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Per colpa di chi

Una delle mie preferite leggi di Murphy dice che chi sorride quando le cose vanno male ha già trovato qualcuno a cui dare la colpa. Si tratta di un motto universale che però è straordinariamente adatto al modo di pensare italiano. Per anni siamo stati divisi tra quelli per cui la colpa di ogni male era da imputare al capitalismo e al consumismo occidentale, e quelli per cui all’origine di tutti i problemi c’erano i comunisti, il materialismo e i sindacati.

Venuti meni questi capisaldi dell’italico scaricabarile, sono emersi nuovi capri espiatori: se il nord non produce più non è perché i nipoti degli imprenditori dilapidano le fatiche dei loro nonni in festini, orge e macchine di lusso, no, la colpa è dei meridionali che ci rubano il posto in fabbrica. Versione che poi si è evoluta nel più moderno “prima gli italiani“: prima mio figlio che si alza alle undici di mattina ogni giorno, non si è diplomato perché a scuola non lo capivano e spende 500 € al mese alle macchinette al bar, poi i profughi che parlano tre lingue e per salvarsi hanno attraversato il deserto e il mare, loro sì causa dei nostri problemi.

La fine delle ideologie ha prodotto però il moltiplicarsi dei fronti: ci sono quelli per cui la colpa di tutto è ascrivibile a chi mangia carne (dall’inquinamento atmosferico alla crisi in Libia, e forse anche i fallimenti recenti della nazionale sono colpa del prosciutto cotto), quelli per cui i credenti sono la tana in cui si annida ogni cattiveria, mentre gli atei sì che sono persone per bene (e in effetti un ateo che per il bene di tutti avrebbe voluto estirpare tutte le fedi religiose c’era, peccato secondo alcuni che l’abbiamo fermato nel 1945 prima che potesse completare l’opera).

Ci sono poi i leitmotiv immancabili, come quelli che “fattura o sconto?” con il suv dichiarato come macchinario agricolo per i quali sono i maledetti salariati a rovinare l’Italia, con le loro ferie e i loro giorni di malattia, i signori che dimenticano sistematicamente di dichiarare un conto corrente milionario (che distratto, sa, lo usiamo poco) o un reddito (sì è vero abbiamo tre appartamenti in affitto, ma è solo per non tenerli vuoti e far cambiare l’aria) e quando devono accedere a benefici pubblici la colpa è sempre dei maledetti burocrati e dei dipendenti fannulloni che ostacolano i loro piani.

Va bene, mi arrendo, la colpa è sua, è nostra, è mia. Vi fa stare meglio? Vi fa sorridere? Bene. Sorridete pure. Almeno così quando le cose vanno male saprò distinguervi dagli altri e potervi mandare a quel paese senza perdere tempo in inutili fasi istruttorie.

Into the wild

Mestiere da vendere e ottima fotografia per uno dei film più sopravvalutati della stagione.
Sean Penn illustra la storia vera di un giovane neolaureato che, complice una coppia di genitori con più di una colpa da farsi perdonare, parte in un lungo giro dell’America che da Atlanta lo porterà in Messico, poi a Los Angeles e infine in Alaska.
Paesaggi mozzafiato, voce narrante fuoricampo, facile lirismo per un film troppo lungo dove tutto si prevede con largo anticipo, anche la noia.
Il montaggio che alterna gli ultimi giorni con lunghi flashback del viaggio vorrebbe dare un po’ dio brio ad una struttura pachidermica troppo pesante per prendere mai il volo.

Vampiri a Bologna

Quando si prende una multa è normale essere incavolati. Qualche mese fa ne ho presa una per colpa del meccanico: l’accordo era che ritirasse la mia auto da un parcheggio ad una tal ora. Si è presentato con un quarto d’ora di ritardo, e in quei quindici minuti l’avvoltoio comunale si era già avventato sulla preda per azzannarlo a colpi di multa. Il meccanico si scusa, a me però non resta che pagare.
Ma qualche giorno fa i vampiri urbani si sono superati, nella loro razzia quotidiana dei soldi dei cittadini: ho infatti preso una multa per il più cretino dei divieti di sempre.
La mia auto era parcheggiata a meno di 5 metri dall’intersezione stradale, come recita il codice della strada.Era ad un paio di metri o giù di lì.
Dunque, quando si prende una multa ci si incavola. Ma quando si devono sborsare 74 euro perché, il sabato mattina, la macchina è, in una strada larga almeno 7-8 metri (e a senso unico!) parcheggiata a due metri dall’incrocio, allora ci si imbufalisce. E dire che questa giunta ha raggranellato, solo nel 2007, ben 46 milioni di euro! Si tratta di una cifra da paura.
Se vai a 120 all’ora in centro storico, cavolo, te la sei cercata. Se passi col rosso (a parte che a Bologna il giallo è una specie di flash anti-occhi rossi che ti avvisa che stai per essere fotografato) ti becchi la multa e stai zitto.
Ma se devo pagare 150 mila lire perché per colpa mia un Boeing 747 ha avuto difficoltà a svoltare (qualunque altro mezzo infatti l’avrà fatto senza problemi) allora caro amico vampiro urbano devo dirtelo: non è colpa tua perché lo so che i comuni mettono a bilancio preventivamente i soldi che vogliono riscuotere, e tu devi fatturare. Se quel giorno avevi raggranellato poco, hai deciso di infierire sulla mia auto.
Non è colpa tua.
Ma se tu dovessi venire colpito da una improvvisa stiticità che ti impedirà per giorni e giorni di completare regolarmente il ciclo digestivo e arriverai a gonfiarti come un pallone verde e borchiato tra lo stupore e l’incredulità dei luminari riuniti a studiare il tuo caso, per poi esplodere nel più lungo e ininterrotto flusso di diarrea che mai l’occidente industrializzato abbia mai conosciuto, credimi: non è colpa mia.

W il download legale

Poi dice che uno scarica illegalmente.
Non voglio neanche aprire l’argomento diritto d’autore, anche se dovremmo chiamarlo diritto di sfruttatore
perché i legislatori, più che tutelare gli artisti, sono ossessionati dalla tutela per gli editori (e non è la stessa cosa). Però voglio raccontare che ho provato ad acquistare un paio di canzoni in mp3 dal portale di Mediaworld: in fondo, un euro a canzone circa mi pare un prezzo ragionevole. Meno ragionevole è che dopo il download il computer vada in crash (scusate l’anglismo, mi correggo: si pianta), i tre file mp3 scaricati non ne vogliano sapere di suonare perché un messaggio sui DRM (i sistemi di controllo sui diritti digitali) mi dice che sono protetti, ed io non abbia alcun modo di ascoltare la musica che ho pagato.
Magari è stato un caso sfortunato, magari è stata colpa del mio computer, magari sono l’unico a cui è successo ma così non va.
Questi orpelli – e penso anche ai cd originali che per fortuna la Sony ha smesso di produrre e che non funzionavano su alcuni supporti – dovrebbero ostacolare i pirati, e invece ostacolano i fruitori onesti. Per cui il fessacchiotto che ha pagato il suo euro per la canzone non può ascoltarla in autoradio o su un altro computer, il furbo che s’è scaricato tutta la discografia di quell’autore può distribuirla ai parenti con gli omaggi della casa.
Ma siamo uomini, o caporali?

La tigre e la neve

Benigni ricalca i terreni fertili della malinconica comicità (o della comica malinconia) già sperimentati con la Vita è bella, e lo fa senza rischiare molto. In alcune scene (memorabile quella del campo di mine antiuomo) c’è il suo talento di mimo straordinario che ricorda i migliori momenti di Johnny Stecchino; in altre (il viaggio in moto e in cammello) c’è quel suo straniamento, quel rapporto con le cose fanciullesco, angelico e diabolico al tempo stesso che rece celebre il Piccolo Diavolo; il altre ancora (la lezione universitaria) si riscopre il Benigni delle ultime fatiche dantesche, quello che coniuga la poesia con la barzelletta. Purtroppo manca completamente la cattiveria del primo Benigni di Berliguer ti voglio bene e il surrealismo di Tu mi Turbi, che avrebbero fatto comodo frenando quel buonismo che ogni tanto emerge fastidioso. E dunque? E dunque siamo di fronte ad un ottimo film, diligentemente costruito, prodotto con cura, con buoni personaggi di sfondo (il collega, le figlie, il medico iracheno) ma siamo lontani dal capolavoro, purtroppo. Intanto la regia è latitante, ma questa non è una novità, purtroppo, per Benigni. Il personaggio di Jean Reno è abbozzato, sospeso, tratteggiato un po’ grossolanamente; ma quello che risulta veramente devastante, insopportabile, pesante, noioso, fuori luogo, insostenibile, inammissibile, irritante, sgradevole e indisponente è il ruolo di Nicoletta Braschi. Mi dispiace dirlo ma le uniche scene in cui recita bene è quando il suo personaggio è in coma; d’altronde anche quando è sveglia l’espressione è identica. Fino a quando dovremo sopportare la presenza della Braschi nei film di Nenigni? Non se ne può proprio fare a meno? ? atona, inespressiva, piatta, spenta, smorta, inefficace, scialba. Non credo la colpa sia solo sua: l’ho vista recitare in altri film senza il marito dove raggiungeva almeno la sufficienza. Ma qui è completamente fuori ruolo, è diretta male, sa di finto, artificioso. Credo non sia un caso che il momento migliore della Vita è bella sia la seconda parte, quando lei scompare. Anche qui, il film funziona nella seconda parte, quando lei sta stesa immobile sul lettino. Quando si riprende, purtroppo è lo spettatore che soffre.
Forse dovremmo organizzare una petizione: 100, 200 mila firme per convincere Benigni a farsi dirigere da un professionista (anche un giovane aiuto regista di buone speranze, anche un mestierante televisivo, ma un regista vero) e per espellere per sempre dai suoi film la Braschi. Basta. Siamo contenti che tuo marito ti voglia bene, passa insieme a lui tutto il tempo che vuoi, sostienilo e accompagnalo, produci pure il film. Ma quando si tratta di recitare, per piacere, lascia spazio ad una che lo sappia fare…

Le radici del terrore

C’è un odore di morte che si diffonde nell’aria in una lunga scia che si propaga da Londra all’Iraq e attraversa il vecchio continente. Il self-control inglese, siamo tutti londinesi, attacchiamo l’Egitto, è colpa dell’euro. Come sempre il vociare dopo una tragedia diventa un insostenibile miscuglio di ignoranza e impulsività. Credo che le vittime di questa ennesima sciagura meritino un silenzioso rispetto. Dopo di che, faccio due sole riflessioni: l’effetto più evidente di questa tragedia è che nessuno più, dopo la grande attesa suscitata dal Live8, parla più dell’avidità e della scarsa lungimiranza dei G8, che non sembrano interessati ad affrontare il problema della povertà se non con le solite insulse proposte di intenti. La seconda riflessione riguarda la campagna che in questi giorni le amministrazioni pubbliche stanno facendo contro la zanzara tigre. Ci spiegano che certo si possono usare zanzariere, pomate, rimedi caserecci, ddt: ma occorre soprattutto evitare che l’acqua ristagni e che l’ambiente sia sporco perché è lì che le zanzare si riproducono. Ai signori dei G8 vorrei suggerire che metaforicamente possiamo alzare nuove inutili zanzariere e ricoprirci di pomate: ma non servirà a nulla finché ci ostineremo a non vedere non l’acqua stagnante ma l’immensa palude che si estende dalla favelas dell’America Latina ai villaggi subsahariani, dalle steppe della Mongolia alle periferie mediorientali. Se non facciamo nulla per migliorare quegli ambienti, le zanzare continueranno ad aumentare e ad uccidere innocenti..