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Bottoni e cerniere

bottoneC’è qualcosa di inesplorato, profondo e inesplicabile che mi mette in difficoltà quando devo gestire delle cerniere. Sarà l’indefinità instabilità di un oggetto che tiene insieme due lembi che appartengono ad aree diverse, simili ma lontane. Sarà che le fanno sempre più piccole e richiedono manualità e precisione da orologiaio che non ci appartengono più da generazioni. Sarà che per i maschietti rappresenta da sempre una minacciosa ghigliottina che con i suoi denti aguzzi minaccia la preziosa virilità e la invita a prudenti nascondimenti nelle retrovie. (Ricordate la splendida scena di Tutti pazzi per Mary?).

Insomma, io le cerniere le rompo con una facilità disarmante, e “La casa della lampo” fu il primo indirizzo che annotai quando venni a vivere a Bologna 19 anni fa (off topic: a ottobre ho compiuto una svolta importante, perché ormai ho trascorso più anni a Bologna che a Statte, ma in fondo chi se ne…direte voi) dopo quello della stazione dei treni e dell’Università.
Per non parlare poi del colmo della cattiveria, e cioè le cerniere che si aprono in due versi, quelle con due vetturine che viaggiano in senso opposto, e una apre, e l’altra chiude, che in genere mi durano cinque minuti, lasciandomi poi con una linguetta metallica in mano a testimonianza del misfatto. E hai voglia a cercare di ricongiungere le parti, sembra che non si siano mai viste prime, loro che fino a un attimo prima erano un tutt’uno e adesso non combaciano per nulla. Dopo due ore di martellate e staccando i dentini più irresponsabili magari l’hai pure riattaccata, ma alla prima distrazione tornerà a gettarti nello sconforto.

Il bottone invece no. Il bottone mi piace. Nel bottone c’è il compimento di due alterità che si completano a vicenda (evito ardite metafore sessuali ma so che ci avete pensato). Persino il true bottoncino metallico, quello di certi jeans, nella sua genuità industriale è più accondiscente della cerniera. Mi spingerei quasi a dire che il bottone è analogico, mentre la cerniera è digitale. Nel mondo dell’analogico capisci come funziona, col digitale devi fidarti.

Il bottone mi piace perché  è dolce, graduale, sostituibile. Persino sexy, in certe commesse in tailleur con un bottone della camicetta lasciato colpevolmente sganciato che non lascia intravvedere niente ma lascia presagire la felicità. Il bottone ti lascia la libertà di strafare ad un pranzo di matrimonio senza dare troppo nell’occhio, è comprensivo nei confronti di troppi lipidi accumulati sul giro vita, il bottone è complice. La cerniera no. La cerniera è massimalista, o tutto niente. E falsa cortese: ti dà l’impressione di aver chiuso la bottega, poi qualche risolino e una certa piacevole frescura ti mettono di fronte all’imbarazzante verità del tradimento.

Il bottone è parte del nostro linguaggio (starsene abbottonati; attaccare bottone…), della letteratura (la Guerra dei bottoni). I bottoni ci piacciono talmente tanto che chiamiamo così anche i pulsanti. La cerniera è talmente insulsa che cerchiamo dei sinonimi (lampo, zip) per darle un po’ di verve. Ho scoperto che c’è persino un sito dedicato ai button lovers (attenti a come digitate, specie se c’è qualcuno con voi).
E poi con la cerniera rotta non ci fai niente, mentre con il bottone in mano il giovane papà può sempre chiedere aiuto alla giovane mamma o alla giovane nonna…

Le Ferrovie dello Strazio

Una capotreno è stata multata ed ha subito anche un provvedimento disciplinare perché pare abbia trasgredito al severo manuale di comunicazione dell’azienda. La dipendente infatti, in un annuncio ai viaggiatori, ha osato parlare di “guasto”, quando invece avrebbe dovuto parlare di “controllo tecnico”. Secondo questo meraviglioso manuale alla cui redazione avrebbero partecipato degli accademici, bisognerebbe parlare di “intervento dei vigili del fuoco”, e non di incendio, e chissà quali altre capriole lessicali. Ci sarebbe da indignarsi se non fosse che questo determinismo linguistico risale ormai al secolo scorso – e anche prima – e l’idea che orwelliana che un linguaggio censurato avrebbe potuto omologare le coscienze sembrava messa in soffitta. Non per le ferrovie dello stato, per le quali bisogna parlare di soluzioni, e non problemi.
Allora mi propongo di suggerire qualche altra nota al manuale: anziché di treni maleodoranti, potremmo parlare di vetture “diversamente profumate”; al posto dei sedili sporchi, potremmo inserire un “vagoni dal tocco esoticamente selvaggio”; anziché di ritardo, potremmo fare riferimento a “orari di arrivo alternativi”. Così si che noi viaggiatori saremmo felici nelle nostre carrozze stipate all’inverosimile, anzi, pardon, “con un contatto umano più ravvicinato”