • Vabbe’ dai però promettimi di pensarci. Ci mettiamo insieme, io ho già il mio giro di clienti, tu rispolveri un po’ le tue capacità, vedrai ci divertiamo. Mi raccomando cerca di viaggiare un po’ che dietro alla scrivania mi appassisci.
  • Non è che magari sei tu che vuoi mandare il curriculum dove lavoro io? Per un po’ ancora stanno assumendo.
  • Si, ti piacerebbe. Però ci penso, perché no, per qualche mese potrebbe anche essere interessante, però cavolo non con quegli stipendi lì, eh…

2014

  • Guarda chi c’è! Mamma mia come sei ingrassato! E i capelli bianchi!
  • Si in effetti gli anni passano, il tempo libero è sempre meno. E tu? I tuoi workshop?
  • Vengo appena adesso da una settimana di incontri tra creativi precari.
  • Ah. Interessante. Di che avete discusso?
  • Be’, di questo sistema del lavoro opprimente che uccide noi partite iva e garantisce sempre i soliti, quelli con il contratto a tempo indeterminato, e ferie, le malattie… Io l’anno scorso ho avuto una brutta influenza e se non mi aiutavano i miei nemmeno pagavo l’affitto. Ma dico io, si può continuare così? Basta i privilegi, basta l’articolo 18, azzeriamo tutto.
  • Vabbe’, ciao. Ho un po’ di fretta. Sai come siamo noi impiegati, orari, cartellini.
  • E già! Ma il curriculum l’ho mandato alla tua azienda, ma non mi hanno chiamato.
  • Da alcuni anni lavoro nel pubblico.
  • Ah, una bella raccomandazione, eh?
  • Veramente no. Però sai poi la noia delle scartoffie, contratti, delibere, burocrazia. Tutto molto freddo.
  • Vero. Mi avvisi quando fanno un altro concorso?
  • Certo. Ma sono bloccati da sei anni. E pure le consulenze. Non che ti potessero interessare, con i guadagni a cui sei abituato tu.
  • Già. Però avvisami lo stesso.
  • Ok.
  • Ciao
  • Ciao.

Lavorano gratis da mesi. Non lasciamoli soli

Non so se vi è mai capitato di entrare in un ambiente dov’è possibile avvertire un rumore, come un treno o un automobile. Dopo alcuni minuti, quel rumore non lo sentite più. Oppure vi sarà successo di indossare un capo di biancheria e avvertirne il contatto sulla pelle: dopo pochi istanti, anche quel contatto non lo percepite più. È il nostro cervello che disabilita automaticamente quelle percezioni continuative ma povere di informazione che altrimenti ci farebbero impazzire. E meno male che dopo un po’ ci abituiamo persino a certi odori in autobus, ma un po’ più a fatica.

Alcuni vorrebbero che accadesse così anche per i fatti che riguardano le persone che ci stanno intorno. A furia di sentirli ripetere, alla fine non ci facciamo più caso. Ci anestetizzano, e dopo un po’ l’evento “perde di notiziabilità” come dicono gli esperti di media, e non se ne parla più.  A Roma da molti mesi migliaia di dipendenti di alcune cliniche private romane (Idi Irccs, Villa Paola e Ospedale San Carlo di Nancy) stanno lavorando senza prendere lo stipendio.

Una di queste è una mia amica che con i suoi colleghi si sta battendo perché le vengano riconosciuti i diritti più essenziali, il diritto alla retribuzione.

Se accedete al sito dell’Ospedale San Carlo vi chiedono se volete prenotare una visita e si tessono le lodi di quella che era, anzi è, un’eccellenza nel sistema sanitario italiano, con centinaia di posti letto e all’avanguardia nella cura di tante malattie. Però un box in homepage ricorda anche che “la Provincia Italiana della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, quale Ente cui fa capo l’Ospedale San Carlo, è stata ammessa alla procedura del concordato preventivo(…)”Insomma, ad un passo dal baratro finanziario.

La vicenda è troppo complicata per essere raccontata qui, e poi non avrei gli elementi per farlo. Già il fatto che una congregazione religiosa gestisca delle aziende sanitarie private, a me, cattolico praticamente, non mi entusiasma. Che poi le faccia fallire, e porti alla disperazione lavoratori che dimostrano una professionalità straordinaria continuando a lavorare gratis, è veramente intollerabile. Invece di riempirsi la bocca di parole sulla famiglia, perché certi prelati non fanno un esame di coscienza sullo stato in cui stanno riducendo le migliaia di famiglie dei dipendenti di questi istituti gestiti da religiosi? Se io fossi papa venderei seduta stante un po’ di argenteria intanto per pagare i debiti, almeno quello. Poi si cerca di rimediare agli errori, ma intanto rimettiamo i nostri debiti. Ma tanto io papa non lo sono, e anzi nel mio modesto punto di vista di laico ricordo che i farisei volevano buttare Gesù giù dalla montagna perché non amavano quello che diceva loro. E se una volta l’ha scampata alla fine sappiamo com’è andata a finire.

Però queste cose devono fare rumore, e dobbiamo sentirlo questo rumore. Il cervello non può e non deve disattivarlo. Perché è un grido assordante, un tanfo che rende l’aria irrespirabile, un capo di biancheria pieno di spine che dovrebbero farci gridare in difesa di quei lavoratori, e di tutti quegli altri in giro per il nostro disgraziato paese, che hanno perso il lavoro anche se lavoravano bene eccome.

PS I lavoratori del San Carlo hanno creato una pagina su Facebook. Credo che il minimo che si possa fare è cliccare su “mi piace”, per farli sentire meno soli. Anche se no, non ci piace per niente che si debba lavorare gratis.

Tutta colpa dell’articolo 18

Io temevo che gli investitori esteri non spendessero in Italia perché spaventati da uno dei sistemi di tassazioni sul lavoro più alto al mondo.
Credevo che il fatto che anziché un libero mercato ci sia una serie di monopolisti più o meno garantiti nei loro ambiti d’azione e un antitrust che ha praticamente gli stessi poteri di Afrodite A (e se non avete mai visto Mazinga Z cercate su Wikipedia) li tenesse lontani.
Sospettavo poi che anche l’opacità dei rapporti tra certa politica e certa criminalità ci rendesse meno appetibili.
E forse, pensavo, forse il fatto che i dirigenti delle aziende private in Italia hanno quasi sempre il cognome uguale al nome dell’azienda non aiuta.
Invece no.
Sbagliavo.
I professori ci hanno spiegato che gli investitori esteri non investono perché c’è l’articolo 18 che impedisce i licenziamenti.
Che poi non deve essere neppure questo granché questo articolo se negli ultimi anni i licenziamenti sono stati centinaia di migliaia.
Però adesso lo tolgono, così saremo più competivi rispetto ai cinesi o ai cittadini del terzo mondo.
Ora, per essere davvero competivi sul mero piano della riduzione dei costi rispetto a certi mercati del sud-est del mondo dovremmo lavorare 18-19 ore al giorno, eliminare le ferie, far lavorare i bambini.
Voi forse non ci avete mai pensato, ma state sicuri, i professori sì.

Don’t touch my screen

Chi mi conoscesa che, a casa o più spesso sul lavoro, c’è un modo per farmi innervosire, ed è toccare lo schermo con il quale sto lavorando.
La traccia opaca della ditata unta mi perseguita e non riesco a ricominciare a lavorare finché non ne ho rimosso ogni scia. Ecco perché tutta questa mania del touch non la capisco: cellulari, navigatori e monitor imbrattati dalle ditate degli utilizzatori? Ma scherziamo? Senza considerare il fatto che la tecnologia impedisce l’uso di pennini o guanti. Ovviamente non posso che sperare nel fallimento di questi nuovi strumenti.
Se proprio sarò costretto, mi metterò una bacinella con del sapone sulla scrivania.
Se  il mio monitor deve tollerare il contatto del dito, che almeno sia pulito

Il nuovo ponte di Statte

Sarà che come San Tommaso finché non vedo non credo, sarà perché, a parte qualche striscia pedonale e qualche alberello questa è la prima opera pubblica di un certo livello che vedo a Statte in 34 anni (cioè da quando io vedo il paese in cui sono nato) scoprire questa meraviglia mi ha lasciato a bocca aperta:


Statte ha un nuovo ponte che attraversa il canale della zingara, dotato oltretutto di una piazzetta e di un ampio parcheggio.


Complimenti a chi è riuscito a portare a termine questo lavoro: anche se non vivendo più qui potrò godermelo poco, spero tanto di ritrovarlo sempre, e in buone condizioni, tutte le volte che avrò modo di tornare.
Mi raccomando stattesi prendetevi cura dell’unica opera pubblica degli ultimi trent’anni!!!