In questi giorni si sente continuamente dire dai politici che "non metteranno le mani in tasca agli italiani".
A parte il fatto che, come dicevano i latini, excusatio non petita accusatio manifesta.
Ma la verità è che davvero i governanti non ci metteranno le mani in tasca:perché lì cosa vuoi trovarci? Le chiavi di casa, gli spiccioli per il parcheggio, i fazzoletti?
C’è bisogno di ben altro. Le mani ce le metteranno in banca, per chi ha il conto corrente, o in posta, o in busta (paga). Insomma, è arrivato il momento di aggiornare il linguaggio figurato, di rassegnarci: fra un po’ non potranno piùmetterci le mani in tasca semplicemente perché le mutande non hanno le tasche.
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Spreconi
Periodicamente ci capita di fare acquisti più o meno ecologici, piùo meno intelligenti che servano a farci sentire a posto con la coscienza.
La carta riciclata, il sacchetto biodegradabile. Però sono scuse, perchéla verità è che continuiamo a essere immersi in un mondo basato su uno spreco. Un utilitaria di dieci anni, non importa se ancora perfettamente funzionante, non è assicurabile per un valore superiore ai 1000 euro.
E se si ammacca il paraurti, il carrozziere per cambiartelo ti chiede 800 euro. Per un auto che nominalmente ne vale 1000. Dove sia il trucco non lo so, il risultato è che quell’automobile, che a Cuba o nell’Africa equatoriale sarebbe un lusso, finisce ad ingrossare il mucchio di rottami di qualche discarica. E che dire delle batterie dei cellulari? Si scarica la batteria, si butta il cellulare.
E le cassette di birra, per le quali si rendevano i vuoti?
E i televisori? Io me lo ricordo ancora il tizio con la sua borsa nera da tecnico e i suoi schemi stampati fittissimi, che si nascondeva dietro il televisore, osservava,smontava, cambiava un pezzo e per magia tornava a farla funzionare. Pensate che oggi qualcosa del genere sarebbe possibile?
Siamo degli spreconi e anche se ci sforziamo di risultare solidali, equi non lo siamo per niente.
La città di cemento, di Roberto Valentini
L’immaginario italiano non è mai stato troppo affettuoso nei confronti dei giornalisti, e di consequenza nemmeno le sue declinazioni artistiche quali letteratura o cinema.
Raccomandati, infidi, presuntuosi, corrotti, i giornalisti italiani difficilmente sono rappresentati con intorno a sé quell’aura di eroi civili che invece caratterizza, per esempio, i reporter d’assalto statunitensi. Giusto o sbagliato che sia questo modo di trattare la categoria, Carlo Castelli, l’eroe protagonista dw "La città di cemento", sicuramente ci rende più simpatici gli operatori della carta stampata.
Dotato del fiuto del detective tipico dei protagonisti della letteratura mistery, ha anche l’idealismo di chi ha rinunciato alla carriera perché non disposto a compromessi e il coraggio di chi è pronto a mettersi in gioco pur di inseguire i percorsi della verità. Certo non è proprio un precario pagato a battute il nostro Castelli, ha una moto sportiva e beve vini di qualità, ma ciò nonostante il lettore non tarderà ad affezionarsi a lui soprattutto perché intorno a lui ci sono altri personaggi che contribuiscono, per contrasto, a delinearne il carattere: il collega con il quale scopre il potere di Internet e dei blog, il direttore del giornale ormai abituato a pensare più ai pubblicitari che ai lettori, i familiari che rimangono sullo sfondo ma la cui presenza è viva nelle scelte del protagonista.
Come per tutti i romanzi gialli non è il caso di raccontare la storia nei dettagli, diciamo solo che siamo a Sassuolo e che lo sfondo è quello degli investimenti immobiliari e delle abitazioni con finiture signorili che stanno invadendo l’Italia con effetti non sempre piacevoli. Mondo che l’autore descrive con la precisione e l’acutezza di chi sa di cosa sta parlando.
Nota di chisura: mangiare salsiccia e culatello costerà un po’più di fatica dopo aver letto questo romanzo…
Campioni del mondo in lagna
Ma può una squadra che si è fatta umiliare dagli olandesi ed è riuscita a portare a casa a fatica un pareggio con i romeni lamentarsi perché il regolamento la sfavorisce? No, non può. E poi, diciamo la verità, se anche questa squadra passa il turno ne prende tre o quattro anche ai quarti di finale. Tanto vale toglierci subito il dente e cercare per la nazionale un allenatore con un po’ più di curriculum e che sorride un po’ di più…
La fine dei giochi, di Luciano Vitali
Capita talvolta leggendo i romanzi di autori esordienti o magari i manoscritti che qualcuno ti propone per chiedere un parere di osservare come a fronte di un?estrema cura nei confronti dello stile, delle scelte lessicali, della parola se vogliamo ad effetto, della frase emblematica non corrisponde altrettanta attenzione nei confronti della struttura narrativa, della trama, del ritmo, dei pesi dei personaggi.
Volendo usare un termine caro alla narratologia, diremmo che c?è più cura alla fabula che all?intreccio, come se ci si trovasse di fronte a tante belle pagine a cui però manca un forte filo conduttore che le tenga assieme. Non è quello che capita a Luciano Vitali Roscini, autore di “Fine dei giochi”: neanche una parola è sprecata, non c?è spazio per i virtuosismi dell?autore e le digressioni filosofiche, qui c?è tanta sostanza, uno stile asciutto, concreto, netto. Tutto ha inizio con una notizia sconcertante, Bianco, un amico di Marco, si è tolto la vita in cella. Marco, che più che un criminale è uno sfaccendato che vive facendosi mantenere dalla madre, non ci sta, non riesce a credere che Bianco si sia tolto la vita, e decide di intraprendere una personale ricerca della verità, anche perché non crede nella volontà delle forze dell?ordine che anzi, sospetta stiano a guardare dietro una guerra di mala che sta facendo fuori molti criminali del Pilastro.
E così cominciano le indagini di cui non voglio svelare troppo, se non anticiparvi che il racconto si muove su due binari paralleli: le indagini di Marco, che avvengono nel presente storico della narrazione, e la vita di Bianco, che è ignota a noi ma anche a Marco stesso. Tra i due piani narrativi ci sono alcuni anni di differenza. L?espediente è molto efficace perché ci troviamo da un lato a scoprire alcuni dettagli insieme al protagonista, dall?altro ci sono alcuni aspetti di Bianco che noi conosciamo, perché il romanzo ce li ha resi evidenti, ma che Marco non conosce. Una via di mezzo insomma tra il giallo classico, quello alla Agata Christie insomma, in cui il finale si svela alla fine, e quello, un po? alla Derrick per intenderci, dove invece noi sappiamo già chi è il cattivo ma ci domandiamo quando e come lo scoprirà il protagonista.
Un?altra piacevole sorpresa è quella di trovarsi di fronte a personaggi che si fa fatica a inquadrare in categorie o prototipi. Il protagonista, Marco, con cui è facile che il lettore si identifichi, è animato da amicizia e lealtà, ma è anche un irresponsabile, un eterno adolescente, qualcuno direbbe un bamboccione. Bianco è un criminale bello e maledetto, però non esita a ricorrere all?omicidio per non perdere l?onorabilità e la fama nel branco; Alce e Negus ispirano simpatia, ma sono dei bestioni che trasudano violenza. Persino Remo, uno dei vecchi, dei capi della malavita, fa quasi tenerezza mentre scruta fuori dal suo negozio spaventato da una guerra che prima o poi lo coinvolgerà.
Unica speranza: le donne, quando non cedono anche loro al fascino del boss.
Non sprechiamo le parole
Io non ho un vitalizio garantito dall’istituzione che rappresento, per campare devo lavorare tutti i giorni. Non ho appartamenti regali e non posso permettermi di viaggiare tutto spesato sempre dalla stessa istituzione. E soprattutto, non pretendo di comandare senza essere stato eletto, di dettare l’agenda politica senza mai consultare gli altri, di imporre agli altri quel che è giusto e sbagliato, sulla base delle mie idee su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Tra me e il cardinale Ruini (nomen omen!) c’è in comune una sola cosa: siamo tutti e due figli di Dio (la cosa lo irriterà, ma fino a prova a contraria è così, e lo siete anche voi che state leggendo).
Io sono un povero peccatore pieno di difetti, però il secondo comandamento lo rispetto, e non nomino continuamente il nome del Signore invano a talk-show, conferenze, interviste e dibattiti, dando l’impressione di cercare più spazio ad un ego esuberante che di evangelizzare.
La fede non è una televendita, cardinale: ha fatto cadere un governo e si gode la vittoria. Ma se vuole governare lei, si candidi e accetti le regole della democrazia. Senza nominarlo invano, che francamente noi altri piccoli, insignificanti fratelli non ne possiamo più…
Matteo 6, 5-7
"Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate."