Dieci piccoli indizi: apertura e Re di denari

Apertura

Lo starnuto del brigadiere Crisafulli fu talmente violento che la pastiglia alla menta balsamica che teneva in bocca gola si proiettò fuori dalle sue labbra, rimbalzò sulla scrivania e andò a spataccarsi sulla giacca del maresciallo Zavaglia che proprio in quel momento faceva il suo rientro in caserma.

La pastiglia rimase incollata alcuni istanti prima di scivolare, lentamente, lasciando una scia verdastra sul petto del militare, tra l’incredulità del maresciallo che istintivamente portò la mano al fodero della pistola. Decisamente non era una medaglia di cui andare fieri, quella pastiglia contro il mal di gola, che per fortuna ritenne opportuno cadere per terra senza l’intervento da parte di alcuno.

«Mi perdoni maresciallo. È il raffreddore. Forse dovrei stare a casa a riposo qualche giorno.»

Zavaglia stava per avviarsi verso il suo ufficio senza nemmeno rispondergli quando si accorse di un mazzo di carte napoletane sul tavolo del suo sottoposto. Per un attimo, pensando al fatto che quella notte era stato chiamato alle due per un furto in una abitazione, che doveva predisporre un paio di verbali urgenti, che doveva occuparsi di uno spacciatore che aveva colto in fragrante quella mattina, che doveva accompagnare l’ufficiale giudiziario per eseguire alcuni sfratti e che soprattutto non ricordava più nemmeno quando era stato in ferie l’ultima volta, ebbe sul serio la tentazione di ricorrere all’arma e svuotare il caricatore contro la scrivania del brigadiere.

«Fai sparire subito quelle carte. Quante volte te lo devo ripetere? Che figura ci facciamo con un cittadino che entra e ti vede impegnato in un solitario?»

«Posso spiegare tutto, maresciallo. Sto lavorando. Cioè sono al centralino, ma non chiama nessuno. Le carte…»

Il maresciallo allargò le braccia e lo invitò, almeno, ad avere la decenza di giocare con il computer, così da dare meno nell’occhio. Ma Crisafulli aveva una risposta per tutto, e gli spiegò che il solitario al computer non gli piaceva: una volta era andata via la corrente e aveva perso tutto. E invece un mazzo di carte non si spegneva mai, funzionava all’aperto e in treno, era portatile e silenzioso. Tuttavia quelle non erano carte, erano un referto. Il giovane carabiniere stava ancora fornendo dei dettagli quando il suo superiore lo interruppe.

«Sai che ti dico, Crisafulli? Mi hai convinto. Ho bisogno di fare una pausa. Gioco anch’io. Però non un solitario. Giochiamo a briscola. E però ci giochiamo qualcosa.»

A Crisafulli non piaceva l’andazzo che stava prendendo la conversazione. Non era un granché come giocatore di briscola. Non era un granché nemmeno con il solitario a dire il vero, ma lì non poteva perdere niente se non un po’ di tempo. Con quelle carte, però… Se vinci tu, concluse il maresciallo, dimentichiamo l’increscioso episodio delle carte, della caramella, e persino del fatto che se non metti a posto quella cornetta difficilmente riceverai mai telefonate. Se vinco io, tu ti fai gli sfratti di oggi e no, non mi importa che hai promesso di tornare a casa in Sicilia entro sera, vorrà dire che ci metterai un po’ di più. Allora, mescoli le carte o no?»

Crisafulli eseguì gli ordini maledicendosi in silenzio per non essersi messo in malattia, quella mattina, come gli aveva suggerito Cosimina, la sua fidanzata che l’aspettava a Messina un fine settimana sì e uno no.

Re di denari

La notizia della morte del re si era diffusa velocemente nel piccolo regno dei Berfatt, a nord dell’isola di Apul, gettando nello sconforto sudditi e familiari. Benché anziano, infatti, il re godeva di buona salute e probabilmente avrebbe vissuto qualche anno in più se non avesse fatto il bagno di mezzanotte dopo aver mangiato mezzo chilo di alghe al forno. Non che fosse stata la congestione a ucciderlo: quella l’aveva costretto semmai a un paio di giorni a letto. Il re però non sopportava di stare recluso in casa, e per evitare le guardie che sua moglie aveva posto accanto alla sua porta aveva cercato la via di fuga dalla finestra, cadendo precipitosamente al piano inferiore. Non che fosse stata la caduta a ucciderlo. Quella l’aveva imbracato in una serie di fasciature piuttosto ingombranti e aveva costretto la moglie Capurél a prevedere una guardia anche vicino alla finestra. Ma al re la convalescenza dava sui nervi, soprattutto perché l’umidità rendeva crespi i suoi magnifici capelli e complicava la cura dei baffi a cui teneva molto. D’altronde per il suo popolo Dio, patria e ciglia erano i valori fondanti, ma visto che la fede ultimamente viveva una fase di stanca e il regno era al sicuro da parecchio tempo da invasioni e razzie, quello che rimaneva ai suoi sudditi era una cura maniacale per l’aspetto fisico.

Insomma, il re era pacificamente morto nel sonno, ma secondo alcuni saggi chiamati a verificare le cause della sua morte, ad accelerare la dipartita era stato lo smarrimento del suo pettine preferito, che aveva lasciato in consegna ai suoi figli, visto che da solo non riusciva più a pettinarsi a causa delle fratture.

Quale che fosse la causa della morte dell’anziano sovrano, di una cosa erano certi quasi tutti: nessuno dei due figli era ancora pronto per raccoglierne l’eredità. Vacandin, il maggiore, era timido, riservato, silenzioso. Tutte caratteristiche che rendevano difficile adempiere alla principale missione di tutti i sovrani dei Berfatt: trovare una moglie combattiva e coraggiosa e lasciare che a occuparsi del regno fosse lei. Al massimo il re poteva dilettarsi in pubbliche relazioni e battute di caccia ai funghi, le uniche battute di caccia possibili visto che ad Apul gli animali scarseggiavano e i cacciatori erano talmente fuori forma che più che un fungo immobile non avrebbero potuto catturare.

Il fratello Cip Ciap avrebbe avuto meno difficoltà a trovare una donna, ma il problema non era la donna, ma semmai l’una; al giovane una sola compagna pareva non bastare. Erano piuttosto numerose le ragazze a poter raccontare di aver avuto una relazione, di un giorno o di un mese, con il bel principe gaudente e spensierato.

La regina Capurél convocò pertanto i due figli subito dopo le esequie del marito. Non era infatti scontato che il trono sarebbe passato a Vacandin: la regina avrebbe potuto scegliere il figlio minore, come speravano i popolani (soprattutto le popolane) o anche un estraneo, purché bello e senza problemi di alopecia, secondo le sacre tradizioni dei Berfatt. Parlò loro con estrema franchezza. Voleva sapere chi dei due avesse perso il sacro pettine del padre. Non era tanto la loro l’impudenza, che voleva valutare, spiegò loro, quanto la sincerità e il coraggio dei suoi figli. Cip Ciap prese subito la parola: a perdere il pettine era stato Vacandin, lo custodivano una settimana per uno, e quando era arrivato il suo turno, il fratello non glielo aveva consegnato. Cip Ciap affermò anche di aver visto Vacandin uscire con il pettine in borsa, senza prendere precauzione alcuna. Non si poteva affidare il regno ad un inetto incapace di custodire un oggetto di valore. Non si poteva.

Vacandin rimase in silenzio. Capurél attese allora la sua versione dei fatti. Il figlio le rispose che era vero, il pettine era in custodia da lui, ma che non lo aveva mai portato fuori dal castello. Tuttavia questo non aveva importanza, ormai. Era stato perduto mentre lui avrebbe dovuto custodirlo, e doveva pagarne le conseguenze.

Capurél si volse indietro verso un armadio in fondo alla sala, aprì un cassetto e ne estrasse il pettine. Era stata lei a prenderlo per farlo ripulire. Cosa che faceva abitualmente senza avvisare il marito, il quale temeva potesse sciuparsi. Lo faceva perché il re era capace di farsi cogliere da profonda malinconia alla vista dei capelli attaccati al pettine, e con gli anni era andato peggiorando. Per questo la moglie li faceva rimuovere di nascosto. Solo che questa volta l’artigiano che se ne prendeva cura le aveva chiesto un po’ più di tempo per completare il lavoro

Capurél guardò con aria severa Cip Ciap: un mentitore non solo non sarebbe mai stato un buon re, ma non sarebbe mai stato un buon berfatt. Doveva cambiare e in fretta, se non voleva fare la fine che il destino assegna agli uomini falsi. Poi mise una mano sulla spalla di Vacandin e lo invitò a farsi coraggio, a guardare al futuro con fiducia e ad usare più balsamo.

Il popolo dei Berfatt avrebbe presto incoronato un nuovo re.

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