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Che pizza il volantino

pizzerieC’è quella che non ti fa pagare il trasporto, tanto carica la spesa sui prezzi della pizza. Quella che prende tutti i buoni pasto, anche i buoni sconto del supermercato e i buoni del tesoro se capita. Quella che dà nomi cretini alle pizze e se ne vanta pure. Quella che mette Totò in copertina, e quella che invece rispolvera un’orgogliosa sfinge (che tanto è egiziano pure il pizzaiolo con Totò). Quella che consegna anche dall’altra parte della città, tanto la marmitta del motorino a miscela ti tiene calda la pizza, quella che ti propone anche primi e secondi surgelati, nel caso tu non avessi un microonde.
Sto parlando dei volantini delle pizzerie d’asporto, l’unica forma di stampa che sembra non andare mai in crisi. Alcuni sono ormai settimanali, prima o poi arriveremo al volantino quotidiano. Quando riesco li butto via tutti, ma se a prendere la posta è mia moglie allora trovano la via di casa e si intrufolano nei cassetti.
Tra errori grammaticali macroscopici e interculturalità sempre più diffusa (ormai il volantino pizza & kebab è un classico), i volantini delle pizzerie d’asporto sopravvivono alla crisi, segno evidentemente che un mercato c’è. Perché da qualche parte c’è qualcuno che per dare un tocco di novità alla serata propone di provare una pizzeria d’asporto nuovo, chissà che la pizza non sia più saporita, il pomodoro più fresco, chissà che non ci rilascino lo scontrino. No, quest’ultima evenienza non accade mai, le pizzerie d’asporto non rilasciano scontrino nemmeno sotto minaccia di arma da fuoco e si offendono pure se glielo chiedete. Perché mi chiedi lo scontrino? Sarà forse mai capitato che non te l’ho rilasciato? Guarda, dammi dieci minuti, il tempo di tirare fuori dal magazzino il registratore di cassa e capire come funziona, e te lo stampo, ‘sto scontrino.

Però io non sono quel qualcuno, per cui basta. Tenetevi il volantino, a me non piace cambiare, tanto lo so che alzate il prezzo ogni sei mesi con un tasso di inflazione che nemmeno la benzina durante la guerra in Iraq.
E già che ci siete cancellate quella cavolo di pizza tarantina dai menù, che non esiste, almeno non a Taranto e non per i tarantini.

Quando lo spot è dentro il film

Tratto dalla locandina originale del film. Tutti i diritti dei rispettivi proprietari.

Ho visto con mia figlia il film dei “Puffi”.

Ovviamente, quando guardi un film con un piccolo, ti accorgi di alcuni aspetti che da solo ti interesserebbero meno, e mi riferisco in particolare al product placement. Il film dei Puffi ha alcune gag divertenti (benché il migliore attore sia il gatto Birba, che è animato al computer), una storia sui sani valori della famiglia, la solita New York da cartolina, effetti speciali adeguati e il solito rapporto tra personaggi animati e creati al computer che ormai, dai tempi di Roger Rabbit, non ci meraviglia più.

Il problema è che l’invadenza degli sponsor è ossessiva! Il product placement si riferisce infatti alla possibilità di mostrare un prodotto durante il film con l’obiettivo di farne pubblicità, in cambio di finanziamenti. Nei film anni settanta di serie B non mancava mai, per esempio, una bottiglia di Fernet Branca. Ma un conto è che, all’interno della storia, un personaggio debba prendere un auto, il regista gli fa prendere l’auto dello sponsor. Nel caso del film, il protagonista è dotato di cellulare Experia della Sony, e non manca di mostrarlo. Vabbe’. Un conto è costruire un’intera sequenza solo per inserirci uno spot fittizio! Nella fattispecie, ad un certo punto i Puffi e si mettono a giocare con la Playstation (a suonare, per l’esattezza, con Guitar Hero)! Per non parlare della scena in un negozio di giocattoli, in cui mancano solo i prezzi e l’indirizzo email dove inviare gli ordini!

Mi aspettavo che da un film del genere si cercasse di vendere pupazzi dei Puffi (sono cresciuto con quei pupazzetti di plastica che si collezionavano per ragioni incomprensibili), ma questo via vai di Sony Vaio, Sony Playstation, Sony Experia e chi più ne ha più ne metta mi ha lasciato interdetto. Anche perché quando una pubblicità interrompe un film puoi cambiare canale, quando la pubblicità è dentro il film, fai un po’ più fatica.

E chi li conosce?

 I pubblicitari li chiamano teaser. Sono campagne che servono solo a incuriosire, stuzzicare l’opinione pubblica, senza chiarire troppo il messaggio. Dopo il teaser c’è il follow-up, la campagna pubblicitaria vera e propria che nei colori e nello slogan deve richiamare il teaser che l’ha preceduta. Uno strumento rischioso, sicuramente, di cui si ricordano errori clamorosi (la Mercedes organizzò una campagna di teaser che anticipò di un anno l’uscita della Classe A, poi quando la macchina fu presentata si scoprì che si accappottava in curva). L’idea comunque è vecchiotta, molto sfruttata, e se non c’è un lavoro di creatività fatto bene, allora non funziona. Spesso viene associata al guerrilla marketing, cioè a quelli strumenti di comunicazione non convenzionale che si basano sull’idea di diffondere una leggenda metropolitana o del coinvolgimento involontario dei media per svelare un mistero dietro il quale c’è una operazione commerciale.

I geni del PD hanno usato entrambi questi strumenti. L’hanno fatta in maniera mediocre, ricalcando cioè cliché già abbastanza usurati, senza quell’audacia e quella voglia di osare che devono essere alla base di questi strumenti. E anche da un punto di vista esecutivo, teaser e follow up sono davvero scarsini. Ma il punto non è questo, in fondo chi li accusa esagera, a parte il fatto di aver appeso abusivamente i manifesti (pratica che ha svelato la loro natura politica visto che sono i politici a non pagare mai per le affissioni), per il resto la campagna ha attirato l’attenzione, tutto sommato non è stato questo flop di cui parlano tutti. Il punto è: perché devo usare strumenti che servono tutto al più a vendere scarpe e bevande analcoliche per promuovere il tesseramento ad un partito?

Su quali valori si basa un partito che cita le commediole hollywoodiane e si propone con una grafica che ricorda le patatine fritte più economiche?

Se vogliono conquistare i voti dei giovani di sinistra, cerchino di spiegare perché mai i giovani di sinistra dovrebbero votare per Enrico Letta. Quando avranno trovato una sola ragione, allora potranno farne la base per una campagna di abbonamenti.

Quando il web marketing fa la gaffe…

Siamo tutti abituati alla pubblicità su Internet, che ora in maniera invasiva (quegli spot con il tasto chiudi invisibile) ora in maniera discreta (certi sono così intelligenti che ti viene voglia di cliccarci) ci permette di leggere i giornali gratis. E sono sempre più sofisticati gli strumenti che permettono agli investitori di scegliere il target, verificare il risultato, monitorare le vendite, con una potenza di calcolo che gli spot in televisione o gli spazi sui giornali si sognano.

Ogni tanto però qualcosa non funziona. O meglio, non funziona come dovrebbe. Leggo su repubblica.it un titolo che fa riferimento ai un drammatico episodio di cronaca in cui un proprietario di suv investe e uccide un pensionato dopo una lite per un posto auto. Clicco per leggere sull’articolo, e mi si spalanca davanti la pubblicità di una Toyota Rav 4×4. Un suv, appunto. Spero non quello dell’incidente (non so quale fosse il suv), perché sarebbe davvero troppo, ma insomma, i collegamenti semantici alle volte non funzionano al meglio.

E chissà che prima o poi non ci capiti la pubblicità di una macchina fotografica dopo un articolo di gossip o quella del parmigiano dopo un articolo sulla lega…