La geografia del dolore. Forza Monzuno

C’è un detto montanaro che ripete che a Monzuno anche le galline hanno i freni. Quest’immagine da sola racconta più di mille studi di orografia la natura di una terra a me cara che sta vivendo giorni difficili.

Contatto L., mi risponde che sta bene. La strada che conduce a casa sua si è sbriciolata come una millefoglie troppo cotta e per andare in ufficio percorre quattro o cinque chilometri a piedi, ma sta bene. Quando lavoravamo insieme era sempre la prima a sistemarsi dietro la scrivania, magari in questi giorni ci metterà un po’ di più. M. mi spiega che è tra i fortunati laggiù, tra i monti e il fiume, che ha ancora una casa integra e può ospitare i parenti cui è andata meno bene. Vicino a G. hanno fatto evacuare già alcune famiglie, si chiede se toccherà anche a lei. M. (non è la stessa persona di prima) dopo aver fatto il giro della zona rossa con i volontari osserva il suo bucato steso, lavato, impolverato e rilavato dalle piogge che aspetta che qualcuno lo raccolga, ma va bene.

L’unità di misura del benessere, dello stare bene andrebbe ricalibrata dopo il disastro che ha colpito la pianura, infangata e sommersa, e la montagna, che cade a pezzi, e non solo metaforicamente.

A queste persone sta letteralmente venendo meno la terra sotto i piedi, però ci sono e questo gli basta per rispondermi che dai, va bene. Non invito ad ammirarli ché non abbiamo bisogno di eroi, invito a ripensare ai nostri bisogni di elevati standard qualitativi, per i quali per stare bene ci servono sempre più tempo, spazio, risorse.

Qualcuno con un po’ di malinconia fa notare che anche nella disgrazia l’Appennino viene dopo. Tutto il mondo infatti ha testimoniato il dramma della Romagna, chissà in quanti sanno che anche da queste parti l’acqua si è portata via case, strade, ricordi. Per fortuna non vite.

Ma non c’è una classifica della tragedia, e se i frutteti devastati della bassa avranno un drammatico impatto sull’economia di queste terre, anche il fabbro di Vado non ha più niente con cui lavorare. La geografia del dolore non ha sfumature di intensità, chi perde tutto perde tutto a qualunque latitudine, e anzi in montagna forse ci mette anche di più a rimettersi in piedi.

I miei 24 lettori sanno che il maresciallo Luccarelli, protagonista di tanti miei racconti e di qualche romanzo, ha la caserma in Val di Setta. Dove ho lavorato diversi anni. I più attenti avranno capito che sorge proprio lì, a Vado, una delle zone più colpite dalle alluvioni del maggio 2023. Mi vengono in mente le parole di un ex sindaco che anni fa mi fece notare come Vado derivi da “guado”, e questo qualcosa dovrebbe insegnarci. Ma non ora, non è il momento. Guardate che vivere in una valle non è facile come negli spot televisivi. Fa freddo in inverno e caldo in estate. I percorsi di accesso non sono semplici. Ci vuole coraggio, per vivere in una valle, bisogna volerle bene.  Anche perché quelle che noi chiamiamo Food Valley, Motor Valley, Data Valley, se prendete un atlante scoprirete che in realtà sono pianure che giocano con l’assonanza anglosassone.

Ebbene se il maresciallo esistesse davvero oggi sarebbe lì, nella valle, a spalare fango e terra. Chi gli dà voce più modestamente può, al massimo, fare quello che gli riesce meglio, mettere in fila parole che fissino i ricordi. Perché sono i ricordi le prime vittime di questi disastri. La lunga strada di curve e tornanti che da dalla provinciale dopo l’autostrada si arrampica su a Monzuno, e se svolti subito a destra passi davanti alla stazione e da lì raggiungi la piazza del paese, se la rivedi in foto non è più come la ricordavi. Non ti riconosci più nel percorso che facevi dalla delegazione comunale per arrampicarti fino alla stazione (sì, in Appennino tutto è un po’ sotto sopra, e le stazioni stanno in cima ai centri abitati) arrivando paonazzo a prendere il regionale delle 15. La fondovalle Savena che hai percorso in auto centinaia di volte, e quel mercoledì mattina hai pure esagerato con l’acceleratore ma cavolo, tua moglie ti aveva chiamato per dirti che le si erano rotte le acque, quella strada non si percorre più. In futuro, forse, chissà. Ora è strozzata come un sifone incrostato. È questo che fanno i disastri naturali, stravolgono lo spazio per alterare la tua cognizione del tempo. Questi eventi catastrofici che rivoltano l’orizzonte intorno a noi non cambiano solo le nostre storie: modificano per sempre la nostra percezione dei ricordi.

Una delle zone più martoriata dal fiume – dovremmo chiamarlo torrente ma la furia non era quella di un corso d’acqua minore – si chiama Blogna. Senza o.

Il segretario generale correggeva sempre quell’errore negli atti, finché non gli spiegarono che ormai quel refuso, quel retaggio dialettale si era fissato per sempre: quella frazione era per tutti Blogna. Anni fa, quando mi occupavo di servizi demografici, feci correggere con un atto di giunta la toponomastica di “via delle Quercie” con “via delle Querce”, perché le maestre venute da fuori acquietassero il loro sdegno ortografico di fronte a quella “i” di troppo, ma Blogna è rimasta così. Blogna non si tocca.

E invece. E invece non solo è stata toccata, ma adesso sarà inevitabilmente destinata a cambiare.
Si tornerà a vivere lì? E che vita è quella di chi ogni giorno rivede il mostro che ti è entrato in casa lasciandoti nudo con i tuoi rimorsi?

Difficile fare previsioni, difficile rimanere lucidi mentre si alza il coro sdegnato di chi ha sempre ragione e soprattutto ha qualcuno a cui dare una colpa. È colpa del Comune, della Città metropolitana, della Regione, del Governo. A seconda dei colori cambia il capro espiatorio su cui scaricare la propria frustrazione impotente. Ma intanto si spala, e non è che siccome sei di sinistra ciascuno spali secondo le proprie possibilità e siccome sei di destra allora premiamo quello che spala di più. Di fronte a questi eventi si spala e basta.

I den sänper la colpa alla C’muna mi spiegò un’amica nata lassù, abituata a fare pace con il mondo osservandolo dall’alto, nei pomeriggi dopo la scuola, tra le atmosfere rarefatte di Monte Venere.

Quell’amica se n’è andata troppo presto ma le sue parole sono rimaste: è sempre colpa del Comune (o degli altri enti, è uguale). È sempre colpa degli altri, il nostro stile di vita va bene così, possiamo continuare a consumare impunemente il pianeta, purché il sindaco tenga puliti i fossi.

Forza Monzuno, non dar retta ai saccenti che vomitano sui social la loro presunta superiorità, non sentirti nemmeno seconda perché da te o a Monterenzio non sono venuti ministri e presidenti europei. Le tue galline hanno i freni, si salveranno anche stavolta.

Concludo con la mia personale immagine del disastro di questi giorni e della risposta di chi vive e lavora in Emilia Romagna. Una foto che ho rubato online al mio amico Gianluca.

Si tratta di uno smottamento a Monzuno e nemmeno dei più gravi, visto che sono venuti giù fianchi delle montagne come fette di pandoro inzuppate di latte. In confronto questa è una roba da ridere.

Ma questa foto mi piace perché quasi ce lo vedo il mio ex collega ignorante che non dorme da giorni, è corso su e giù a verificare, aiutare, indirizzare, e porca di quella miseria nemmeno ce l’ha più un cartello di divieto di accesso.

Perché ci sono più frane che cartelli in questi giorni nel mio amato Appennino. Ma il collega ignorante se ne frega delle difficoltà, tira fuori il cartello del mercato settimanale e la strada è chiusa.

Il giorno del mercato poi ci porremo il problema, adesso la risolviamo così.

Se fossimo tutti un po’ più come quegli operai che cercano di salvarci tra la pioggia e il fango e un po’ meno come quelli che dopo aver riposto la laurea di epidemiologia presa presso me stesso si scoprono ingegneri idraulici, ecco io penso il mondo sarebbe un posto migliore.

Forza Monzuno.

E sì, ci mancherebbe, forza Vado. Lo so che ci tenete. Rinforzate per bene quei pendii, non sia mai che quei gallinacci monzunesi con i freni più usurati vi finiscano in testa.

L’editorazzismo: come l’editing ha stravolto la narrativa gialla

Che la narrativa cambi, si adatti ai tempi, si evolva, è un dato di fatto. Nel caso del romanzo poi questo è ancora più evidente, visto che con i suoi quattro secoli o giù di lì rappresenta un modello di composizione relativamente giovane, se confrontato ai millenni della poesia in versi, per esempio.

Ho deciso allora di svagarmi con un passatempo che non ha nessuna valenza scientifica o critica, ma è solo un diletto più o meno intelligente. Ho scelto due romanzi di genere, in particolare due romanzi di genere giallo, che avessero qualcosa in comune, e appartenessero però a periodi storici diversi. E mi sono divertito a confrontarli. Gioco a carte scoperte sin da principio. Sono un amante dei classici, detesto il modello industriale che gli editor negli ultimi anni hanno imposto alla narrativa, quello che definisco provocatoriamente editorazzismo; quindi, tra i due non c’è stata assolutamente gara e non farò nulla per nasconderlo.  I due romanzi in questione sono Il profumo della dama in nero di Gaston Leroux del 1908 e Il caso Alaska Sanders di Joël Dicker del 2022. Se temete le anticipazioni, non preoccupatevi, non svelerò nulla del finale.

Cos’hanno in comune questi due romanzi in apparenza così lontani e diversi tra loro? Il fatto di essere profondamente legati ad altre opere di successo degli stessi autori, tanto da poter essere addirittura considerati dei seguiti: Il mistero della camera gialla nel caso di Leroux e La verità sul caso Harry Quebert nel caso di Dicker. Direttamente connessa a questo aspetto c’è la presenza di un personaggio più evocato che raccontato: Frédéric Larsan nel primo caso, Harry Quebert nel secondo. Più tenue infine il legame tra i due protagonisti, che in comune hanno il fatto di non essere investigatori di professione: Rouletabille è un giornalista, Goldam uno scrittore.

Le affinità, come vedremo, finiscono qui: oggi nessun grande editore pubblicherebbe il capolavoro di Leroux. Appartiene infatti a una razza reietta per il semplice motivo che viola quasi tutte quelle famose regole commerciali di cui parlavo prima. Regole che invece Dicker rispetta al punto tale che il suo lavoro le incarna, ne è completa identificazione. Se esistesse un Premio Nobel per gli editor, lo dovrebbero vincere quelli di Dicker.

Ma procediamo con ordine: nel romanzo di Leroux abbiamo una coppia di sposi, Robert Darzac e Mathilde Stangerson che chiedono aiuto a Rouletabille, il giornalista investigatore, una specie di Sherlock Holmes più empatico e appassionato; qualcosa non va, un’ombra del passato è tornata a manifestarsi (uso il punto e virgola solo perché tanto non ho un editor che me lo impedirebbe, perché per loro il punto è il virgola è il male). Si tratta del primo marito di Mathilde (la dama in nero del titolo), Larsan, che nel primo romanzo della saga, Il mistero della camera gialla, tutti davano per morto. E con la trama mi fermo qui, aggiungendo che non mancano alcuni capisaldi del genere: la suspense, il colpo di scena, le false piste.

E veniamo a Dicker. Siamo a Mount Pleasant nel New Hampshire, ma potremmo essere a Los Angeles, nel Mozambico o a Molinella: anticipando una delle riflessioni successive, vi anticipo che l’ambientazione non ha nessuna rilevanza. Come il titolo anticipa, la vittima si chiama Alaska Sanders, il colpevole confessa e si uccide. Ma le cose non sono andate davvero così: ci troviamo insomma di fronte al più classico del cold case, cioè quelle indagini su casi irrisolti – o risolti senza trovare il reale colpevole – decine di anni prima. Protagonista della vicenda sono il sergente Perry Gahalowood, che aveva seguito malamente la prima indagine, e il suo amico scrittore Marcus Goldman, l’autore de La verità sul caso Harry Quebert, precedente romanzo di Dicker. Questo è lo spunto più originale di questo lavoro, il dettaglio che il protagonista sia un alter ego dello scrittore. Anche qui, come detto, abbiamo un fantasma che ritorna dal passato, Harry Quebert in persona, anche se con un ruolo marginale, più da life coach (altro aspetto che piace tanto ai contemporanei, quei due o tre consigli della nonna su come scoprire te stesso e vivere felice inseguendo un sogno).

E con la storia fermiamoci qui, spero di avervi invogliato a leggerli perché leggere fa sempre bene. Divertitevi, se volete, a dare un’occhiata alle recensioni più attuali dei due autori: sono in tanti a massacrare il povero Leroux, segno di quanto il gusto moderno sia stato modificato dalla combriccola degli editor. Qualcuno a cui non è piaciuto Dicker c’è pure, ma i toni sono per lo più positivi: il romanzo infatti è un perfetto esempio di midcult secondo la definizione di Dwight Macdonald: ha una trama riconoscibile, temi consensuali, stile comprensibile facile facile facile, non troppo originale, non troppo eccessivo.

Se dovessi fare un paragone, direi che il romanzo di Leroux è una sonata di Beethoven: parte lentamente, rallenta, accelera, si prende delle pause, ha dei picchi e poi delle frenate, divaga e illumina. Dicker è più che altro una compilation di reggaeton latino americani: sempre orecchiabili, sempre di facile ascolto, sempre lo stesso dannato ritmo. Il lettore contemporaneo medio lo adora, mentre invece lamenta la lentezza di Leroux, le sue pause, le sue divagazioni, la sua introspezione psicologica. Il romanzo francese infatti viola quasi tutte le regole di Santa Maria dell’Editing: descrive a lungo ambienti e paesaggi, con dovizia di particolari, in alcuni passaggi basta chiudere gli occhi per sentirci lì, sulla Costa Azzurra, giusto pochi chilometri dentro i confini italiani. Queste descrizioni aggiungono qualcosa alla storia? Niente. Un editor contemporaneo le avrebbe cancellate senza pietà, non producono jump scare e peggio ancora rallentano l’arrivo dello story twist: non va, caro Leroux, il lettore a quel punto si sarà messo a cercare su youtube gattini sovrappeso che camminano sui cornicioni. Come anticipavo prima, il romanzo di Dicker avrebbe potuto essere ambientato ovunque perché non c’è traccia di descrizioni, paesaggi, ambienti, se non quelli indispensabili alla storia. E non è solo una questione immaginifica: è il contesto anche sociologico a mancare completamente. Quegli eventi avvengono lì ma sarebbero potuti accadere altrove, i paesi sono solo uno scenario, non sono parte della vicenda. Al contrario Leroux è ossessionato dai risvolti psicologici dei suoi personaggi e del contesto angosciante che i suoi protagonisti vivono, prede impotenti che si sono rinchiuse nella loro stessa prigione.

Per non parlare dell’infodump, altro mantra degli adepti dell’editorazzismo: si tratta insomma dell’errore dello scrittore che fornisce troppe informazioni, tutte insieme, al povero lettore, senza che queste aggiungano nulla allo svolgimento. Per carità, può capitare, ma gli editor di oggi vedono il lettore come un disgraziato semianalfabeta che non può reggere a troppe subordinate causali. Che abbondano in Leroux, e sono completamente assenti in Dicker. Quest’ultimo ha uno stile leggerissimo, semplice: una azione dopo l’altra, una vicenda dopo l’altra, nessun salto, nessuna evocazione, tutto straordinariamente lineare, sempre paratassi, via l’ipotassi. Legata al dogma dell’infodump c’è poi il primo comandamento fondante della combriccola: show, don’t tell. Lo scrittore deve mostrare, non raccontare. Anche in questo caso, mio caro Leroux, la invitiamo a rileggere il suo manoscritto: la storia c’è, per carità, ma c’è un eccesso di raccontato. Inutile dire che nessun editor oggi potrebbe leggere Dostoevskij o Tolstoj senza contorcersi sul divano.

Non parliamo poi della cosiddetta narrazione a focalizzazione zero, quella cioè del narratore onnisciente che vede e giudica. Anatema! Un buon editor come minimo brucerebbe un manoscritto del genere e chiamerebbe poi un prete esorcista per cacciare gli spiriti maligni che potrebbero aleggiare nella stanza. Indovinate dove c’è questo narratore e dove no, nel mio confronto?

Non parliamo poi del colpo di scena. Lo scrittore contemporaneo deve essere ossessivamente realistico e credibile: niente conigli tirati fuori dal cilindro. Leroux, come gli autori del suo periodo (ah, che invidia), se ne infischia della verosimiglianza. Qui devo essere sincero: persino io ho sollevato un po’ il sopracciglio, perché alla fine sono un lettore dei miei tempi ed evidentemente ho assorbito un po’ di editorazzismo. Neanche Dicker scherza però, su quest’ultimo aspetto.

Potrei continuare ancora, ma mi fermo con un’ultima riflessione. C’è stato un periodo in cui gli scrittori pensavano al proprio romanzo già in chiave di trasposizione cinematografica: tempi giusti per rientrare nell’ora e mezza o due di una proiezione, senza fare ammattire lo sceneggiatore. Dicker va oltre. La sua è praticamente già la sceneggiatura di una serie televisiva in dieci puntate: ci sono persino i cliffhanger alla fine di ogni puntata. Il metodo è talmente industriale da risultare stupefacente.

In conclusione, io non ho nulla contro i romanzi contemporanei scritti come Il caso di Alaska Sanders: appassionano, divertono, sono un ottimo passatempo. Quello che non sopporto è la combriccola di editor e le loro regole ortodosse che fanno sì che tutti gli autori di gialli, oggi, devono mirare a scrivere qualcosa come Il caso di Alaska Sanders.

Consentitemi uno sfogo personale: se è il prezzo da pagare per avere successo, mi tengo stretti i miei venticinque lettori.