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Nostalgia delle attese noiose

smartphoneAlla fermata dell’autobus ti capitava di guardarti intorno, osservare i tuoi compagni casuali di viaggio, guardare i palazzi e osservarne le tracce di vita dai balconi o le scale. In fila dal medico, rifiutando di sfogliare quelle riviste di 3 anni prima, te ne stavi lì a ripensare al film visto la sera prima e a come lo avresti girato tu se mai fosti stato un regista. Sotto la pioggia, intirizzito sotto l’ombrello nell’attesa di chissà che, ti perdevi nei riflessi delle pozzanghere e ai ricordi di infanzia che quegli schizzi ti ricordavano.
Erano momenti di vuoto. Di noia, forse. Momenti in cui per forza di cose il tuo cervello si sgranchiva perché non aveva niente nell’immediato da fare. E quei momenti non ci sono più, perché in quelle stesse circostanze tiriamo immediatamente fuori il nostro smartphone e cominciamo a indignarci per i post dell’amico che ci ricorda la guerra in Siria, a ridere per la solita foto del gattino che esce dal cesto della biancheria, a commentare l’ennesima sconfitta della nostra squadra di calcio. Per carità, non è certo solo Facebook il problema. Io per esempio mi perdo spesso nei meandri delle app con le rassegne stampa, e mi rendo conto che leggo molte più notizie di 10 anni fa e compro una quotidiano al mese quando va bene. Però leggo solo quelle cinque o sei notizie principali, e delle notizie minori delle pagine interne se ne perde traccia.

Dobbiamo avere nostalgia di quelle attese noiose? Io non credo. Anche perché io quei vuoti ho sempre cercato di riempirli per esempio portandomi dietro un libro tascabile, e per esempio “La coscienza di Zeno” l’ho letto in lavanderia ai tempi dello studentato universitario.
Però ogni tanto fantasticare, ricordare, distrarci, lasciare che il cervello gironzoli senza un obiettivo credo che ci faccia bene. Magari ci sono delle belle idee là in fondo al nostro cervello che aspettano in fila di potersi esprimere, ma finché ci gingilliamo con Candy Crush difficilmente troveranno spazio.

Penitentiagite!

 Il vescovo di Bologna è stato categorico, basta con i canti allegri in chiesa. Finalmente!
Cos’è questa idea malsana di portare gioia ed entusiasmo durante la messa? Cosa centra la felicità con la fede cristiana?
Penitenza, contrizione, dolore e frustrazione tornino a conquistare lo spazio che meritano all’interno della liturgia. Basta con le chitarre, attirano troppi ragazzi in chiesa e distraggono le vecchiette, sia dato spazio solo all’organo. Meglio se di manifattura rinascimentale. Basta con l’alleluja delle lampadine e alla perniciosa voglia di vivere che mette, oltre tutto i fedeli quando alzano le braccia rivolgono il viso verso l’alto e invece è meglio che tengano sempre lo sguardo basso a fissarsi i piedi, che non gli vengano strane idee.
Basta con Dolce sentire di Baglioni, sia messo al bando, oltre tutto non è nemmeno in latino. Basta con le canzoni del Gen Rosso, cos’è questa storia della multiculturalità? Che se le cantino i bingo bongo quelle canzoni ritmate, il ritmo si sa è del demonio, solo il lento incedere della noia porta alla salvezza. "Perché la festa siamo noi, che camminiamo verso te?" Ma stiamo scherzando? Festa? Quale festa? Voi siete solo abominevoli peccatori intrisi di peccato originale, altro che festa. Non siete neanche parte del clero e pretendete di rivolgervi a Cristo! Giammai.
E poi: "Resta qui con noi" del Gen Rosso vada cantata, se proprio si deve, solo la sera, "Te al centro del mio cuore" solo in caso di messe notturne all’aperto (altrimenti non si vede la Stella Polare), "Benedici" potrà essere cantato solo in tempo di vendemmia.
Bravo Caffarra, ci voleva, si proceda adesso con vere hit come "Noi canteremo gloria a te","Resta con noi signore la sera", "Dov’è carità è amore", e al limite i canti appropriati preparati da Biffi con il preciso obiettivo di stroncare sul nascere anche solo l’idea di sorridere e gioire durante una messa.
Ma non è che il primo passo. Occorre procedere eliminando le panche (che stiano in ginocchio tutto il tempo quei laici peccatori) e le luci elettriche, che creano un’ambiente troppo luminoso e quindi sereno. Meglio predicare alla luce di qualche fioca candela. Capo coperto e vestito nero per le donne, meglio se poste in una zona separata da quella degli uomini, che tutta questa promiscuità è disdicevole. Se poi restano a casa a recitare il rosario nessuno sentirà la loro mancanza.
Penitentiagite!!!!

PS Forse ho esagerato, ma neanche tanto. Leggete qui:

http://bologna.repubblica.it/dettaglio/la-riforma-dellosanna-del-cardinal-caffarra/1704639

Questo no, quest’altro neanche

Certi dirigenti italiani sono intrallazzoni, non rispettano il mercato, provengono da famiglie oligarchiche che non favoriscono i meritevoli ma gli amici degli amici.
Queste argomentazioni, e simili, sono ripetute fino alla noia da numerose personalità della sinistra. Poi – penso a Telecom o Alitalia, evidentemente – emerge la possibilità di un acquirente straniero, e apriti cielo, dobbiamo difendere l’italianità, non dobbiamo farci invadere, il Piave mormorava, eccetera eccetera. Ma insomma, chi dovrebbe gestirla, la Telecom, Frate Indovino?
Se il giudizio deve essere solo quello del merito, allora la nazionalità non deve contare: chi è più bravo è più bravo indipendentemente da dove è nato. Se mai un giorno avessimo finalmente una legge decente sulle quote televisive, chi pensate che entrerebbe, nel mercato televisivo?
Per qualche fettina forse De Benedetti, qualcosina forse la prenderebbero le cooperative, ma l’ingresso in scena più impetuoso sarebbe quello di Murdoch. E giù di nuovo allora a piagnucolare sull’italianità. Davvero, lo scenario mi sembra quello di una noiosa riunione di condominio.
Tutti a lamentarsi delle scale. Poi qualcuno propone l’ascensore, e scoppia il putiferio. Almeno finché non si trova un altro buon motivo per lamentarsi…

Bypassa l’incidente

Mattina grigia, lunga giornata di lavoro che si dipana in prospettiva, noia, stanchezza. L’autoradio trasemtte le informazioni sul traffico, ogni tanto fa bene ascoltarle e e consolarsi pensando di non essere sulla tangenziale di Mestre o a Corso Malta a Napoli, tutto a un tratto un campanellino riattiva una connessione neurale e mi sveglia. La voce alla radio, atona e piatta, ha consigliato di evitare un incidente sulla tangenziale di Milano “bypassando la zona” tramite un percorso alternativo. Bypassando? Vuol dire passare cantandìo bye bye? Intervenire sul cuore di una zona con un apparecchietto che ne sostiene l’apparato cardiaco?
Ma fatemi il piacere, voi e i vostri consigli sul traffico. Io gli incidenti li evito, li aggiro, li schivo, al massimo, se sono in vena poetica, li eludo.
Ma non li bypasso.
Bye Bye, passo.
E chiudo.

Le rose del deserto

Nel deserto arido dei Natali a New York, degli spezzoni televisivi riciclati e delle pernacchie iberiche, un maestro del cinema si erige maestoso regalandoci la sua rosa.
Mi riferisco all’ultima commedia di Mario Monicelli, Le rose del deserto, un piccolo gioiello d’altri tempi, un esempio da portare ai ragazzi nelle scuole dopo aver fatto vedere loro un cinepanettone, per fargli vedere la differenza tra il cinema e il pattume. Monicelli ci riporta alla campagna d’Africa dei primi anni quaranta, ad un gruppo di soldati che apprestano gli ospedali di campo nel deserto libico: tra loro la figura malinconica e affettuosa di Haber e quella straordinariamente comica di Placido in versione pugliese doc (ma di quella comicità che lascia un buon sapore in bocca come un buon bicchiere di vino, non quei frizzi e lazzi volgari come una bevanda gassata che ti lascia solo la voglia di ruttare).
Monicelli mescola i toni di dramma e commedia con una grazia e una naturalezza che purtroppo i giovani autori sembrano aver perduto, e si diverte a ridicolizzare la retorica fascista che qui si fa cinema e non sketch come in altri recenti e meno fortunati episodi. Bella anche la fotografia che non può ricorrere ad imperiose scene aeree di stampo hollywoodiano e tantomeno a campi lunghi maestosi (e costosi), ma tocca comunque il cuore di chi sa vedere.
Tutti in piedi ad applaudire il maestro. Signore e signori, questo è cinema. Tutto il resto è noia…

Grazie Michael

Ha cominciato che c’era ancora Senna, la Ferrari che festeggiava se finiva la corsa e una Formula Uno che dopo gli anni della noia cominciava a interrogarsi su quelle corse così monotone.
 Ha vinto il primo titolo con una macchina che sembrava uno cartellone pubblicitario, anzi lo era, quella Benetton patchwork che serviva a vendere bluejeans. Quando ha deciso di passare alla Ferrari non tutti si sono resi conto dei rischi che si assumeva: a parte un glorioso passato, la scuderia di Maranello a metà anni novanta non offriva nessuna garanzia di risultato, e ripartire da zero per un campione del mondo non è facile (guardate che fine ha fatto Villeneuve). Ci ha messo un po’, un paio d’anni di duro lavoro, quel titolo perso per un soffio nel 97 e l’antipatico sospetto che avesse cercato di speronare la Williams, poi gli anni dei trionfi.
Con la Ferrari ha vinto praicamente un gran premio ogni tre corsi, stratosferico.
E ieri, nell’ultima gara della carriera, sembrava un papà che gioca con i bimbi, parte con un giro di ritardo, scoppia la gomma, li riprende tutti e ci manca davvero poco che non li ripassi tutti. Si ferma al quarto posto dopo un sorpasso memorabile a Raikkonen che se aveva qualche ansia sul ruolo di erede adesso ne sarà schiacciato. Tanto di cappello, Michael, dopo aver sentito a lungo i racconti di mitici di chi ha visto correre Nuvolari e Fangio, adesso possiamo dire di aver visto anche noi un campione senza tempo.
Chissà quanto ci vorrà per vederne un altro.
PS Massa, che ieri ha vinto il gran premio, è nipote di un emigrante di Cerignola. I pugliesi per vincere devono lasciare la Puglia…