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Santa Vale e San Michi

santoIl sudista al nord festeggia l’onomastico. I parenti lo chiamano al telefono, gli amici gli scrivono sui social. Si perché per il sudista il compleanno è una fredda evenienza aritmetica, un mero conteggio dello scorrere dei giorni. L’onomastico invece è la rappresentazione stessa della propria identità, l’idea che un santo in cielo ci preferisca ad altri perché portiamo alto il vessillo della sua progenie (e pazienza per Samantha e Libero, che come si suol dire non hanno santi in paradiso).
E questo santo va onorato.
In quest’ottica inevitabilmente il sudista non può tollerare il brutale storpiamento dei nomi di cui sono artefici i barbari abitanti padani. La Vale, il Michi, la Fede. A voi risulta esistere una santa Vale e un san Michi? Al limite ci può essere la fede santa, ma è un’altra cosa. Quando verrà il momento del giudizio, forse queste santità spenderanno una buona parola per chi ha così ignobilmente storpiato il loro nome? O non si volgeranno piuttosto altrove, imbarazzate alla sola idea che una parte essenziale del loro nome è stata cancellata, omessa, per risparmiare chissà che, due millesimi di secondo o un paio di caratteri sul messaggino?
Il sudista a dire il vero qualche ritocchino ai nomi lo fa. Ma in senso vocativo, e sempre limitandosi a elidere l’ultima sillaba. E accentando la penultima. Valenti’ vieni qu. Miche’ di nuovo? Federi’ non ci siamo capiti. La musicalità di quell’accento è staordinaria e più che storpiare il nome lo esalta, come una spezia che non copre i sapori. Perché è ovvio che lassù i nostri santi vengono chiamati così, “San Giuse’ vabbe’ che sei mio padre putativo ma ti ricordo che oggi comunque tocca a te sparecchiare”, “Santa Ceci’ non è ora di suonare che lo sai che mia madre – Santa donna –  riposa a quest’ora”, “San France’ di nuovo co’sta storia te l’ho detto che non puoi andare in giro nudo, va bene la povertà ma non è con un paio di mutande addosso che ti arricchischi”. Perché non dimentichiamo che Lui è molto più sudista di noi. E infatti si chiama “Gesù”, con quell’accento così poetico che il Giampi non capirà mai.

PS Questo articolo segue di dieci anni un altro pezzo sullo stesso tema, “La Vale e il Giampi”.
Le cose però sono peggiorate, perché adesso ho due figlie a cui alcuni si ostinano a storpiare il nome, e che meritano i fulmini e le saette mie e delle rispettive sante.

L’era del senza

Per anni ci hanno riempito la testa con messaggi che reclamizzavano la presenza di ingredienti magici nei prodotti che acquistavamo. Dalle pro-vitamine all’omega 3, l’elenco fatto di strani nomi che vagamente ricordavano termini scientifici o medici, è sterminato.
Poi evidentemente qualcosa nel meccanismo si è rotto. Noi non ce ne siamo accorti, ma siamo entrati nell’era del senza. Ai primordi di questo passaggio c’è la madre di tutte le privazioni, il senza zucchero: improvvisamente caramelle, gomme da masticare, bevande e dolci perdevano il loro elemento caratterizzante di sempre (e acquistavano l’aspartame sui cui effetti collaterali c’è più di qualche dubbio, ma questa è un’altra storia).
Gli americani, più politically correct, usavano espressioni più ambigue, come "light", leggero: noi no, dritti al cuore del problema, senza zucchero. E anche la benzina che qualcuno ha provato a battezzare verde (uno degli ossimori più divertenti dello scorso decennio) da noi è sempre stata "senza piombo". Adesso, in piena era del senza, ecco i succhi di frutta senza zuccheri aggiunti, gli yogurt senza conservanti, le brioche senza aromi, le vernici senza additivi, i formaggi senza grassi. Quasi sempre è roba buona, per cui ti chiedi perché diavolo ce li mettevano, quegli additivi.
Poi capisci che non è il caso di polemizzare: siamo nell’era del senza.
Il prossimo passo sarà pane senza companatico.
Passo che in tanti purtroppo hanno già fatto e non certo per sentirsi light.