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Papà in carrozzina

Il momento della vita di un individuo maschio in cui costui si sente davvero importante, realizzato, completo, essenziale, riguardevole e considerato si identifica senza ombra di dubbio nel momento in cui trasporta la carrozzina con la prole.

Non il passeggino, che son buone anche le mamme (anzi, realisticamente ammettiamo che sono molto più brave), non quando tiene il piccoletto in braccio come una nonna qualsiasi. No, è con la carrozzina che la fulgida potenza del maschio latino si esprime in tutto il suo splendore. Avete mai visto un papà con la carrozzina? Si guarda intorno osservando l’eventuale presenza di cecchini sui tetti delle abitazioni. Tiene ben salda la carrozzina con tutte e due le mani, l’avambraccio contratto in uno sforzo poderoso, sbuffa irritato di fronte ai tentativi della consorte di interferire nel suo momento di gloria. Comprime i bicipiti senza una particolare ragione e verifica con la coda dell’occhio che il freno sia correttamente inserito. Non parliamo poi delle scene trionfali nel momento in cui sale in autobus, con la carrozzina, o sul treno. Dopo l’impresa si guarda intorno con il petto gonfio e si domanda quand’è che scatterà l’applauso.
In misura minore, ma comunque in ogni caso fuori da ogni ragionevole senso della misura, si mostra orgoglioso l’uomo che partecipa al trionfo senza avere legami biologici con il neonato: lo zio, il nonno, un passante, un pendolare. Per tutti quel momento è il ristabilimento di una presunta e discutibile superiorità fisica sul gentil sesso che ormai non resta che essere un lontano ricordo di tempi paleolitici.

Se un giorno, per motivi che proprio non riesco a immaginare, qualcuno dovesse decidere di commemorarmi con una statua, è così che voglio essere ricordato: con il mento in alto e gli occhi fieri a sfidare le incognite del futuro con la carrozzina contenente mia figlia (una delle due, è uguale).

L’Italia dei superuomini

virilitàIl dibattito sulle unioni civili di questi giorni mi ha fatto tornare a riflettere sul fatto che in fin dei conti ho l’impressione che il vero problema della nostra cultura non sia tanto quello della paura della diversità, o di un’ermenutica rigida dei testi religiosi che si attiva solo quando fa comodo. Il disvalore più profondo che soggiace ad una certa visione del mondo (e non chiamatela cattolica, vi prego, perché di universale non ha proprio niente) è quella del maschilismo fallocratico più becero, per cui il vero uomo è quello che va le con le donne, e magari più di una. Fateci caso, quando i “difensori” della famiglia tradizionale attaccano le coppie gay, quasi sempre si rivolgono a coppie di uomini. Addirittura si arriva alla confusione tra la natura della parola “omosessuale” (omo=uguale, dello stesso tipo, simile) con quella di uomo (e se Benigni fa il verso ai mafiosi parlando di uomini sessuali ne “Johnny Stecchino” ci fa ridere, se lo dice un senatore della Repubblica vengono i brividi).
Quanti insulti vi vengono in mente rivolti agli uomini gay, e quanti alle donne gay? Non c’è bisogno di elencarli, ma a me risulta che i primi siano molto più numerosi. Ma se allora per certi senatori e per certi italiani che li votano gli uomini devono essere dei “macho”, allora non mi sento di contraddirli, ma di suggerire tanti altri settori, che non riguardano le scelte sessuali, in cui gli uomini potrebbe mostrare la loro virilità. Per esempio, visto che oltre alla fedeltà il matrimonio parla anche di coabitazione, certi veri uomini potrebbero evitare di dichiarare di vivere in città con i figli, mentre la moglie vive da sola nella casa al mare o in montagna, per non pagare le tasse sulla seconda casa. Il loro matrimonio prevede la coabitazione, ricordate? E poi il vero uomo non mente, vero?

Inoltre, certi veri uomini, potrebbero accettare che le loro compagne ad un certo punto decidano di intraprendere strade diverse. Non dico che non sia doloroso, sicuramente, ma un vero uomo di certo non si mette a picchiare una donna perché lei vuole lasciarlo. Figurarsi usare forma di violenza peggiore. Stiamo parlando di uomini con gli attributi, no? Saranno ben capaci di guardare oltre.
Aggiungo poi che il vero uomo è coerente con i suoi valori, e così come probabilmente non cambia squadra di calcio, così non cambia appartenenza politica per seguire convenienze e opportunità del momento. Stiamo parlando di uomini tutti di un pezzo, insomma! Mica di femminucce che si vendono per una poltrona da sottosegretario. Dico bene?
E ancora, i veri uomini potrebbero mostrare la loro virilità imparando a stirare (qui c’è un conflitto di interesse, lo so: se la virilità si misurasse in tecnica di stiro, John Holmes mi farebbe un baffo) per evidenziare la propria superiore forza biologica, e magari dare una ripassata al bagno e cucinare due spaghetti ogni tanto, se credono. Giusto per ricordare al mondo di che pasta sono fatti e di cosa è capace un vero uomo. E senza dover chiedere il permesso, perché si sa, l’uomo non deve chiedere mai.
Il mio è solo una modesto consiglio. Se davvero l’Italia è piena di superuomini, è arrivato il momento che mostrino il loro valore. Fuori dalla camera da letto, che quello che succede dentro, con tutto il rispetto, ci interessa poco.

Donne, uomini e tecnologia

vhsGli uomini inseriscono i coltelli nella lavastoviglie con la lama verso l’alto, perché è risaputo che così si lavano meglio. Le donne inseriscono i coltelli nella lavastoviglie con la lama verso il basso, perché è risaputo che così si evita di scarnificarsi le braccia. Gli uomini rimuovono la polvere dai loro prodotti tecnologici, le donne usano prodotti tecnologici per rimuovere la polvere.
Gli uomini usano più shampoo e prodotti di bellezza per la propria automobile di quanto non ne usino per se stessi; per le donne a parte la benzina e l’acqua per i tergicristalli, di cos’altro dovrebbe avere bisogno quell’arnese per andare?
Gli uomini riempiono la lavatrice prima di farla andare perché così consuma meno acqua. Le donne la fanno andare appena vedono sentore di calzini post-calcetto, perché ritengono che la loro serenità venga prima del consumo d’acqua.
Per un uomo occorre assecondare le macchine, per le donne sono le macchine che devono assecondare noi. E non è un caso che i personal computer abbiano cominciato ad essere davvero user-friendly quando anche le università scientifiche americane, tra gli anni settanta e ottanta, hanno cominciato a essere popolate da ricercatrici che proprio non accettavano quel modo freddo e impersonale di dare ordini ai calcolatori (command-line, si chiamava, vi ricordate?Copia! Cancella! Scrivi!). Vuoi mettere le infinite possibilità di arredare un desktop?
Io dico che dobbiamo ringraziare le donne se la tecnologia va avanti e semplifica la vita. Perché chi si oppone a loro è destinato alla scomparsa: ricordate quanto complicato fosse programmare un videoregistratore, e quanto lo odiassero molte signore? Ebbene, guardatevi intorno, e ditemi quanti videoregistratori vedete in giro. Ricordate quanto vostra madre odiasse quei televisoroni 25 pollici profondi mezzo metro che gli rovinavano la sala? Gli schermi sottili li hanno imposti le matrone giapponesi, altro che.
Sapete, per la tradizione cristiana Maria è ascesa al cielo dopo la morte, ed è stata la prima, perché gli altri dovranno aspettare il giudizio universale. Ed è un bene, perché almeno potrà organizzare per bene la permanenza di chi ci arriverà. Avesse dovuto fare Gesù tutto da solo, il paradiso sarebbe un posto pieno di schermi catodici a fosfori verdi e vhs.

La signora Ikea contro Mister Mondoconvenienza

ikeaStiano tranquilli gli avvocati dei due gruppi commerciali citati nel titolo di questo post, i loro seguigi a caccia di articoli che minino la reputescion o anche semplicemente gli appassionati di arredamento: non ho intenzione di parlare della qualità dei prodotti di questi due fornitori. Peraltro sono un cliente piuttosto soddisfatto di entrambi, per quanto non faccia testo perché posso spaccare il capello ed essere un cliente molto esigente quando si tratta di tecnologia, ma quando si tratta di un tavolo o di un armadio per me l’importante è che stia su.

Sono le filosofie di acquisto che ruotano intorno a questi marchi che mi interessano, l’acquirente ludico e l’acquirente funzionale di flochiana memoria.

Al cliente ludico piace fare acquisti. Gli piace mettersi in macchina il sabato mattina, ritrovarsi nel traffico della tangenziale con altre centinaia di ludici come lui, forse gli piace persino il salmone che mangia durante la sua gita al centro commerciale. Gli piace muoversi tra gli ambienti colorati, scegliere il mobile di cui ha bisogno tra una sala e l’altra e nel frattempo magari comprare posate e piatti di plastica dai colori talmente vivaci che la lavastoviglie quando li vede arrivare indossa gli occhiali da sole, curiosi ciappetti che dovrebbero servire a chiudere i pacchi ma che funzionano solo in Svezia (in Italia ce ne vogliono tre per fare il lavoro di una dignitosa molletta), marmellate fuxia che di notte diventano fosforescenti (e se ne mangiate tanta in effetti potrebbe servire come colonoscopia). È risaputo che Ikea come altre catene della grande distribuzione analoghe basino una fetta rilevante del proprio business proprio su questi accessori.

Pazienza se poi occorre portarsi a casa, due piani senza ascensore, un oggetto imballato lungo due metri e spesso 40 cm senza alcuna maniglia, che pesa dannatamente e le cui tracce nella tromba delle scale allieteranno il dibattito della prossima riunione di condominio. Pazienza se alla fine di un pomeriggio estenuante l’armadio montato in casa barcolla vistosamente e vi è avanzata una mensola e tre viti. Tanto fra una settimana è di nuovo sabato e si riparte, abbiamo giusto dimenticato di comprare due lampadine.

Al cliente funzionale il prodotto serve. Punto. Ne ha bisogno, prima arriva e meglio è: se risponde alle sue esigenze, è contento. Non ha tempo da perdere, il cliente funzionale, e non è particolarmente interessato neanche alla possibilità di scegliere tra un ventaglio di alternative diverse. Il cliente funzionale si mette al computer – ma i nostalgici del mondo analogico potranno sfogliare un catalogo riportando alla memoria i bei tempi andati di Postal Market e Vestro), verifica le misure, ordina. E include nel prezzo la consegna e il montaggio, cosicché un paio di giorni dopo due omaroni suonano a casa, entrano con l’oggetto imballato lungo due metri e spesso 40 cm (ma loro sono in due, eh!), in venti minuti l’hanno montato e messo al suo posto, si sono fatti pagare e hanno salutato.

In casa mia, l’avrete capito, Mister Mondoconvenienza sono io. Per me l’idea di fare una telefonata e avere qualcuno che mi risolve il problema senza impicci è un lusso a cui non so rinunciare. Ovviamente la signora Ikea è mia moglie, che invece trova assurdo spendere qualche decina di euro per la consegna e il montaggio quando possiamo fare da noi (e usarli magari per comprare i maledetti piatti e ciappetti psichedelici). Magari in un’altra coppia le parti si invertono; oppure ci sono coppie che pascolano felici per l’Ikea mano nella mano con il carrello pieno di caramelle al lampone. Non lo so, ma ho la sensazione che l’ipotesi funzionale (o pigra, se vogliamo dirla tutta) sia molto maschile, e quella ludica molto femminile. Tranne il caso patologico di quei viri dal petto villoso che si comprano tre assi di legno e una motosega perché pensano di costruirsi la camera da letto da soli (che però mi pare una moda decisamente in calo).

PS Ovviamente i mobili potete ordinarli online o farveli montare anche dall’Ikea, così come potete visitare un negozio di Mondoconvenienza e andare a ritirare la merce al magazzino. Ma è qualcosa di intrinsecamente innaturale, come festeggiare l’addio al celibato a Parigi e andare in viaggio di nozze ad Amsterdam. Non si fa.

Là sotto

semaforoC’è un elemento che da sempre accomuna tutte le donne che ho conosciuto in vita mia, dalla mamma alla passante cui chiedi informazioni. Si tratta della capacità di sintesi quando si tratta di dare indicazioni. Dov’è il caffé? Là sotto. Cioé è là, quindi un qualunque punto dell’universo che non sia qui (o qua, per fare rima). Escludendo qua, rimangono appunto tutti gli altri punti dell’universo.

Abbiamo però una precisa indicazione: sotto. Cioé, rispetto a qualche oggetto non meglio identificato, il caffé è in una posizione subalterna. Sicuramente è sotto il lampadario, forse sotto la mensola, probabilmente in un cassetto inferiore della dispensa. Provare a chiedere ulteriori dettagli è pressocché inutile, la donna in questione, sia essa mamma, nonna, moglie, amante o autostoppista rimorchiata in autogrill divericherà le narici, scuoterà una mano come a farsi largo con noncuranza e in pochi istanti tirare fuori il caffé, spiegando: te l’ho detto che è là sotto, dove hai gli occhi?

Gli occhi dei maschi sono là dove dovrebbero essere (e cioé in mezzo al volto, tra la fronte e gli zigomi: un po’ di precisione, diamine!), solo noi siamo dotati di un navigatore che raccoglie informazioni e ci indirizza sulla base degli indizi raccolti. Non ci sono inferenze induttive, ricordi di infanzia, istinto materno o fiuto primordiale a guidarci, solo le indicazioni ricevute.

Scusi, dov’è il duomo? Uomo: “Prosegua dritto, superi il semaforo, poi svolti alla seconda a destra, poi ancora a sinistra, c’è una piazzetta, parcheggi perché è quasi arrivato”.

Scusi, dov’è il duomo? Donna: “Guardi, non può sbagliare, è una bella chiesa romanica, con una facciata maestosa, proprio in centro, prosegua di là, sempre dritto, poi dopo un po’ gira, dove ci sono quelle boutique con i saldi, poi al limite chiede. E buon viaggio, eh!”.

Avete presente i parcheggi dei supermercati? B8, seconda fila ottava colonna, si capisce che deve averlo progettato un uomo. Perché è quadrato come la nostra testa. Una donna avrebbe dato ad ogni colonna il nome di un colore. Dov’è la macchina? Pesca turchese. Poi al limite chiede.

 

Le domande retoriche delle donne

La retorica, a mio modo di vedere, è un’arte femminile. Se associamo a questa modalità di comunicazione i nomi di Cicerone o Shakespeare è solo perché in passato le donne avevano poche possibilità di esprimersi. Sempre poi che Cicerone fosse davvero un uomo (sul genere di Shakespeare sono state scritte biblioteche di volumi per cui lascio perdere).

Una donna non vi chiederà mai l’opinione su un suo nuovo capo d’abbigliamento. Sarebbe come chiedere ad un piromane che ne pensa dei giardini giapponesi. Una donna vuole solo una conferma della sua scelta. Se una donna esordisce con un “non voglio essere polemica”, è per anticiparvi che non solo ne ha una voglia matta, ma lo farà, sarà polemica eccome.

L’artificio retorico per eccellenza è però la domanda, appunto, retorica.
Una donna non si lamenta perché hai lavato male i piatti. Una donna dice: secondo i te i piatti sono puliti? Una donna non ti dà direttamente dell’imbecille perché non trovi le chiavi. Una donna ti dice: come mai fai sempre tanta fatica a ritrovare le tue cose?
E via discorrendo: lo chiami pulire il pavimento, quello? Perché lasci ovunque tracce del caffè che prepari? Quante volte ancora dovrò ripeterti di rimuovere il tappetino del bagno dopo la doccia?

Essendo domande retoriche, rispondere è inutile, perché con una domanda retorica una donna vi sta chiedendo: l’accendiamo? È la tua risposta definitiva? Dopo avervi dato del babbeo. Rispondere equivarrebbe ad un sottoscrivere una dichiarazione di incapacità di intendere e volere. Che le donne ricorderanno – ah, se la ricorderanno – e vi rinfacceranno fra una trentina d’anni.

Ora, a casa mia ci sono tre donne. Alla prima non posso obiettare molto, essendo lei Home Chief Executive Officer mi è gerarchicamente superiore. La seconda comincia però a farsi minacciosa: papà, ti sembra che io abbia i calzini? Papà, ti sembra che questo canale trasmetta cartoni? Papà, ho detto scalini, non scale. Tu li chiami scalini questi?

La terza, per fortuna, ancora non parla. Ma già i suoi sguardi interrogativi non promettono nulla di buono.