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Un sorriso impassibile

Quando, finalmente, decisi di uscire dal bagno, la maniglia mi rimase in mano. Provai a spingere la porta e non fu un’idea brillante perché si apriva verso l’interno. Provai a tirarla verso di me, ma non c’erano appigli che mi permettessero di sbloccarla. Guardai l’orologio. Gridare sarebbe stato inutile, mi avrebbe inchiodato alle mie responsabilità.

Nella vasca da bagno, la signora Assunta De Santis mi rivolgeva quel sorrisetto impassibile a cui ero abituato. La valigia con gli accessori che avevo con me non sarebbe stata d’aiuto. Provai a fare leva con un pettine, senza successo. Il telefono, come avevo fatto a non pensarci prima? Osvaldo sarebbe corso in mio aiuto. Cercai nelle tasche, sul lavandino, niente. Dovevo averlo lasciato nell’altra stanza.

Ci avevo messo troppo tempo, il perfezionismo era un mio limite, il dottor Schiattarelli me lo diceva sempre. D’altronde se non fosse stato per quella maniglia… Già immaginavo la faccia del commissario Esposito, i suoi occhi sgranati, il sottile strato di bava che colava dalla bocca. Nell’altra stanza il mio telefono squillò. Forse Osvaldo non era poi così scemo. Nel dubbio, mi affacciai alla finestra. Eravamo al terzo piano. La strada era deserta. Avrei potuto legare gli asciugamani e formare una corda… La signora Assunta non mosse un dito per aiutarmi. Però ebbi l’impressione che reputasse poco plausibile quella via di fuga.

Dov’era Osvaldo? Se solo avessi avuto una pinza, un gancio, qualcosa per forzare la porta. I miei occhi tornarono su Assunta, sulla sua oscena nudità. Era una idea disperata, ma chissà.

Stavo armeggiando nel tentativo di liberarmi, quando avvertì un rumore.

– Osvaldo!
– Vittorio! Cosa fai con una dentiera in mano?
– Lascia stare. Il cadavere è pulito e profumato, adesso rimetto a posto il sorriso e tu e gli altri la mettete sul tavolo del laboratorio e la vestite. Il completo e gli accessori sono sulla sedia. In fretta, per Dio.

Il commissario sarebbe stato presto nella camera ardente, l’avrei chiamato per rassicurarlo: le pompe funebri Schiattarelli non erano mai in ritardo. E per fortuna che con il sorriso della pace eterna ben serrato, nessuno avrebbe contato i denti rimasti alla signora.

Un urlo nel buio

Di là del muro, nella stanza buia, l’uomo legato sta urlando. Faccio un bel sorriso. Uno di quelli che mi stampa in fronte “Te l’avevo detto io” come le insegne lampeggianti di certi locali di periferia.

È lui il capo. Il padrone. È lui che firma i contratti e incassa. Mi tocca pagare una stupida femmina che sgrassa i macchinari e ripulisce gli arnesi, si è lamentato con il commercialista quando ha dovuto regolarizzare la mia posizione. Senza i documenti in regola non avrebbe più vinto un appalto pubblico. Però pretende che gli restituisca un terzo dello stipendio che mi liquida. In contanti: se mi lamento, ha già la mia lettera di dimissioni firmata.

Ci metto cinque minuti, aspettami su, mi ha ordinato mentre si calava. Di tempo ne è servito molto di più, la sua torcia si è scaricata. Adesso è al buio e sbraita.

Gli insulti riecheggiano nello spazio vuoto. Lo illumino con un fascio di luce tremolante. Lui sbuffa. Ricomincia ad armeggiare con la sua attrezzatura, limitato dall’imbracatura di sicurezza che lo tiene legato come un salame.

Non vuole che lo veda all’opera perché ha paura impari, me ne vada e gli rubi i clienti. Le pivelline come te pensano di sapere tutto perché hanno una laurea in ingegneria. Ma io il mestiere ce l’ho nel sangue, e quello non si insegna.

Pulegge e arcano sono a posto, gliel’ho suggerito due ore fa, ma adesso che è lui a pontificare con supponenza, l’affermazione assume tutto un altro respiro
–  Che guardi, cretina?
– Capo, secondo me è saltata la scheda. Devo andare a prenderne una nuova nel furgone?
– Tu non fai un bel niente se non te lo ordino io. Non sei capace nemmeno di tenere una torcia, figurarsi
Mezz’ora dopo strilla di nuovo. Ha risolto il problema: bisogna cambiare la scheda. Che te ne stai lì impalata, vammela a prendere dal furgone. L’ascensore è bloccato dieci piani sopra di lui. Le misure di sicurezza lo tengono ben fermo. Anche se una fune metallica si spezzasse, anche se si spezzassero tutte, un paracadute istantaneo ne arresterebbe la caduta.
A meno che.

Ogni giorno in Italia ci sono tre morti sul lavoro. Chissà chi saranno gli altri due a cui toccherà oggi.

Il gioco russo

Il boia sollevò la scure sopra la testa.

La lama si staccò di netto dal manico e gli cadde alle spalle con un tonfo.

Il primo giocatore fu sollevato di peso da due guardie e lasciato cadere ancora tremante, su una sedia, ai bordi del piazzale. Una ragazza in abiti piuttosto succinti rabbrividì. Si sfregò le mani per scaldarsi, sul trespolo dal quale osservava la scena.

Il secondo giocatore avanzò barcollando e occupò il posto prestabilito. Il boia afferrò la seconda delle sei scure fornite. La sollevò. Di nuovo la lama si staccò: anche il secondo giocatore era salvo. Per il momento.

«Il destino sa sempre dove dirigersi. Mi piace molto questo passatempo» commentò Nikolaj II di Russia. Annuì con un lento gesto del capo affinché si proseguisse. I suoi cortigiani osservavano con un misto di disgusto e noia, gli occhi degli uomini più interessati alla giovane donna seminuda che al gioco in sé.

Di nuovo il turno del primo giocatore. Nemmeno il tempo di asciugarsi le lacrime. Di nuovo sul patibolo, di nuovo il collo esposto alla ventura. La scure non era quella giusta: con un grido selvaggio, l’uomo si rese conto di essere stato di nuovo risparmiato.

Qualcuno tra la folla rise, altri batterono le mani per scaldarsi e rincuorarsi nella mattinata gelida. Anche il quarto colpo andò a vuoto. Il boia sbuffò infastidito e si massaggiò la schiena. Afferrò la quinta scure senza troppa convinzione. Con un sospiro di sollievo vide la testa del primo giocatore rotolare sul pavimento. La ragazza scese dal trespolo e incoronò il vincitore, baciandolo e abbracciandolo tra le urla dei presenti.

Nikolaj si alzò in piedi e salutò i sudditi, dando loro appuntamento al giorno successivo.

«Questo gioco è quanto di più inopportuno tu potessi organizzare» intimò la moglie dello zar prendendolo per un braccio. «Proprio non riesco a capire la profezia dell’indovino che ti ha parlato di questa barbara selezione. E quella donna, poi, a che serve? Gli auspici vanno interrogati con maggiore attenzione.»

«Ancora più che per l’insalata con la maionese, sarà un gioco a ricordare la tua terra, recitava il vaticinio. Il gioco della soubrette russa. Non si va contro il proprio destino, mia cara.»

Babbo Natale e il diritto di recesso

Per Babbo Natale si avvicinava un altro gennaio di duro lavoro. Com’erano lontani i tempi in cui, rientrato al Polo Nord dopo la notte del 25 dicembre, poteva godersi una meritata vacanza!

Caro Babbo Natale, la maglietta che mi hai portato non si abbina bene al colore dei miei capelli, ti chiedo di sostituirla al più presto con quella di cui ti mando una foto.

Caro Babbo, la tua auto radiocomandata ha un raggio di azione di pochi metri. La consegnerò ai tuoi elfi, ti prego di cambiarla con una con un radiocomando più potente.

Caro Babbo, l’abbonamento alla pay-tv dura solo sei mesi, io te ne avevo chiesti almeno 12. Mi mandi il codice per il rinnovo automatico?

Non c’erano solo il diritto di recesso e le richieste di reso. I bambini che gli scrivevano erano sempre meno numerosi, ma le richieste sempre più complesse da realizzare. C’era la ragazzina che voleva un documento allegato sottoscritto in cui Santa Claus dichiarava che nessun elfo con meno di 160 anni era stato impegnato nella produzione del giocattolo; quello che gli rimandava indietro il maglione di cachemire perché non voleva essere partecipe dello sfruttamento di poveri animali indifesi; quell’altro che si lamentava perché i giocatori del biliardino erano rossi e blu, mentre nessuno mostrava una etnia africana.

Per non parlare del numero crescente degli infortuni: l’anno precedente gli avevano sparato addosso quindici volte. Un vecchio rancoroso non solo non si era scusato, ma aveva ribadito che Babbo Natale non avrebbe preso una pallottola nel calcagno, se non avesse invaso la proprietà altrui. L’associazione patriottica Padroni In Proprietà Private Esclusive l’aveva diffidato dal ripresentarsi nel quartiere di villette a schiera che si distendevano tra magazzini e capannoni. Da quelle parti i forestieri erano tollerati solo se lavorano molto e parlavano poco! E quel vecchio con la slitta volante aveva tutta l’aria di essere il solito tassista, non del mare ma del cielo. Becero trafficante di esseri umani, chissà quanti clandestini nascondeva in quel sacco!

Oltre tutto non aveva completa disponibilità delle renne, perché doveva consegnarle alla Befana per il 6 gennaio. La commissione per le pari opportunità, infatti, gli aveva inflitto una multa pesante. L’uomo trainato da una slitta con le renne, e la donna in groppa a una scopa? Questo è patriarcato!

E meno male che le renne gliele avevano lasciate: una commissaria voleva sostituirle con un aeroplanino elettrico, più ecosostenibile.

Davvero valeva la pena continuare a donare, in un mondo in cui nove bambini non avevano latte e il decimo prima di bere controllava che le percentuali di lattosio non superassero i valori di soglia? Babbo Natale sospirò sconsolato. Non sempre comprendiamo il senso del viaggio, ma non per questo dobbiamo fermarci.

Prima di partire, però, controllò bene che il sacchettino in cui raccoglieva i bisognini delle renne fosse ben saldo. Gli sarebbe servito a concimare il Natale dell’associazione P.I.P.P.E (“Padroni In Proprietà Private Esclusive”) e magari anche a rassicurare con una prova fumante la commissaria ecologista, preoccupata per l’impronta climatica delle sue renne.

Buon Natale!

Godetevi questa vita, se non vi piace non ce la sostituiranno con un’altra.  

Dieci piccoli indizi – Asso di bastoni

Nei dieci minuti che seguirono il telefono non suonò. Nemmeno il cellulare di Crisafulli, che tra sms e telefonate di solito trillava di più che un metal detector in ferramenta. Solo il fruscio delle carte e i commenti delusi del maresciallo Zavaglia riempirono la sala d’ingresso della caserma dei carabinieri durante quel drammatico confronto a briscola.

Finalmente il maresciallo si alzò, sospirò profondamente e guardò l’orologio sollevando un sopracciglio. Cercò in tasca le chiavi dell’auto muovendosi pesantemente verso la porta.

Non era proprio giornata. Non che avesse sottovalutato le capacità di Crisafulli: era evidente che con le carte era più abile che con la pistola. Poi la nottataccia aveva probabilmente influenzato negativamente il suo gioco. Però davvero, un disastro così non se l’aspettava. Quel diavolo di un brigadiere l’aveva umiliato lasciandogli giusto qualche punticino. Era riuscito giusto a portare a casa l’asso di briscola, l’asso di bastoni, ma solo perché se l’era trovato tra le mani, altrimenti Crisafulli gli avrebbe scippato anche quello.

Era pronto ad uscire quando avvertì Crisafulli che borbottava qualcosa.

«Dia a me le chiavi, maresciallo. Gli sfratti oggi li faccio io. Non mi ha dato il tempo di spiegarle, prima: questo mazzo di carte l’ho sequestrato ieri pomeriggio a un gruppo di albanesi che invitavano i passanti a giocare di fronte ad un bar. Sono tutte segnate, vede? Ho cercato di dirglielo prima: basta osservare con attenzione l’immagine sul retro. E poi lei fa sempre confusione con i turni. Questo fine settimana sono in servizio. Da Cosimina ci vado la settimana prossima. Però i verbali no, maresciallo, i verbali la supplico li compili lei».

 

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Dieci piccoli indizi – Due di spade

Ti rendi conto che stai invecchiando quando ti è più facile immaginare un futuro in cui tu non ci sei… Ester scacciò via questi pensieri malinconici concentrandosi sulle sue prossime vacanze. La montagna l’avrebbe rilassata. Verdi distese, aria pura che ti riempie i polmoni, acqua fresca a cui dissetarsi alla fontana. E poi lunghe passeggiate con Luca, mano nella mano a raccogliere fiordalisi e recitare insieme versi Neruda, e poi la sera di fronte ad un camino a cantare a “io guiderò per questa notte ed altre notti ancora, mentre intorno si scolora il cielo e tutto porta in su e disferò le mie valigie e non avrò paura…”. Forse stava esagerando. L’immagine dei fiordalisi probabilmente era stata eccessiva. Già se lo vedeva il suo Luca disperarsi perché il suo cellulare non aveva abbastanza campo in quella maledetta vallata tra i monti. Per non parlare del camino, poi. A luglio? Avrebbero potuto cantare di fronte ad un tramonto. Neanche, Luca era stonato, e poi la musica lo annoiava.
Al mare, allora. Sì, al mare si sarebbero divertiti da morire. Svegliarsi la mattina tardi, andare a prendere il sole, abbracciarsi nell’acqua sentendosi persi una nelle braccia dell’altro, e poi ordinare pesce la sera e fermarsi a contare le stelle distesi sulla sabbia. Chissà. Luca non amava il pesce, a meno che non fosse quello senza spine. D’accordo, avrebbe ordinato gamberi. E il sole? Sarebbe probabilmente rimasto sotto l’ombrellone con la sua crema protezione ottanta e un libro di Milton Friedman. Però a Luca piaceva nuotare. Avrebbero nuotato. Tanto. E la sera avrebbero passeggiato in centro, perché non c’era dubbio che il suo fidanzato l’avrebbe accompagnata di sera sulla spiaggia, con il rischio di riempirsi di sabbia le scarpe.
Città d’arte! Un giro per le città d’arte sarebbe stato perfetto. Venezia, Firenze, certo, ma anche Mantova e Ferrara, e magari anche all’estero, Parigi, Barcellona, Londra. Parigi. Che idea. Loro due seduti a fare colazione in un caffè parigino discutendo delle opere apprezzate il giorno prima all’Orsay… Anche in questo caso si rese conto che si stava spingendo troppo in là. Luca non impazziva per le pinacoteche. Diceva che quelle opere non avevano mercato, e per lui ciò che è fuori mercato non esiste. Avrebbero visitato il museo d’arte moderna, allora, e perdinci anche la Bourse de Paris se questo fosse servito ad eccitarlo. Stava sbagliando. Si stava di nuovo piegando ai suoi desideri. Non andava bene. Ma sì, avrebbero deciso insieme. Insieme: in fondo tutto quello che contava era stare insieme.
Luca rientrò proprio in quel momento. Si tolse la giacca e la buttò sul divano, avviandosi verso il bagno senza nemmeno salutare. Ester lo seguì, cominciò a massaggiargli le spalle e lo baciò sul collo. “Tesoro… sussurrò… Vorrei parlarti dei miei progetti per quest’estate”. “Bene – rispose lui – mi hai anticipato. Vorrei portarti a Francoforte”.
«A Francoforte? A luglio?»
«Be’ che c’è di male?»
“Non è che la tua azienda ha aperto una filiale e hai intenzione di nuovo di portarmi con te solo per lasciarmi sola tutto il giorno mentre tu lavori anche se formalmente sei in ferie?»
«Ehm… e se anche fosse? Lo sai che sarebbe importante per la mia carriera…»
Uscì dalla stanza gridando che sarebbe partita da sola per le vacanze.
Anzi, peggio, avrebbe accettato l’offerta che le aveva fatto la sua amica Priscilla, proprio lei, quella divorziata. Ma prima di andar via commise l’errore di rivolgere un ultimo sguardo verso di lui, e cogliere la serenità che era ritornata sul suo viso all’idea che anche quell’anno avrebbe fatto a meno delle vacanze, visitando piuttosto open-space, sale break e uffici direzionali della multinazionale alla quale aveva donato la sua esistenza.

Le testine si allineano, le teste pensano