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Università di Bologna dalla A alla Z. Ieri, oggi e domani

Alcuni giorni fa sono stato invitato dal professor Mario Rivelli, meglio noto come Otto Gabos,  il nome con cui firma romanzi e fumetti, a un appuntamento piuttosto originale. Di fronte alla sede dell’Accademia, in quella che adesso si chiama piazzetta Roberto Raviola, è stato creata da un artista una installazione, o scultura, che richiama un podio, o un terrazzino, insomma un luogo da cui parlare, nella tradizione anglosassone degli speaker corner.

E in tanti, accomunati dai nostri trascorsi di studenti universitari a Bologna, abbiamo inaugurato quest’angolo del parlatore raccontando la nostra esperienza, con un occhio rivolto al passato e un altro invece che si sforza di focalizzare le prospettive future con proposte e idee per piazza Verdi, il quartiere universitario, l’Università in generale.

Ho dato il mio piccolo contributo senza prepararmi un discorso scritto, ma giusto una traccia. Ecco quello che credo di aver detto, ma non ne sarei troppo sicuro. 


Quando mi hanno invitato a parlare di passato e presente della cittadella universitaria di Bologna ho subito pensato che avrei potuto parlare per dieci ore almeno. Poi però nella lettera di invito ho guardato meglio le regole di ingaggio e mi sono accorto che erano proibite volgarità o apologia di reato, quindi alla fine dieci minuti mi basteranno. Per mettere in ordine un enorme flusso di pensieri che mi attraversa quando penso a Bologna e alla sua università, ho pensato all’ordine italiano per eccellenza. Quello che ci solleva dalla responsabilità di scegliere: l’ordine alfabetico. Ecco dunque i miei pensieri dalla a alla zeta.

A.A.A.
Cominciavano così gli annunci sui giornali, proprio per risultare i primi nell’ordine alfabetico. Io uso la tripla AAA non come eccellente votazione delle agenzie di rating, ma come sigla di Affissioni Abusive di Annunci. La prima volta che arrivavi a Bologna (per me fu il 1994), se chiedevi informazioni su appartamenti in alloggio, la risposta era sempre la stessa: annunci in piazza Verdi. Che all’epoca era completamente ricoperta di carta, e chi oggi parla di degrado finge di non ricordarsi i quintali di carta su bacheche, colonne, dentro le cabine del telefono o sui portoni dei palazzi. Carta sostituita continuamente, perché la caccia all’appartamento era quotidiana, in un’epoca in cui “digitale” era solo l’orologio che ti svegliava con la radio. C’era chi per attrarre l’attenzione pubblicava la foto di una bella attrice, seguita da “difficilmente vedrai lei, anche perché il posto è in una doppia con un fuorisede che a casa non torna MAI, ma il prezzo è buono”, c’era chi anziché prendere una strisciolina di carta con il numero di telefono, strappava via tutto il foglio per ostacolare la concorrenza.

A proposito di quelle striscioline, mi viene in mente un’espressione ormai sconosciuta: ore pasti
Negli anni Novanta si telefonava nelle ore pasti, cioè indicativamente tra le 13 e le 14 e tra le 20 e le 21, semplicemente perché i telefoni erano solo fissi. Non eravamo reperibili in qualunque momento in qualunque luogo. Non sono un nostalgico, però quel messaggio “ore pasti” devo dire la verità, un po’ mi manca.

Burella

Latte con i biscotti al mattino, burella a pranzo, spaghetti con il tonno a cena. La dieta dello studente fuorisede era molto semplice e poco variegata. Certo, accedendo alle mense universitarie si poteva variare, ma per il resto la burella del 25 ha caratterizzato tanti pasti negli anni della mia giovinezza. Il 25, per chi non è di Bologna, è il 25 di via Zamboni, un immobile che si affaccia su piazza Verdi e che trent’anni fa ospitava un bar che offriva diverse bevande, dessert, ma fondamentalmente burelle. Oggi non si trovano più, le avrà bandite l’OMS. La burella era una specie di focaccia rotonda, piuttosto piatta, morbida e – nome omen – burrosa. Credo che il colesterolo che ho ancora in circola dipenda da quei pasti, ma insomma, la burella costava poco, mille, duemila lire forse, era alla portata delle tasche di tutti. Non so se lo stesso si possa dire dei locali sorti ovunque per vendere frullati bio, insalatone (che oggi si chiamano poke), trancetti di pizza mignon.

Crocevia

Piazza Verdi per me è sempre stata un crocevia. Non un banale incrocio, ma un’area di movimento, di spostamento, in cui confluiscono diverse strade che qui rallentano, prendono fiato e ripartono. Non è un’agorà come piazza Maggiore, non ha la teatralità di piazza Santo Stefano, con le sette chiese sullo sfondo e palazzi memorabili a farle da quinte. Per capirla, bisogna accetterà che la vitalità di questo luogo le impedisce di essere uguale a se stessa. Non è un luogo di panchine e monumenti, piazza Verdi, è un luogo di incontro, anche tra culture diverse. Gli amministratori non potranno mai domare questa sua essenza, semmai assecondarla.

Destino o destinazione?

Mi affascinano le parole che,  pur partendo da un’origine comune, assumono poi significati fondamentalmente differenti. È il caso di destino e destinazione, che provengono entrambe dalla parola greca ìstemi, sto. Per me e per tanti altri Bologna è stata un destino, cioè è entrata con forza nella mia esistenza appropriandosene, stravolgendola. Oggi vedo che per tanti ragazzi è più che altro una destinazione, cioè una meta da raggiungere che però può rivelarsi solo la tappa di un cammino che poi li porterà altrove. Ecco, sei io fossi un amministratore cercherei di domandarmi cosa fa questa città per entrare nel destino dei tanti fuorisede che la attraversano, accolti talvolta soprattutto con l’obiettivo di spogliarli della paghetta di mamma e papà e mandarli via quando non servono più.

Eco

Difficile parlare della mia esperienza universitaria senza citare il professor Umberto Eco, del quale ho seguito due corsi e qualche seminario. In questa circostanza non voglio però vantarmi di questi trascorsi, quanto raccontare un aneddoto. Era il 15 settembre 1994, ero a Bologna per sostenere l’esame per accedere a Scienze della Comunicazione, in viale Berti Pichat. C’erano più di quattromila pretendenti per 150 posti: allora Scienze della Comunicazione era un corso di laurea innovativo proposto in cinque o sei sedi in tutta Italia, che si fregiavano di eccellenze tra i docenti. Se oggi parliamo di scienze delle merendine è perché l’avidità commerciale delle università l’ha trasformata in un corso in cui si può imparare di tutto, e quindi fondamentalmente niente. Ad ogni modo. Io ero uno studente meridionale al NORD. Nella mia vaga idea di NORD tutto ciò che stava al di sopra di Roma, fosse Helsinki o San Giovanni in Persiceto, era ammantato di un’aura di perfezione, puntualità, efficienza teutonica. E Bologna era al NORD. Ebbene, quella mattina Eco si avvicinò a me e a un gruppo di altri ragazzi, chiedendo: sapete se è qui che si tiene il test per accedere a Comunicazione? Io risposi timidamente di sì.
Un momento storico.
L’unica volta nella mia esistenza in cui ho saputo qualcosa che Eco non sapeva.
Il professore si avviò verso l’entrata, io pensai che Bologna era NORD, ma non così NORD in fondo, e per la prima volta pensai che avrebbe anche potuto diventare casa mia.

Fumo, fumo, fumo, bici, autoradio

Chi oggi si lamenta del degrado a Bologna in piazza Verdi forse non ricorda o finge di non ricordare il mercato pubblico di bici rubate che l’ha caratterizzata negli anni Novanta. Non si vendeva un prodotto, attenzione, ma un servizio: i tossici del tempo avevano capito tutto di marketing. Tu chiedevi una bici, loro ti mostravano quello che avevi, se non eri soddisfatto si allontanavano con la loro sacca contenente pinze e tenaglie, e dieci minuti dopo tornavano con la “tua” nuova bici. Per non parlare del fumo. Al tempo avevo una condizione tricologica più rigogliosa: capelli lunghi fino alle spalle, spettinati, un po’ metallaro un po’ figlio dei fiori. Insomma, a me il fumo non lo offrivano, il fumo lo chiedevano. Ce l’hai il fumo? No che non ce l’ho, non spaccio. E dai, dammi un po’ di fumo, che fai, tiri sul prezzo? Mi serve un po’ di erba, non fare il bastardo.
Ogni tanto qualcuno diversificava e offriva anche autoradio. Con esiti mediocri a dire il vero, visto che non avevamo i soldi per una bici, figurarsi per una automobile.

Grazie

Si ringrazia alla fine, è vero, ma avendo optato per questa tecnica alfabetica, devo farlo adesso. Meglio, così non lo dimentico. Grazie a voi, grazie a questa splendida città che ci ha fatti crescere. Il sentimento della riconoscenza non dovrebbe mai essere sottovalutato.

Halloween

Qualche tempo fa un amico mi fece notare come negli anni Settanta, quelli più caldi da un punto di vista sociale e politico, uno degli slogan più in uso tra i giovani era “Arresta il sistema”. Oggi arrestare il sistema vuol dire molto più prosaicamente spegnere il computer. 
Cosa c’entra tutto quello con la festa del 31 ottobre? C’entra perché tempo fa ho visto un volantino di un centro sociale che promuoveva appunto una festa di Halloween. Trent’anni fa Halloween semplicemente non esisteva, quello era il periodo delle feste delle matricole. Se anche i giovani più “ribelli” oggi festeggiano una festa tipicamente americana, figlia di un sistema mercantile che gioca sulle paure, vuole dire che il sistema ha vinto. Altro che combattere il capitalismo e l’individualismo, oggi combattiamo contro Freddy e Jason.

Insieme

Il futuro della città universitaria – che ormai è una galassia di cittadelle universitarie, se si considerano i satelliti disseminati, da Ozzano a Viale del Risorgimento, da Lame al Tecnopolo CNR – non può essere deciso solo dai vertici universitari, né da quelli amministrativi. Non può rispondere alle esigenze dei commercianti che amano il movimento, né a quello dei residenti che vorrebbero dormire. A tal proposito, dopo le undici di sera a Bologna si dorme bene praticamente ovunque, dalla periferia ai colli, dai palazzoni popolari alle villette più esclusive. Chi frequenta un po’ la città nelle ore notturne lo conosce bene quel silenzio ovattato, interrotto giusto dalla marmitta di qualche motorino che consegna pizze fuori orari. Poi ci sono le piazze dove ci si incontra per far tardi. Ma è davvero necessario zittire anche loro? Davvero un’unica cappa di silenzio è l’unico orizzonte che pensiamo per questa città? Non sarebbe forse più semplice che i residenti che vogliono legittimamente dormire si trasferissero a vivere nel 95% delle case tranquille invece che zittire l’ultimo 5%? (ndr la parte in corsivo non l’ho pronunciata, sebbene l’avessi predisposta. La ragione è semplice: prima di me ha parlato una professoressa che vive in centro che ha chiesto di porre fine ai rumori notturni. Ho vigliaccamente deciso allora di soprassedere.

Largo Respighi, Mense e Mangiatoia

Qui facciamo il salto triplo proponendo addirittura tre parole, che però sono legate. Ai miei tempi gli studenti mangiavano in mensa o al 25. Certo che c’erano i bar, ma al limite ci andavi per bere. Non che non offrissero niente di buono, è che erano cari per le possibilità di uno studente fuori sede. In Largo Respighi c’erano agenzie di viaggio, negozi, cartolerie. Oggi ci sono solo ristoranti. Tutto il centro è ormai una enorme mangiatoia, si mangia dalla mattina a notte fonda, ho visto gente addentare la pasta asciutta alle cinque del pomeriggio. Non esprimo giudizi, è una delle immediate conseguenze dell’apertura al turismo. Però non dimentichiamo che i turisti fanno altro, oltre a mangiare dalla mattina alla sera.

Non si fanno fotocopie

Durante gli anni universitari ho passato più tempo in copisteria che all’interno di qualunque altro locale pubblico, anche perché soldi per ristoranti e bar erano pochi e l’abbigliamento lo compravamo “giù” dove il costo della vita era minore.  

Fronte retro, bianco e nero o (raramente) a colori, riduzione da A3 ad A4, due pagine per foglio. La competenza che si acquisisce in quegli anni è sorprendente e, ammettiamolo, ti accompagna negli anni dove prima o poi in ufficio una fotocopia devi farla.

In copisteria prevalentemente si fotocopiavano appunti e dispense ma anche, ammettiamolo, libri. Credo che il reato sia ormai prescritto. Anche perché a dire la verità la maggior parte dei libri fotocopiati erano ormai fuori catalogo, faticosamente presi in prestito dalla biblioteca.  Vedo che il numero delle copisterie è calato: ci sono ancora, ma non sono onnipresenti. Può darsi che oggi gli studenti si documentino maggiormente online. Può darsi che abbiano più soldi e comprino tutto in libreria. Non voglio nemmeno pensare che persino loro, oggi, leggano meno.

Occasioni

Direttamente legata alla precedente, c’era la disperata ricerca di occasioni, cioè libri in sconto, usati, di terza mano, apocrifi. Ricordo bene che gli studenti di medicina erano i più attivi in questo ambito, appropriarsi di uno dei tomi sui quali studiavano poteva generare faide sanguinarie. 
C’era in particolare un negozio nella zona universitaria gestito da due fratelli: erano identici, tranne che uno era alto e magro, l’altro basso e paffutello. Sembravano usciti da un esperimento di genetica: prendiamo due gemelli e modifichiamo giusto due geni. Vediamo che ne esce, vi va?
Ebbene, nel loro negozio tra settembre e novembre si vivevano scene da Wall Street, ma non quella attuale fatta di computer e connessioni, no quella dei film anni Ottanta in cui si urlava, gesticolava, si facevano segni.  L’arrivo di un nuovo testo usato generava scene parossistiche con una folla che spesso occupava i marciapiedi fuori dal negozio perché dentro non c’era spazio a sufficienza. 

Oggi la libreria non c’è più, c’è un bar taglieri e aperitivi di cui si sentiva la mancanza.

Piazza Scaravilli

Ai miei tempi si diceva che chi attraversava piazza Scaravilli, anziché percorrere il giro lungo sotto i portici, non si laureava. Oggi l’arredo urbano è meno spoglio, più accogliente, ho visto che addirittura ci sono delle panchine. Meglio così, io non ho mai creduto nella superstizione, infatti piazza Scaravilli l’ho attraversata tante volte. 
Dopo essermi laureato.

Q&R, Quesiti e Risposte

I computer sono noiosi, sanno dare solo risposte, diceva Picasso. Figuriamoci adesso che si spacciano anche per intelligenti. Le domande sul futuro dell’Università e della zona universitaria dobbiamo farcele noi, essere umani.  Mettendo da parte i “si è sempre fatto così” e anche le nostalgie di cinquantenni che ricordano quanto era bello il mondo trent’anni prima, solo perché trent’anni prima avevano vent’anni. L’ho già scritto, il quartiere universitario deve essere convivenza. Però bisogna dire basta alla dittatura generazionale di quella fascia d’età, compresa tra i quaranta e i sessant’anni, che di solito è all’apice della propria carriera e rifiuta di fare spazio a chi viene dopo. I ragazzi hanno bisogno di spazi. Di incontrarsi, parlare, vivere, anche se questo è rumoroso.  Così nessuno più vivrà in centro? Perché, quanta gente credete che viva a Down Town a New York o al Quartiere Gotico di Barcellona? E dai, muovetevi. Il silenzio notturno di Baricella o Vergato aspetta solo voi.

Santa Cecilia

Cos’ha il quartiere universitario di Bologna che non potranno mai avere i campus delle giovani metropoli del resto del mondo? Cultura. Proprio così. A pochi passi da piazza Verdi c’è l’Oratorio di Santa Cecilia, che qualcuno ha definito la Cappella di Sistina di Bologna. Forse un po’ troppo, mai generazioni di artisti, scrittori, ma anche biologi e ingegneri si sono ispirati e fatti trasportare dalla bellezza di quelle mura.
Trasferite pure le vostre aule universitarie in periferia in asettici scatoloni ignifughi e antisismici. Allontanate gli studenti dal centro, sono così fastidiosi. Quando poi scoprirete che hanno deciso di andare a vivere altrove, non lamentatevi,

Teatro Comunale 

Il Teatro Comunale non potrebbe vivere senza piazza Verdi e la piazza perderebbe la sua identità senza il Comunale. Certo però più che una convivenza, in tanti momenti sembra una coabitazione forzata. Possibile sia così difficile aprire le porte del Comunale agli studenti? E poi, davvero il Teatro di tanto in tanto non può fare uno sforzo e ospitare qualche sonorità differente? Perché la musica che piace ai giovani deve essere sempre relegata ai palazzetti dello sport?

Ultime Valutazioni

Non so se quello che ho scritto sarà di qualche interesse per qualcuno, o si ridurrà a uno sterile esercizio di stile. Il bello di Bologna in fondo è quella sua irriducibile tendenza anarchica che sfugge a qualunque pianificazione e impostazione dall’alto. Se militarizzate piazza Verdi i giovani si sposteranno in piazza Santo Stefano, e poi in piazza San Francesco. Ascoltiamoli, questi giovani, e non negli stucchevoli recinti delle assemblee studentesche. Ecco, se c’è una cosa che i miei coetanei dovrebbero riscoprire, è l’ascolto. Abbiamo passato pomeriggi ad ascoltare musica nei negozi Ricordi e Virgin, spazi perduti per sempre, non sappiamo ascoltare i nostri figli?

Zavorra

E a voi ragazzi, dico una sola cosa. Siete cresciuti in  un mondo che faticosamente si liberava dei pesi ideologici di schieramenti contrapposti che vedevano nell’altro un nemico. Il rischio però è che a quelle ideologie se ne sostituiscano altre, peggiori; quella del denaro facile, del successo come indicatore della felicità personale, della popolarità che sostituisce il popolo. Non fatevi appesantire da queste idee mercantilistiche. Ricordatevi che è solo liberandovi da questi pensieri confezionati, da questa Zavorra, che potrete prendere il volo.
Buon viaggio.

Arrivederci professore. Deve ancora farmi quella domanda…

Umberto Eco il giorno della mia laurea15 settembre 1994.
Dopo una notte passata in un albergo di via Galliera a Bologna, un giovane pugliese alle prime esperienze “da grande” si aggira sperduto nei pressi di un freddo piazzale in viale Berti Pichat. La città l’ha lasciato un po’ perplesso, non è proprio bella come se l’aspettava ma d’altronde ha visto stazione, via Galliera di sera e i viali, ed è un po’ prematuro da parte sua esprimere un giudizio. Una folla di altri giovani alle prime armi come lui chiacchiera nel piazzale. Sono centinaia. E non sono tutti: le domande per accedere al test di selezione di Scienze della Comunicazione sono state più di 4000, i posti sono 150. I test sono stati organizzati in diverse strutture. Il giovane pugliese è affascinato dalla potenza organizzativa dell’Università più vecchia del mondo, se pensa che lui al liceo faceva ginnastica all’aperto solo nei giorni di bel tempo, quasi ha un mancamento di fronte alla grandezza che gli si propone innanzi. Una voce lo scuote da suoi sogni, è una persona che riconosce: è Umberto Eco, il professor Umberto Eco, che si avvicina e chiede: ragazzi, ma è qui che si tiene il test per scienze della Comunicazione?
Il giovane pugliese pensa allora che tutto sommato anche la potenza nordica di Bologna mostra qualche limite. Ma tanto lui sa che quel test non lo passerà mai, non ha nemmeno preso 60 alla maturità, è qui solo per farsi un’idea, punta semmai di essere ammesso a Siena.
Estate 1996
Il professor Eco è seduto in fondo alla stanza, gioviale e chiacchierone come sempre. Spiega che ha letto la tesina che il pugliese e un amico romagnolo hanno predisposto, è un ottimo lavoro, diligente e accurato. I due hanno analizzato un ipertesto sul processo di Norimberga, prodotto su floppy-disk (floppy-disk!)  e i loro commenti sono tutti a segno. L’esame di semiotica del testo sembra indirizzato ad un successo. La sua assistente Giovanna Cosenza interviene: si, il lavoro è accurato, però, però. Però non esageriamo. Non è che i due abbiamo scoperto la ruota. Non bisogna essere di manica troppo larga. C’è un attimo di dibattito, il pugliese è concentrato per trattenere lo sfintere e le altre funzioni vitali che in quel momento lo avvicinano all’uomo primordiale, che evacuerebbe e scapperebbe via. Sembra ci si indirizzi verso il trenta. Il professore alza gli occhi verso i due, e lancia la sfida. Facciamo così: vi faccio una domanda. Se rispondete bene, 30 e lode. Se sbagliate 28. Altrimenti ve ne andate con un 30. Lascia o raddoppia, insomma. Solo che il Mike Bongiorno in questione non è uno qualunque. Farsi interrogare da lui in semiotica è come rispondere ad una domanda di Dante sulla poesia medievale, o di Einstein in fisica teorica. I due giovani si guardano per un millesimo di secondo, allungano il libretto quasi in contemporanea. Il trenta andrà benone.
Caro professore, non saprò mai cosa ci avrebbe domandato, e se saremmo stati in grado di risponderle. Porterò sempre con me un suo insegnamento: essere colti non vuole dire conoscere la risposta ad ogni domanda. Essere colti vuol dire sapere in dieci minuti dove trovare la risposta a quella domanda. Tanto è vero che ai suoi esami scritti si potevano consultare i libri. Con Wikipedia e gli smartphone, che allora non c’erano, forse potremmo ridurre quei minuti a cinque.
Io però quel giorno non credo che sarei stato in grado di risponderle nemmeno dopo dieci ore. O forse si. Magari questo me lo dirà la prossima volta che ci vedremo.

Potrei ancora raccontare della mia seduta di tesi, quando, appena entrammo, il professore si accorse della presenza di mia cognata, che allora era una bimba di otto anni, e mi domandò a brucia pelo: abbiamo appena discusso una tesi su Satanik. La prego, mi dica che la sua non ha temi affini, perché vedo che ci sono minori tra gli astanti. Oppure di tutte le volte che la lezione finiva all’una ma lui rimaneva sull’uscio fino all’una e quaranta per rispondere a tutte le domande che noi giovanotti curiosi gli ponevamo.

Ma il messaggio finale in realtà voglio lasciarlo a tutti coloro che svolgono il prezioso e delicato incarico dell’insegnamento: che voi siate insegnanti in una scuola primaria o docenti universitari, che il vostro sia uno stipendio da titolare di cattedra o facciate fatica ad arrivare a fine mese, non liquidate in fretta le domande dei vostri allievi. Non trascurateli perché vi sentite superiori. Non irritatevi nei momenti di stanchezza. Voi potete davvero incidere nell’esistenza dei vostri allievi. Proprio come il professore fece con la mia.

Questo non dimenticatelo mai.

18 anni e non sentirli

Era il 15 settembre 1994, in una bella mattinata bolognese aspettavo insieme ad altri 4000 freschi maturati di affrontare la prova del test di selezione al corso di Scienze della Comunicazione, che avrebbe accolto 140 di noi.

Certo non ero l’emigrante con la scatola di cartone, ma il modo in cui guardavo stupito il mondo intorno a me doveva comunque tradire un certo atteggiamento del provinciale che si guarda intorno e pensa uao, sono a Bologna, mica Cisternino.

Qualcosa nella mia fiducia della perfetta teutonica macchina organizzativa settentrionale scricchiolò quando vidi farsi largo tra la folla di studenti il professor Umberto Eco che si avvicinò e domandò: avete mica idea di dove si tenga il test di ammissione?

La verità era che eravamo talmente tanti che i test si tenevano in diversi punti della città (io per la cronaca lo feci in viale Berti Pichat nelle aule di fisica: niente di strano, se si pensa che poi le lezioni le avrei seguite nelle aule di una clinica odontoiatrica, altro che organizzazione teutonica). Le lezioni sarebbero cominciate il mese dopo, alcune sarebbero state indimenticabili, altre meno, e circa sei anni dopo mi avrebbero portato alla laurea (prima sessione fuoricorso, però ci ho fatto dentro il servizio civile, eh?).

Ieri sera ho festeggiato i 18 anni da quell’ottobre 1994 insieme ad alcuni protagonisti di quella stagione, che se non è stata la più bella, per me, sicuramente si candida ai primi posti. Persone che hanno preso un treno, un’areo in alcuni casi, fatto chilometri di autostrada per celebrare quei giorni. E ho potuto rendermi conto di come devo essere cambiato io, osservando come sono cambiati loro.

Neanche troppo, a dire il vero; quella più carina di tutte continua a essere la più carina, quelli simpatici continuano a fare battute esilaranti, quella più intelligente lo è ancora di più, chi aveva grandi sogni continua giustamente a crederci, chi aveva la puzza sotto il naso allora ad avercela (per forza, chi ha la puzza sotto il naso dice cose maleodoranti) e ha rifiutato l’invito…

Sicuramente con il tempo abbiamo imparato molte cose sui pannolini e sulla gestione dell’insonnia e dimenticato la semiotica, ma insomma, siamo sempre quelli del laboratorio in Via Toffano a scoprire questa novità chiamata Internet con il Netescape 2.0…

Non so se ci rivedremo tra 18 anni, so però che domattina, quando rientrerò nel mio ufficietto in cima alla montagna, sognando di fare il direttore del Corriere della Sera quando devo cercare i soldi per stampare un semestrale da 3000 copie, mi guarderò riflesso nel monitor e penserò che cavolo, se sono cresciuto con gente tanto in gamba, non devo essere tanto malaccio neanch’io.

PS Ad aumentare l’aura di mistero degna di ogni scrittore scalcinato, non sono presente in NESSUNA foto, però c’ero, lo giuro.

PPS Cisternino, col senno di poi, non è davvero niente male.