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Noi che abbiamo visto due volte l’Italia vincere i mondiali

Caro dodicenne appassionato di calcio, questa mia lettera vuol essere un affettuoso incitamento ad andare avanti con le tue passioni, nonostante tutto. Nonostante Ventura e Tavecchio, nonostante un campionato che nella sfida scudetto Juventus-Napoli presentava in campo tre italiani. Nonostante stiano per cominciare i mondiali, e l’Italia non è neanche ai nastri di partenza. Non che rivedere l’umiliazione delle ultime due edizioni avrebbe migliorato la nostra autostima, ma almeno avremmo avuto qualche speranza iniziale. Almeno avresti potuto organizzarti una di quelle maratone calcistiche che solo a quell’età puoi goderti con spensieratezza, quell’età in cui le giornate non finiscono mai e il tempo davanti a te sempre inesauribile.

Per Messico 86 il fuso orario non ci agevolava troppo, ma ciò nonostante vidi quasi tutte le partite, e pazienza se la nostra squadra andò a sbattere contro la Francia di Platini, quello era il mondiale della “Mano de Dios” e fu bello esserci anche se per poco. Ho dei ricordi non molto a fuoco ma non perché siano passati gli anni, ma perché i collegamenti via satellite e il tubo catodico del tempo facevano davvero pena. Italia 90 fu l’apoteosi adolescenziale, mi vidi persino la cerimonia di inaugurazione, registrai partite senza motivo (erano gli anni del delirio VHS), vidi persino – e con soddisfazione – partite tipo Camerun-Romania. Per la prima partita, Argentina-Camerun, prenotai il televisore del soggiorno, ci piazzai la poltrona di fronte e mi preparai un’orzata ghiacciata (era il massimo della trasgressione che potevo permettermi). La partita si giocava al pomeriggio, per cui non creai nessun problema familiare. E la sera le partite ce le guardavamo all’arena all’aperto: alla passione per il calcio potevamo provare anche a mescolare qualche infatuazione non ricambiata per le ragazzine che venivano all’arena e facevano domande tipo “dove dobbiamo segnare noi?”.

Certo che finì molto male, però le notti magiche sono state foriere di emozioni, come quell’incredibile squadra, in cui pochi credevano, che quattro anni dopo si fermò solo ai rigori contro il Brasile. Non starò a raccontare tutti i mondiali, per quelli ci sono le cronache sportive. Posso però dire che quando si trattò di decidere la data delle nozze, con molti mesi di anticipo, volli prima consultare il calendario dei mondiali. Ma figurati, mi derisero in molti. Scherzate pure, dissi io, ma preferisco sposarmi quando il mondiale sarà finito. Ve la immaginate una cerimonia il giorno della semifinale se gioca l’Italia? Con tutti che scappano via prima che cominci la partita. E così, anziché il 7 luglio, mi sposai il 14. Da campione del mondo.

La mia generazione è stata fortunata, lo dobbiamo ammettere. Siamo arrivati ad un punto calcisticamente così basso da poterci vantare di essere quelli che hanno visto due volte l’Italia vincere i mondiali, una volta seconda, una volta terza. Cosa è successo nel frattempo non lo so, ma ricordo ancora bene quell’emozione a soli sette anni, Cabrini che sbaglia il rigore, poi quell’euforia che mi portò addirittura ad avere un po’ di febbre, e a rimanere alla finestra mentre tutti fuori festeggiavano e sventolavano le bandiere. E le urla del 2006, la testata di Zidane, sbeffeggiare tedeschi prima e francesi poi, con molta più soddisfazione, va detto, di quanto non ci piacque nel 1982 far fuori Brasile e Argentina.

Caro dodicenne appassionato di calcio, forse l’Italia tornerà a vincere, o almeno a partecipare, ma certo tu non avrai più l’età giusta per goderti centinaia di partite. Puoi sempre fare il tifo per l’Islanda. E magari con le ragazzine che ti chiederanno da che parte bisogna segnare avrai pure più fortuna di noi.

La schedina fra le dita

Gli appassionati di calcio oggi seguono le partite di campionato praticamente dal venerdì al lunedì, persino all’ora di pranzo, con le giornate libere occupate da manifestazioni internazionali. Cari ragazzi miei che vi appassionate a questo sport come a me capitò più di trent’anni fa, non è sempre stato così. Quello che voi assaggiate è un vino talmente annacquato da risultare insipido, e mi domando come facciate a non esserne stufi (io per esempio lo sono).
C’era una volta la schedina: un gioco che con poche lire permetteva di sfidare la fortuna cercando di indovinare i risultati: la schedina fra le dita può cambiare la tua vita, cantava il mitico Toto Cutugno.

La schedina c’è ancora, almeno credo, ma è tutto il corredo intorno ad essere svanito. Intanto perché le partite si giocavano tutte in contemporanea, dalle 14,30 (orario spostato in avanti l’estate). Quindi in quei novanta minuti potevi sapere se avevi vinto o no, senza dover aspettare tre giorni. Poi perché la schedina era un rito collettivo, quello che manca alla società attuale parcellizzata tra mini schermi personali e contenuti ipertrofici h24, come dicono quelli che ne sanno. Andavamo allo stadio tutti insieme, dal mio indimenticabile “Erasmo Jacovone” di Taranto a San Siro, dall’Olimpico al Renzo Barbera. Poi tutti insieme rientravamo in auto sperando di fare in tempo per novantesimo minuto, per poi ritrovarci di fronte alla domenica sportiva, che faceva sì rivedere i goal, ma da angolazioni sghembe dietro la porta e con primi piani sul terzino che facevano tanto televisione di qualità.

E io ancora me lo ricordo quel maledetto undici, un numero maledetto come il cinque e mezzo per i liceali o il ventinove per gli universitari, un sogno svanito in pochi  attimi: il mio tredici che resisteva sino a pochi minuti allo scadere, poi due gol che ti facevano crollare dal mito del successo alla mediocrità di uno dei tanti che non ce la fa. Erano di solito le partite minori a rovinarti la festa, un pareggio casalingo della Triestina o peggio ancora una vittoria inattesa del Campobasso in C2 (e no, all’epoca la C2 non era una utilitaria francese). Non ricordo quanti undici ho collezionato, non tantissimi direi, ma abbastanza da farmi ancora ricordare la delusione.

Delusioni o gioie che derivavano dal nostro scandire il tempo tutti insieme, il dibattito la domenica sera dietro la parrocchia o ancora il lunedì mattina sull’autobus che ci portava a scuola. Perché noi non avevamo il supporto della tecnologia, ma eravamo parecchio social, eccome se lo eravamo.

Io certi proprio non li capisco

Io non capisco quelli che gridano “andate a zappare” e pubblicano sghignazzando il fotomontaggio di Balotelli in campagna, e non quello del leghista Marchisio che ci ha fatto perdere la partita ma è biondo con gli occhi azzurri.
Io non capisco quelli che digrignano i denti urlando “Ma perché non corrono quei brocchi, non è poi così caldo!” e nel farlo un miscuglio di patatine fritte, birra e maionese gli rotola dalla bocca e va a macchiare il divano.
Io non capisco quelli che dicono che non c’era un italiano tra le quattro semifinaliste di Champions League, e non si accorgono che anche tra le quattro semifinaliste di Coppa Italia i connazionali si contavano sulle dita di una mano.
Io non capisco quelli che dichiarano “Meno male che hanno perso, adesso finalmente torneremo a parlare di cose importanti. Ma davvero Melanie Griffith ha lasciato Banderas?”
Io non capisco quelli che affermano “Ma leggetevi un libro invece di guardare i mondiali, bifolchi”. I mondiali ci sono una volta ogni quattro anni, e negli intervalli il tempo per leggere, per chi vuole, c’è.mondiali
Io non capisco quelli che pontificano su “ancora spendi soldi per il calcio, con la crisi che c’è?” e poi spendono 150 € per assistere ad un concerto di un di cui intravedono in lontananza le luci del palco (PS Io non ho Sky né Mediaset Premium, e gli unici soldi che spendo per il calcio sono quelli per pagare il campo di calcetto).
Io non capisco quelli che blaterano “i calciatori guadagnano troppo”, e poi lo sportivo che l’anno scorso ha guadagnato di più è un golfista, seguito da un tennista e due giocatori di basket. Gli sportivi di vertice, guadagnano troppo.È sempre un problema di distribuzione. Ma almeno loro guadagnano perché sono bravi e non perché sono nipoti dell’azionista di maggioranza.
Io non capisco quelli che bacchettano “si spendono troppi soldi per il calcio”, e dimenticano che costruire il nuovo Maracanà è costato meno che girare “Pirati dei Caraibi: Ai confini del mondo”. Eh, ma vuoi mettere Johnny Depp..

Io non capisco, ma evidentemente il problema è il mio che non mi applico abbastanza.

Tutti in campo, papà

Campo di calcioIl giovane papà generalmente fatica a trovare spazi adeguati alla attività sportiva, e non mi riferisco soltanto alla cyclette nascosta dietro l’armadio o al tappettino per gli addominali riposto in cantina. Ciò nonostante sa fare tesoro di quanto appreso negli anni felici in cui non aveva idea di quante taglie diverse di pannolini esistono in commercio. Vediamo una rapida rassegna di questi saperi da riscoprire all’occorrenza:

  • Marcamento a uomo. Oggettivamente, questo è il più scontato. Il figlioletto lo devi marcare come il più temibile dei fantasisti, quello che approfitta di un momento di distrazione per ridicolizzarti davanti alla squadra. Fuor di metafora, questo stile di gioco prevede di non perdere mai il contatto fisico con il piccolo, intervenendo spesso per frenarne le idee potenzialmente distruttive, mortificarne l’inventiva in termini di nuovi pericoli da sperimentare, far sentire di tanto in tanto i tacchetti tanto per ricordargli che lo stopper è lì e non lo molla.
  • Marcamento a zona Il problema del marcamento a uomo, Ça va sans dire, è che va in crisi quando i figli sono due. Allora si passa alla zona, che però richiede freschezza atletica e riflessi allenati. In questi casi per il difensore non c’è un attimo di pace, i suoi muscoli tesi devono scattare al primo segnale: mentre si impedisce ad una figlia di ingoiare un sassolino bisogna essere pronti a slanciarsi verso l’altra che prova fino a quanto può reggere l’altalena. In questo caso, il divide et impera di tradizione romana non vale: al contrario, i figli devono stare il più vicino possibili per ridurre la zona in cui il papà deve rimbalazare come uno yo-yo in mano ad un parkinsoniano sulle molle elastiche. Fa sempre comodo, in ogni caso, intervenire con la classica diagonale: intervento trasversale con il quale contemporaneamente si infila una figlia nel passeggino e, in scioltezza, si va a impedire all’altra di infilarsi un bastoncino in un occhio buttandolo in rimessa laterale, ehm, pardon, buttandolo lontano.
  • Scivolamento Lo scivolamento è quel movimento laterale con cui, nel basket, il difensore taglia la strada all’avversario frapponendosi tra lui e l’obiettivo. Avete mai visto i giocatori di pallacanestro muoversi come le Bangles in “Walk Like an Egyptian”?  L’idea è quello. Lo scivolamento è ottimo per bloccare l’accesso alla porta di casa, verso cui il figlioletto è sempre pronto alla fuga, ma anche per impedire l’accesso al computer portatile incautamente lasciato incustodito sul divano o più semplicemente per difendere l’ultimo lecca-lecca dalle mire della prole. Da non confondere lo scivolamento, che è un lavoro strategico metodico e lungo, con il tagliafuori, che invece è impulsivo, legato a fattori contingenti, tattico. Il tagliafuori è quella zampata con cui blocchi all’ultimo momento l’accesso al balcone, visto che sta diluviando, oppure fermi sul nascere una rissa tra la piccola e la bimba che le contende lo scivolo che c’ha il papà che scarica i camion al mercato ortofrutticolo (non scarica la merce dal camion, scarica direttamente i camion, reggendoli in spalla).
  • Palla accompagnata Nella palla a volo si accompagna la palla quando anziché indirizzarla con un colpo secco la si sposta con la mano aperta, come succede nella palla a nuoto. Si tratta insomma di un colpo illegale, ma che se funziona dà risultati sicuri: sono parenti vicini i passi nella pallacanestro, il fallo di mano nel calcio. Uno ci prova, se va bene è un punto sicuro, se non va certo non si rischia l’esplusione. Il giovane papà ricorre continuamente a questi falli tattici. Quando per esempio sostiene di non avere i soldi per lo zucchero filato, anche se ha appena prelevato dal bancomat. Quando dice di non trovare il dvd di “Barbie la principessa e la povera” che ha rivisto 15 volte (senza peraltro aver mai capito come diavolo va a finire perché le figlie si addormentano e si stancano prima e lui si vergogna di vederlo da solo). Non abbiate remore di questi innocui interventi ai limiti del regolamento. Le mamme sono molto più audaci nell’infrangere le regole, come quando comprono l’ennesimo pacchetto di figurine ma poi “non dirlo a quel taccagno di papà”, oppure quando strizzano l’occhiolino alle piccole alle quali hanno comprato un completo che costa da solo più di quanto il papà abbia speso per vestirsi negli ultimi cinque anni, tanto a quel tontolone racconteremo che era in saldo. Altro che fallo di mano: le mamme segnano usando tutte e due le mani per spingere il pallone in porta, e se l’arbitro fischia lo espellono e lo sostituiscono con uno compiacente.

Coraggio, giovani papà, per ora può bastare. Se permettete, vado a vedere come finisce “Barbie la principessa e la povera”.

Il calcio è uno scontro cuore a cuore (cartoni animati giapponesi…)

Immagine tratta dal sito www.raigulp.rai.it. Tutti i diritti del proprietario
Immagine tratta dal sito www.raigulp.rai.it. Tutti i diritti del proprietario

Appartenete a quella generazione che si domandava come mai i campi di calcio di Holly e Benji fossero così lunghi da risentire della curvatura del pianeta? Vi siete mai chiesti dov’è che trasmettono partite di bambini in mondovisione, con tanto di pubblico e commentatore? Avete provato almeno una volta ad arrampicarvi sulla traversa per poi segnare in rovesciata?
Cari miei, la nostra generazione, profondamente turbata dalle evoluzioni dei giovani campioni del mondo giapponesi (Il Giappone campione del mondo? Ma di che? Di Sudoku estremo?) è superata.

Stamattina, mentre facevo colazione, sono stato letteralmente folgorato da un cartone animato trasmesso da Rai Gulp, che stava seguendo mia figlia: Inazuma Eleven.
All’inizio ci sono i soliti ragazzini variopinti che giocano in un campetto di periferia. Niente spalti gremiti, niente commentatori, sono quasi stupito da questa scena neorealista. Unica eccezione in nome della parità tra i sessi, stavolta giocano anche bambine, e giocano anche piuttosto bene: non è per fare il solito maschilista, ma già questa scelta mi sembra inverosimile.

Improvvisamente, da dietro l’angolo, appaiono un campione argentino, uno brasiliano, uno italiano (mi pare si chiami Paolo Bianchi, almeno nell’adattamento italiano) che chiedono di aggregarsi al gruppo. Che so, avranno preso un volo low-cost, tempo di fare un salto al campetto in Giappone, per l’ora di cena saranno di nuovo a casa. Con lo Shuttle. Ma insomma, siamo ancora a livelli più che accettabili per un cartone giapponese (non dimentichiamo che Mazinga Z usciva da una piscina le cui acque si aprivano in due che manco Mosè, alla faccia dei vasi comunicanti).
Comincia la partitella, e capisco subito che no, non ci siamo. Il portiere infatti non para. Grida “Scudo di energia evoluzione 1”,  diventa paonazzo, una specie di raggio alla Jeeg Robot d’acciaio genera una calotta che respinge il pallone.

Sticacchi. Altro che respinta di pugno, solo mi domando se gli spettatori di Sky accetterebbero di essere accecati tutte le volte che il portiere fa sta mossa.
Ma il bello deve ancora venire.
Due amichette del gruppo, che avevano scioccamente accettato due braccialetti da due vecchi capelloni (il vecchio capellone è una delle cifre espressive del cartone giapponese, evidentemente non conoscono allopecia da quelle parti), vengono infatti rapite via da un fulmine. La spiegazione è ovvia. Sono state rapite da due popolazioni di extraterrestri che abitano su una montagna lì vicino. Talmente vicino che i nostri eroi la raggiungono a piedi in cinque minuti (non c’è nemmeno bisogno dell’autobus).  Se solo il povero Giacobbo avesse saputo che gli extraterrestri abitano nella prima periferia di Tokio, e per raggiungerli basta una scampagnata!
Tralasciamo la parte ovvia che non ci sono genitori, né forze di polizia, e che ovviamente anche questi extraterrestri sono tutti bambini di scuola media. Tralasciamo il fatto che abbiano rapito le due ragazzine per sacrificarle e placare un demone, anche questo è ovvio. Il bello deve ancora venire. Come si decide la sorte delle due fanciulle? Ma con una partita a calcio, ovviamente. Anche gli extraterrestri (ma mi pare che nella versione originale fossero angeli e diavoli: la traduzione italiana ha scelto una versione che non irritasse il Vaticano; Voyager indagherà) infatti amano questo sport.
La partita neanche ve la racconto. Tutto un susseguirsi di “Zona Micidiale”, “Tornado di fuoco”, “Torre inespugnabile”. Insomma una specie di incantesimi a metà strada tra Harry Potter e Goldrake.
Il campo degli angeli è in ottime condizioni, erba verde e cielo azzurro, tre spettatori in croce, ma i nostri vincono, grazie anche al gol dello straniero Paolo Bianchi (e vai!). La fanciulla è salva. Ora tocca andare a salvare l’altra sconfiggendo i demoni, e non è difficile pronosticare un’altra vittoria. Temo che me la perderò.
Ho nostalgia di Holly e Benji.
Chiudo con un paio di citazioni che vorrei voi tutti appuntaste sulle vostre agende:
“Le mie gambe desiderano solo questo: correre per salvarti”.
“Il calcio non è solo questione di tecnica. Il calcio è uno scontro cuore a cuore”

No, anche il derby no

Io non lo so cos’è che spinge noi tifosi di calcio a continuare a soffrire, gioire, cantare, esultare e deprimerci per 22 giovanotti in mutandoni che rincorrono un pallone. Soprattutto dopo che ci siamo resi che spesso quei giovanotti buttano al vento milioni di euro, sono pessimi esempi dal punto di vista umano ma soprattutto sportivo, non hanno nessun attaccamento ai colori che indossano ma solo quello ad un contratto e alle remunerazioni collegate.

Ma tant’è, sono professionisti, se uno vuole la passione va a seguire i campionati di dilettanti dove odontotecnici e ragionieri se le suonano di santa ragione la domenica pomeriggio solo per il gusto di rincorrerre un pallone. Però un professionista è lautamente pagato per vincere, o almeno provarci. Non può chiedere 250 mila euro per fare gol nella propria porta, è qualcosa di intollerabile, impensabile, al di là di ogni soglia di ribrezzo. In un derby, poi! Secondo le ingagini della magistratura alcuni giocatori del Bari si sarebbero venduti per far vincere il Lecce. Si tratta di una profanazione indicibile, impensabile, come imbrattare con lo spray il Cenacolo di Leonardo o far squillare il cellulare alla prima della Scala e parlare ad alta voce con il cugino che chiede un consiglio sull’automobile usata da acquistare.

Non si fa, punto, non è immaginabile. E se pure come tifoso del Taranto potete immaginare quanta simpatia provi per il Bari (in Puglia tutti odiano il Bari tranne i baresi: quelli di città, perché spesso lo odiano pure quelli della provincia), in questo momento mi sento vicino agli amici baresi che sanno che la loro squadra si è venduta un derby.
Ci vorrà un bel po’ per smacchiare il Cenacolo da una traccia del genere, sempre che poi ne valga la pena: sospetto che ci siano altre centinaia di giocatori con lo spray in mano pronti a vendersi al miglior offerente.
Quasi quasi me ne vado a vedere ragionieri e odontotecnici nei campetti di periferia. Anzi, vado a giocare con loro, e al limite ci scommettiamo la pizza e la birra a fine partita.