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La periferia dell’impero

Non sono uno di quei telespettatori snob che guarda solo serie televisive americane ad altissimo budget. Anzi, a volte i soldi e i grandi interpreti non bastano a coprire sceneggiature incerte, come nel caso del mediocre Obi-Wan Kenobi dell’universo Star Wars (come ci si può appassionare a una storia se si sa già quello che accadrà dopo?) oppure come per Secret Invasion, dove uno dei personaggi più carismatici dell’Universo Marvel, Nick Fury, viene coinvolto in un thriller cupo in cui a un certo punto, però, senza spiegoni online non si capisce davvero più nulla, tanti sono i salti nella trama, non tutti logici.

Al contrario: mi piacciono le serie tivù italiane, ho amato molto il Commissario Montalbano, attendo con ansia le nuove puntate di Rocco Schiavone e Imma Tataranni, trovo simpatico il protagonista di Macari, per una volta un giornalista e non il solito poliziotto sciupafemmine. Poi però mi imbatto in serie tivù di un livello qualitativo così discutibile da domandarmi se, come per il mitico Tano Boccia che girava usando i set dei peplum americani durante le pause pranzo, non le realizzino con gli scarti di altre produzioni. Le ultime due che ho guardato riguardano le mie due città del cuore, Bologna e Taranto, e in entrambi i casi lo sforzo per arrivare all’ultima puntata è stato davvero poderoso. Ho dovuto davvero insistere, convincermi che avevo tutte le capacità e il talento per andare fino in fondo senza dormire.

Si tratta di “Vivere non è un gioco da ragazzi” e di “Sei donne – Il mistero di Leila”.

I problemi che ho riscontrato sono simili, per cui comincio a pensare che ci sia un difetto nella progettazione di questi prodotti. Ma vediamo di procedere con ordine. Gli attori sono di prima qualità: Stefano Fresi e Claudio Bisio per Bologna, Maya Sansa e Isabella Ferrari per Taranto. E qui signori miei mi si alza il sopracciglio: ma davvero non ci sono attori bolognesi o tarantini in grado di rendere un po’ più credibile l’ambientazione? Una città non è fatta solo di palazzi e scenari. È fatta di persone e linguaggi. Nella prima fiction se non altro Stefano Fresi ci prova a parlare con un accento emiliano, nel secondo caso l’unica pugliese è la vittima che appare sì e no in tre scene. Passi che un poliziotto possa essere siciliano come nel caso di Alessio Vassallo, passi anche che il magistrato protagonista interpretato da Maya Sansa abbia vissuto a lungo a Roma (c’è un vago tentativo di giustificazione in merito nella sceneggiatura), ma perché suo figlio nato e cresciuto a Taranto è un romano de’ Roma, come per altro suo marito? E quanti veronesi – come un altro personaggio chiave – sono immigrati a Taranto, mannaggia alla miseria? Insomma, da questo punto di vista ci sono grosse carenze soprattutto nello sceneggiato tarantino: il casting segue scelte che ovviamente non sono quelle della verosimiglianza, ma delle capacità degli agenti di piazzare i loro clienti, ‘anvedi aho’!

Un mio rimpianto professore del liceo, Silvio Immune, trent’anni fa ci diceva che a causa della televisione avremmo tutti detto “So’ tarantino de Taranto”. Quanto aveva ragione.

L’altro aspetto comune è che ci sono diversi esterni, e questo va bene, ma sempre negli stessi duecento metri di città. Bologna è una città che offre una infinità di angoli cinematograficamente interessanti, nello sceneggiato tutto avviene sotto un portico del quartiere Barca, davanti a una villa sui colli e in via Zamboni. Per non parlare del mio amato Appennino: Monte Acuto Ragazza, borgo del Comune di Grizzana Morandi in cui sono ambientate alcune scene, meriterebbe una fotografia ricca e attenta. Invece vediamo a mala pena un albero, che avrebbe potuto tranquillamente essere un albero di qualunque colle di qualunque zona del mondo. Un albero.

Così come a Taranto tutto avviene sul lungomare, davanti alla Prefettura e in uno scorcio della città vecchia. Nessuno ha mai fatto jogging su quel lungomare, nessuno. Il marciapiedi è stretto, la strada molto trafficata, se scivoli e ti mettono sotto recuperano il tuo cadavere a San Vito.  Direte: va bene, ma di questo te ne accorgi tu perché conosci della città. Anche Montalbano usciva di casa a Puntasecca, girava l’angolo per andare a prendere l’auto parcheggiata a Donna Lucata a 18 km e e si ritrovava alla fermata della corriera a Ragusa, che è a 30 km. Ma quella era una città, Marinella, immaginaria. Taranto c’è. Dirò di più: non tutti a Taranto hanno la casa e l’ufficio con vista sul mare. Pensa un po’ tu.

La risposta in questi casi credo sia semplice: bisogna ottimizzare i costi e ridurre il numero di set è un buon modo per farlo. Capisco. Ma un po’ di fantasia a sopperire i mezzi limitati non guasterebbe, dai. Muovetela quella macchina da presa, ogni tanto, osate con le luci, ho visto fotografare per le carte di identità con maggiore brio.

E veniamo al più grave dei difetti che caratterizza entrambi questi prodotti: l’enorme, insostenibile, massiccia noia che li caratterizza. La storia in entrambi i casi c’è: Fabio Bonifacci è un signor scrittore e uno dei migliori sceneggiatori che abbiamo in Italia, ma sembra che la regia si sia divertita ad allungare, slabbrare, diluire la vicenda bolognese che avrebbe potuto essere trascritta in un film di due ore e invece ne dura sei. Stessa sorte per il povero lavoro di Ivan Cotroneo che ha una idea che potrebbe appassionare, quella di raccontare le vicende di 6 donne che si intrecciano, ma è più annacquato di una Coca-Cola alla spina del McDonald’s. Primi piani, primi piani, primi piani. Sospiri. Primi piani. Maya Sansa che riesce a mantenere la stessa espressione per sei ore di girato, anche se qualche volte stringe gli occhi per far vedere quanto è cattiva o batte le palpebre lentamente quando il regista grida “più pensosa”. Il giovane protagonista della serie bolognese, poi, ha due espressioni come Clint Eastwood di Sergio Leone, con il cappello e senza. Solo che non ha nemmeno il cappello.

Abbiate pietà dello spettatore. Fateli muovere ogni tanto, questi attori. Sono film, anche se scritti per la televisione, non fotoromanzi con l’aggiunta dell’audio. Non voglio una sparatoria alla Quentin Tarantino, non voglio effetti speciali che non possiamo permetterci. Vorrei solo un po’ di mestiere, mica grandi spese, solo del ritmo per dare un po’ di pepe alla storia (quanto ci manca un Umberto Lenzi, oggi).

Bologna e Taranto meritano di meglio. Non siamo periferia dell’impero, non più.

Noiosa da morire. Recensione della fiction di Rai Uno con Cristiana Capotondi

Amo particolarmente le serie televisive, soprattutto quelle brevi: capolavori di scrittura come Modern Love, dall’impatto visivo notevole come The Loop, spassose e irriverenti come Good Omens, persino dai risvolti insospettabilmente profondi come The Good Place (viste tutte su Prime Video). Per non parlare dei classici come la Signora in Giallo o delle indimenticabili situation comedy come Friends, How I met your mother, The Big Bang Theory. Se il format era già vincente di per sé, perché per esempio con una miniserie si può raccontare un romanzo in maniera più rispettosa che in un film, perché la durata è più flessibile,  oggi con le tv via streaming il successo è diventato dirompente. Penso, per citarne solo alcune, a Stranger Things, Arsenio Lupin, La Regina di Scacchi e Black Mirror di Netflix. Senza contare che la Marvel edizione Disney userà sempre di più questo strumento, come ha già fatto con Wanda Vision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier.

Questa lunga e fondamentalmente inutile premessa (ma il blog è lo spazio delle inutili divagazioni che non mi posso permettere né da addetto stampa né da romanziere) serve solo ad attestare che le serie mi piacciono, ma soprattutto mi piace parlare di quelle riuscite male. Perché tanto le stroncature sono un genere che i giornali non possono permettersi più (chi lo sente poi l’editore), al massimo se qualcosa non ti piace non ne scrivi.  E invece io ne voglio scrivere eccome.

La stroncatura di oggi è dedicata alla fiction (chissà perché usiamo questo termine inglese che gli inglesi non usano) “Bella da morire” di Rai Uno. Perché ho cominciato a guardarla? Perché noi italiani con le serie balbettiamo un po’, per carenze di risorse e di scrittura, scivoliamo troppo spesso nella sciatteria. Non siamo capaci per esempio di scrivere serie comiche (e dire che nel cinema invece è un genere in cui eccelliamo),  i tentativi di situation comedy sono tutti facilmente dimenticabili. Lasciamo perdere poi il fantasy o la fantascienza, lo storico è spesso limitato ad agiografie di santi religiosi e laici. Nel poliziesco, però, abbiamo una certa competenza. Anche perché gli sceneggiatori possono saccheggiare da una letteratura piuttosto ricca e variegata: facile citare Andrea Camilleri con il suo immortale Montalbano, ma anche l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli è da anni un cult. Tra gli ultimi arrivi l’Imma Tataranni di Mariolina Venezia e l’Alligatore di Massimo Carlotto. Poi capita però che qualcuno scriva storie originali per la tivù. Insomma, dopo aver visto un bel film del regista, Andrea Molaioli, che si era fatto apprezzare per le atmosfere da thriller nordico de “La ragazza del lago“, ho voluto provare.

Ed è arrivato il patatrac.

Bella da morire” è una serie in otto puntate basata su un soggetto che avrebbe potuto reggere al massimo un lungometraggio di un’ora e mezza, due al massimo. C’è un omicidio, le indagini, un paio di false piste, il colpo di scena. Però mamma Rai ci tiene a fare un prodotto “educational” contro la violenza sulle donne, e allora dacci dentro con monologhi moraleggianti, dati e statistiche sul femminicidio snocciolati in dialoghi surreali. E poi tante sottotrame sentimentali, troppe.
Un lago c’è anche qui, e anche una ragazza: peccato però che Cristiana Capotondi, la protagonista, ricordi il primo Clint Eastwood dei western di Sergio Leone, quello che per intenderci aveva solo due espressioni: con il cappello e senza. Solo che nel caso in questione non c’è neanche il cappello, e la protagonista si limita a sbarrare gli occhi tutto il tempo, probabilmente esterrefatta dalle battute che è costretta a recitare. Intorno a lei altri attori che abbiamo amato in altre serie: la Buffa e Gambero di Coliandro (Benedetta Cimatti e Paolo Sassanelli) l’Alligatore (Matteo Martari), persino una bellissima Lucrezia Lante Della Rovere che ha fatto tanto teatro e ci tiene che gli spettatori se ne accorgano.

Siccome i primi piani agli occhioni della poliziotta non bastano a riempire otto episodi, gli sceneggiatori si inventano improbabili sottotrame sentimentali per allungare il brodo. Intanto c’è la banalissima storia della protagonista con l’ispettore bello e tenebroso (con un passato opaco). Non solo: quasi tutti gli altri interpreti meritano una sottotrama: la sorella della protagonista ha la sua  complicata storia di ragazza madre, il padre ha problemi con il vicino, il procuratore capo (pure lei!) non sa scegliere tra amante e marito, il medico legale soffre per un amore impossibile. Per non parlare della famiglia della vittima. Il povero regista cerca di arrabattarsi con lunghe inquadrature del suo amato lago, aiutato da una buona fotografia, la disperazione lo porta persino a infilarci un paio di scene di sesso passionali quanto una puntata delle previsioni del tempo, ma alla fine sembra stufo anche lui.

C’è addirittura chi minaccia una seconda serie. Con la prima ho raggiunto il bonus noia per i prossimi dieci anni, non ci ricascherò. Cari sceneggiatori italiani, ce l’avete Netflix e Prime Video? Ecco, dateci un’occhiata. Imparare da chi è più bravo è segno di intelligenza.

Una puntata di Report su Report

Ho un sogno televisivo che mi piacerebbe tanto si avverasse. Non è una partita del Taranto in serie A (mi sono arreso), né un film con Sabrina Ferilli diretta da Tinto Brass (sebbene…).
No, il mio sogno è una puntata di Report che ospita un servizio dedicato a Report. Un Report al quadrato.
Già immagino l’avvio: una voce fuori campo, con una musichetta allegra e delle inquarature di Viale Mazzini fatte con il drone, danno la stura al tipico “Vi siete mai chiesti quanto costa una puntata di Report?” A questo punto grafiche 3d un po’ a casaccio che fanno tanto festa, inquadrature di giornalisti di inchiesta che percorrono corridoi, e poi la bomba: 180 mila euro. Che però detto così non sembra neanche tanto. 180 mila euro dei nostri soldi già va meglio, magari con un accenno al fatto che con quei soldi si potrebbero sfamare 180 mila bambini nello Zimbabwe, che fa tanto sinistra.

Per colpire al cuore lo spettatore poi ci starebbe bene un agguato in un ristorante in cui i redattori stanno facendo pausa pranzo, chiedendo loro quanto stanno spendendo alle spalle dei contribuenti italiani. Rapida occhiata al menù, e accenno a quanto debito pubblico si sarebbe potuto risparmiare se solo il giornalista avesse preso un’insalatona al posto dei maccheroni con le zucchine.

Ovviamente la scena al ristorante, montata all’inizio, è l’ultima da girare, per non insospettire la redazione. A questo punto nel montaggio via con la carrellata di dati. Tasso di disoccupazione in Italia, costo delle bollette elettriche di Report, investimenti nel nucleare, tutto con grafica stilish a gogo. Confronto dello stipendio di un caporedattore (magari laureato, magari con esperienza all’estero, si vabbe’) con quello dell’usciere che non riesce ad arrivare a fine mese ed è costretto a stare seduto a fare niente tutto il giorno, con le gravi conseguenze per il suo stato di salute.

Però siamo di sinistra, dobbiamo aprire al dibattito. Contattiamo un redattore dicendo che vogliamo intervistarlo per un documentario su come si diventa giornalista. Lui ci accoglie contento, e a quel punto noi gli piazziamo la camera sulla scrivania, con inquadratura dal basso della pappagorgia che fa tanto corrotto, e vai di indignazione con il nostro tema preferito: lo sperpero di denaro pubblico. Sarà forse vero, gli chiede la giornalista in un montaggio serrato in cui lei è inquadrata a favore di luce e lui con un primissimo piano che lo fa sembrare un Mangiafuoco appena uscito dalla sauna, che ha speso soldi pubblici per iscrivere suo figlio ad un corso di pianoforte? La notizia bomba ovviamente è stata recuperata dopo una breve ricerca sulla pagina Facebook del giornalista. Uno dei pochi dipendenti, va detto, perché la maggior parte sono collaboratori.
Il redattore risponde che lo ha iscritto, sì, ma pagando con i suoi soldi. Ma questa risposta non la vedremo mai, tagliata dal montaggio, eh signora mia la televisione ha i suoi tempi. Tanto il suo stipendio lo paghiamo noi contribuenti, sono soldi nostri, alla fine. La faccia basita del redattore che non capisce se lo stanno prendendo in giro continua a venire inquadrata mentre gli viene mostrato un finanziamento che lo stesso avrebbe fatto con i soldi pubblici (si vabbe’ è il suo stipendio, ma è un dipendente Rai, quindi sono soldi nostri, uffa) per una associazione che si occupa di cani randagi. Guarda caso, spiega la voce fuoricampo, il redattore è proprietario di un mastino napoletano. Una coincidenza? Non credo proprio. Indignazione.

Dopo l’imboscata statica, ci vuole quella in movimento alla Striscia la Notizia. Si insegue un uomo per strada gridando “scusi, è vero che sua moglie fa la bidella alle scuole Giovanni Paolo?” L’uomo in questione è un elettricista Rai che si occupa dell’illuminazione dello studio che è riuscito a far sistemare la moglie in un comodo impiego statale. Poi si potrebbe scoprire che la donna lavora lì da vent’anni prima, ma intanto c’è la corsa sui marciapiedi, l’uomo che non risponde, che si gira dall’altra parte, il pathos.
Siccome il giornalismo di sinistra poi però coinvolge anche l’interlocutore preparato, che non siamo mica le Iene, ecco allora che sei ore prima della messa in onda del programma si manda una e-mail a info@report.it. A seguire, drammatica inquadratura della sedia vuota dove avrebbe dovuto essere il caporedattore, che non ha voluto rispondere. Si scoprirà il giorno dopo che l’indirizzo e-mail non esiste, ma intanto grazie al cielo c’è Report che ci apre gli occhi.
La puntata potrebbe avere altri picchi. Per esempio con un’intervista al medico che ha rilasciato un certificato medico alla segretaria di direzione, (e qui confronto tra il tasso di malattia tra i dipendenti Rai e gli autotrasportatori della Florida, che lascia di stucco, vergogna!!!!), medico che guarda caso – troppe coincidenze – abita nello stesso quartiere. E concludersi con una scena, anticipata da bambini che corrono su prati verdi e anziani che si abbracciano in riva al mare, di una televisione locale danese, dove con 180 mila euro fanno dieci mesi di programmi, loro. Alla faccia nostra. Ovviamente non sapremo mai di quali trasmissioni si tratta.

PS Ho davvero amato Report, in passato, così come amo il giornalismo d’inchiesta. Così come spero di tornare ad amarlo, quando torneranno a fare giornalismo d’inchiesta.

What the crisis is

If I should answer the question “Which are the causes of this economical crisis?”, I’d make it really simple, with an example. In these days 4 young women died in southern Italy while working in a factory hidden in a basement. Their jobs were under the table, no rights, no holidays, just 5 euros per hour. 5 EURO PER HOUR.
In the same time another woman, definitely luckier, Lorenza Lei, general manager of RAI, asked for a pay raise. She wanted 730.000 euros per year instead of the 420.000 she earned before, but she obtained only 650.000.
That would be more or less 350 EURO PER HOUR, assuming she works five days a week with some weeks of holidays.
No doubt the mrs Lei has a job of great responsibility, she is absolutely skilled, maybe she has great friends too, bla bla bla. But all the way her pay as a public employee is seventy time bigger than the wage of those poor mums.
That’s the crisis, in my humble opinion and it is moral before than economical.

 

Paleospot

Ero convinto che ormai fosse stata definitivamente archiviata, che l’ultima versione a 35 mm appartenesse a qualche collezionista facoltoso. Credevo che ormai l’invincibile “quante cose al mondo vuoi fare” della Tassoni fosse l’ultimo paleospot ancora esistente: e invece no. Ieri, intorno a mezzanotte su una rete Rai l’ho visto, lui, con il suo sguardo imbecille e il vigile nervoso che fischiava e si sentiva dire: devo dipingere una parte grande, mi serve un pennello grande. Incredibile. Non so quanto costi un passaggio televisivo in Rai ad agosto oltre le 23, ma voglio ringraziare i programmatori che mi hanno consentito questo viaggio nel tempo e mi hanno fatto addormentare sognando grandi pennelli.