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La terza opzione: non so, non rispondo

cavalloUna volta nei sondaggi si proponeva sempre una terza opzione per l’interlocutore in difficoltà: non sa, non risponde. Oggi i sondaggisti si sono fatti più furbi e aggirano il rischio di zone grigie di incerti, tramite domande più o meno indirizzate.

Ebbene, io credo che sia arrivato il momento di riscoprirla, quella terza opzione. Perché non solo non possiamo avere una risposta per tutto, ma non possiamo avere una opinione per tutto. Per carità, il diritto di rivendicare una opinione è fondamentale, ma a patto di avere gli elementi minimi per formarsela. Cosa ne penso della guerra in Siria? Non lo so, ci sono troppi attori in campo, troppi dati di cui non dispongo, troppe variabili che mi sfuggono. Non ho una opinione, bisogna che ce l’abbiano i politologi che studiano relazioni internazionali, bisogna che ce l’abbiano i politici che occupano posizioni di vertici. Cosa ne penso dello scandalo della Volkswagen e delle emissioni truccate? Non lo so, mi sono fatto un’idea leggendo i giornali, ma ho anche l’impressione che si tratti di un attacco al diesel (tecnologia europea in crescita) piuttosto che ai tedeschi, ma è un’impressione tutto qui. Rivendico il diritto di non avere una opinione.

Su altro, caspita se ce l’ho: ce l’ho sulla politica interna del governo, ma è perché come funzionario pubblico devo studiarmi un bel po’ di leggi, non perché sia particolarmente brillante; ce l’ho sulla difesa del Taranto che così non può reggere, ma è perché bisogna essere ciechi per non vedere che gli juniores non reggono la pressione. Vabbè lasciamo stare l’ultimo esempio.

In quale epoca avresti voluto vivere? Non lo so. Dovrei studiare per rispondere, per analizzare pro e contro di ogni contesto storico e confrontarlo con le mie attitudini. Non posso dire che mi piacerebbe il medioevo perché amo i castelli, o che vorrei essere un romano perché le loro tuniche larghe snelliscono anche i più fuori forma. Ci vuole ben altro per rispondere. Abbiate il coraggio della terza opzione. Soprattutto se salite sulla ribalta pubblica, televisiva o web, per motivazioni non legate alla vostra professione. Se siete una miss, vi è richiesto di avere chiappe sode e un bel sorrisino (e basta ipocrisie, è così), non di conoscere la storia. Se siete un calciatore, è il tocco di palla e la visione di gioco che contano: se vi chiedono cosa ne pensate della politica estera, cacchio, usate la terza opzione: non sa, non risponde.
Come diceva Confucio – credo – meglio stare zitti e dare l’impressione di essere stupidi, che parlare e togliere ogni dubbio.

Benvenuti a Pugliawood

Foto tratta da http://www.tuttosporttaranto.com/

La definizione azzeccata l’ha data il mensile Ciak, parlando appunto di Pugliawood in riferimento al fatto che la regione da alcuni anni è cornice di numerosi film italiani e stranieri che hanno riscoperto un territorio colpevolmente trascurato dal mondo dello spettacolo. E attenzione, non si parla soltanto di film intrinsecamente “pugliesi”, come per esempio quelli di Sergio Rubini o Eduardo WInspeare, o di commedie che ricalcano alcuni cliché resi popolari negli anni settanta da Lino Banfi (si pensi a Checco Zalone o al recente e sottovalutato “Non me lo dire” di Uccio De Santis). La Puglia diventa set cinematografico anche per pellicole la cui storia con la Puglia non c’entra niente, come nel caso de “La vita facile” con Favino, Accorsi e Vittoria Puccini. L’ambientazione è africana, ma se guardandolo avete subito il fascino del continente nero, sappiate che è girato in Salento.
Come si spiega tutto ciò, negli stessi anni in cui si parla di smantellare Cinecittà? Semplice. La politica ogni tanto fa qualcosa di giusto. E la politica in Puglia ha dapprima istituito, per legge (6/2004) una Film Commission, cioè una struttura che si occupa di promuovere il territorio agevolando chi voglia girarci dei film. Attenzione, la legge fu approvata sotto la presidenza Fitto, anche se poi è stato Vendola a credere in questo progetto e attuarlo. A dimostrazione che le buone idee non sono necessariamente di una parte politica. La film commission costa, per carità, perché oltre a fornire supporto logistico e consulenza, la legge garantisce degli sconti fiscali e altre agevolazioni: si parla di più di un milione di finanziamenti dal 2007, ma se fosse possibile calcolare esattamente il ritorno economico per il turismo, il lavoro (perché le troupe hanno bisogno di sostegno di operatori locali) si scoprirebbe senz’altro che sono soldi ben spesi. Anche perché per ricevere i finanziamenti bisogna dimostrare di aver speso sul territorio dal 150 al 300% di quanto ricevuto.
Ebbene, anche la mia amata e sfortunata Taranto è finalmente coinvolta da questo progetto (va bene lu sole lu mare e lu viento, ma vi assicuro che la Puglia è bella non solo a Lecce). E si tratta sul serio di Hollywood. Il film si chiama “Third person” , è una produzione internazionale diretta dal premio Oscar Paul Haggis e alcune scene sono girate nella città vecchia di Taranto e addirittura – pare – nella mia Statte. Tra i protagonisti, Liam Neeson e Adrien Brody.

Ci sono tanti modi per investire in comunicazione. Si possono finanziare gli artisti che hanno qualcosa da raccontare. Oppure si può organizzare un’agenzia che riprende giorno e notte il presidente della Provincia di Firenze, che racconta quello che pensa il presidente della Provincia di Firenze, che fa vedere quanto è figo il presidente della Provincia di Firenze. Nessun riferimento a fatti, persone o primarie, per carità, anche perché nel frattempo quel presidente è diventato sindaco di Firenze e pare che il suo prossimo obiettivo sia trasformare l’agenzia in un ministero che riprende giorno e notte il presidente del consiglio, che racconta quello che pensa il presidente del consiglio, che fa vedere quanto è figo il presidente del consiglio.

Taranto deve morire?

Dopo l’ultima accelerata tra le colline delle murge il treno aveva ormai intrapreso un’andatura più rilassata, con quel tipico “dlon dlon” delle ruote che stridono sulle rotaie che sembrano più vicine perchè si va più lenti. Un uomo sulla quarantina si alzò dallo scompartimento, si mosse incerto nel corridoio, andò verso un finestrino e lo aprì sorridendo. Una vampata di cattivi odori, mefitici, così disgustosi da chiudere la bocca dello stomaco invase il vagone.
L’uomo richiuse il finestrino soddisfatto e ritornò al suo posto con il sorriso sulle labbra, mentre il treno attraversava la stazione di “Cagioni”. Lanciò uno sguardo verso un altro viaggiatore che lo osservava interrogativo, e spiegò: “Quando sento questa puzza vomitevole, so di essere tornato a casa”.

Il rapporto tra Taranto e l’industria può essere sintetizzata da questa scenetta, cui ho assistito anni fa. Non si tratta solo di Ilva, perché anche il porto, la Cementir e la raffineria Eni non è che producano profumo di viole, però è chiaro che il siderurgico, grande due volte la città, fa la parte del leone.

I dati sono impressionanti e non voglio riportarli qui, migliaia di morti riconducibili all’inquinamento, decine di aziende agricole o legate all’allevamento costrette a chiudere per la presenza della diossina nei loro prodotti, allevamento dei mitili – uno dei gioielli di Taranto – in ginocchio, visto che un paio d’anni le cozze non sono più commestibili per la presenza di PBC velenosi, il turismo frenato dalla presenza di spiaggie meravigliose ma in tratti di costa non più balneabile.

Tutto ciò per i tarantini non è una novità. C’è un disegno geopolitico che risale agli anni cinquanta che vuole legare Taranto indissolubilmente al siderurgico e al porto militare, evitando qualunque altro tipo di attività che possa disturbare i manovratori di Roma. Questo perché l’acciaio serve, alle industrie settentrionali, che però rifiutano la puzza, e serve anche un porto militare pronto all’uso nel mediterraneo, di fronte al medioriente “bollente”.

Clini, il ministro per l’inquinamento ambientale, nel 2000 diceva ““La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Peccato si riferisse a Genova. Chi se ne frega di Taranto, Taranto deve morire, sacrificato sull’altare della produzione nazionale.

Si calcola che in vent’anni siano più di  centomila i giovani e meno giovani che hanno lasciato la città cercando fortuna altrove. Dieci volte il numero di quelli che invece sono rimasti a lavorare nell’indotto dell’Ilva. Solo che di loro apparentemente interessa poco, così come interessa poco degli allevatori, dei contadini, dei miticoltori, dei malati oncologici.

L’azione della magistratura di questi giorni rappresenta una novità perché, per la prima volta da sessant’anni, dice che i tarantini sono cittadini come gli altri italiani. Non sono cittadini di serie B (magari: la squadra avrebbe conquistato la promozione ma poi è stata cacciata in serie D, ma questa è un’altra storia). Hanno diritto a industrie – siderurgiche, anche – che rispettino i vincoli ambientali e non semino morte, come in Corea, in Germania, Belgio.

La soluzione sembra ovvia, per una volta darebbe ragione persino al cerchiobottismo di Nichi Pendola (con i lavoratori ma anche con i padroni, con l’ambiente ma anche con la diossina, con la sinistra ma anche con la destra): i Riva sistemano il siderurgico e tutto torna a posto.

Io temo non sia così semplice. I Riva non sono “cattivi” che vogliono inquinare. Anche perché l’Ilva inquinava ugualmente, e forse di più, quando era pubblico. I Riva sono capitalisti e vogliono fare profitti, come chiunque si muove in questo mercato, e il mio timore è che se si dovesse rivelare vero che hanno corrotto politici e funzionari a destra e sinistra, spendendo un sacco di soldi, anziché mettere a norma lo stabilimento, è perché corrompere costa tanto, ma mettere a norma costa di più.

Il mio timore è che ripulire Taranto costi talmente tanto che i Riva cerchino solo un’occasione per liberarsene, e magari aprire in Cina o Brasile, dove ci sono più spazi da inquinare e una magistratura meno “invadente”. Si tratta di un timore, spero di essere smentito. Anche se mi domando se, con tutti quei milioni di euro per l’Ilva, non si potrebbero investire progetti per reimpiegare gli operai e dar loro un lavoro in altri settori. Chissà.

Intanto però l’Abramo tarantino ha condotto suo figlio Isacco sull’altare e si prepara a sacrificarlo. L’angelo grida di non farlo, che non è necessario, ma chi ascolta più gli angeli?
I ministri gridano più forte, e la puzza mefitica invade i vagoni.

No, anche il derby no

Io non lo so cos’è che spinge noi tifosi di calcio a continuare a soffrire, gioire, cantare, esultare e deprimerci per 22 giovanotti in mutandoni che rincorrono un pallone. Soprattutto dopo che ci siamo resi che spesso quei giovanotti buttano al vento milioni di euro, sono pessimi esempi dal punto di vista umano ma soprattutto sportivo, non hanno nessun attaccamento ai colori che indossano ma solo quello ad un contratto e alle remunerazioni collegate.

Ma tant’è, sono professionisti, se uno vuole la passione va a seguire i campionati di dilettanti dove odontotecnici e ragionieri se le suonano di santa ragione la domenica pomeriggio solo per il gusto di rincorrerre un pallone. Però un professionista è lautamente pagato per vincere, o almeno provarci. Non può chiedere 250 mila euro per fare gol nella propria porta, è qualcosa di intollerabile, impensabile, al di là di ogni soglia di ribrezzo. In un derby, poi! Secondo le ingagini della magistratura alcuni giocatori del Bari si sarebbero venduti per far vincere il Lecce. Si tratta di una profanazione indicibile, impensabile, come imbrattare con lo spray il Cenacolo di Leonardo o far squillare il cellulare alla prima della Scala e parlare ad alta voce con il cugino che chiede un consiglio sull’automobile usata da acquistare.

Non si fa, punto, non è immaginabile. E se pure come tifoso del Taranto potete immaginare quanta simpatia provi per il Bari (in Puglia tutti odiano il Bari tranne i baresi: quelli di città, perché spesso lo odiano pure quelli della provincia), in questo momento mi sento vicino agli amici baresi che sanno che la loro squadra si è venduta un derby.
Ci vorrà un bel po’ per smacchiare il Cenacolo da una traccia del genere, sempre che poi ne valga la pena: sospetto che ci siano altre centinaia di giocatori con lo spray in mano pronti a vendersi al miglior offerente.
Quasi quasi me ne vado a vedere ragionieri e odontotecnici nei campetti di periferia. Anzi, vado a giocare con loro, e al limite ci scommettiamo la pizza e la birra a fine partita.

Scommettiamo che…

La prima volta successe che avevo dieci anni, e da alcune immagini emerse che il Taranto, il mio Taranto, si era venduto una partita contro il Padova: tanto erano già retrocessi, tanto valeva arrotondare per le vacanze estive. Otto anni dopo (1993) ricordo di un’inchiesta per un’incredibile vittoria esterna del Taranto che si salvò all’ultima giornata dopo un’altra inattesa vittoria in casa contro il Pescara.
E c’ero in tribuna di fronte a quell’inutile 0-0 contro il Catania che ci impedì, nel giugno 2002, di ritornare in serie B, e anche di questa partita si parlò a lungo perché l’impressione che non tutti i giocatori del Taranto giocassero per vincere fu forte.
Ritorna il calcioscommesse, e noi ci finiamo come al solito dentro, per comprare o vendere partite poco cambia. Ovviamente sono ancora indagini per cui vale la pena aspettare prima di trarre le conclusioni, e magari osservare cosa fa la squadra in campo domani nella semifinale contro l’Atletico Roma.

Certo però che in certi momenti mi sento un personaggio di un feuilleton ottocentesco che si innamora di una donna di facili costumi, e per quanto si sforzi di convertirla, di farla sentire amata, di portarla sulla buona via, si ritrova continuamente tradito.

E come me le migliaia di tifosi “amanti del Taranto”. Speriamo che non ci faccia cornuti un’altra volta, ad essere mazziati siamo ormai abituati

Se non guardi vincono

(c) www.stabiachannel.it

E’ il sabato santo, c’è aria di bontà nell’aria, la primavera si affaccia invitante. Il giovane papà decide di rinunciare all’incontro televisivo JuveStabia -Taranto per portare fuori la figlia.
D’altronde quest’anno ha già assistito a partite di commovente bruttezza, autentici de prufundis per il gioco del calcio quali Andria-Taranto, Barletta-Taranto, Gela-Taranto Foligno-Taranto, partite talmente noiose da far apparire eccitante una televendita di bigiotteria. Incotri di calcio che sarebbe meglio seguire per radio, così almeno ti risparmi rl’inquadratura della gente che sbadiglia sulle tribune guardando l’orologio. Per cui in fondo il papà rinuncia a cuor leggero, a Castellammare, contro una squadra forte e in forma, il Taranto metterà in mostra il solito gioco inconcludente in grado di annoiare però anche l’avversario che stordito si accascia nel solito 0-0.
E invece? Invece il Taranto vince 3-0. In trasferta. Faccio notare che finora il Taranto aveva vinto in trasferta una sola volta, e con un solo gol di scarto (segnato a Lucca nei primi minuti prima della solita discesa nel ritmo catacombale). E invece di gol ne fa tre. Non che al giovane papà dispiaccia, per carità, l’importante è vincere. Ma dopo sette 0-0, proprio il giorno che esco dovevate svegliarvi?