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La periferia dell’impero

Non sono uno di quei telespettatori snob che guarda solo serie televisive americane ad altissimo budget. Anzi, a volte i soldi e i grandi interpreti non bastano a coprire sceneggiature incerte, come nel caso del mediocre Obi-Wan Kenobi dell’universo Star Wars (come ci si può appassionare a una storia se si sa già quello che accadrà dopo?) oppure come per Secret Invasion, dove uno dei personaggi più carismatici dell’Universo Marvel, Nick Fury, viene coinvolto in un thriller cupo in cui a un certo punto, però, senza spiegoni online non si capisce davvero più nulla, tanti sono i salti nella trama, non tutti logici.

Al contrario: mi piacciono le serie tivù italiane, ho amato molto il Commissario Montalbano, attendo con ansia le nuove puntate di Rocco Schiavone e Imma Tataranni, trovo simpatico il protagonista di Macari, per una volta un giornalista e non il solito poliziotto sciupafemmine. Poi però mi imbatto in serie tivù di un livello qualitativo così discutibile da domandarmi se, come per il mitico Tano Boccia che girava usando i set dei peplum americani durante le pause pranzo, non le realizzino con gli scarti di altre produzioni. Le ultime due che ho guardato riguardano le mie due città del cuore, Bologna e Taranto, e in entrambi i casi lo sforzo per arrivare all’ultima puntata è stato davvero poderoso. Ho dovuto davvero insistere, convincermi che avevo tutte le capacità e il talento per andare fino in fondo senza dormire.

Si tratta di “Vivere non è un gioco da ragazzi” e di “Sei donne – Il mistero di Leila”.

I problemi che ho riscontrato sono simili, per cui comincio a pensare che ci sia un difetto nella progettazione di questi prodotti. Ma vediamo di procedere con ordine. Gli attori sono di prima qualità: Stefano Fresi e Claudio Bisio per Bologna, Maya Sansa e Isabella Ferrari per Taranto. E qui signori miei mi si alza il sopracciglio: ma davvero non ci sono attori bolognesi o tarantini in grado di rendere un po’ più credibile l’ambientazione? Una città non è fatta solo di palazzi e scenari. È fatta di persone e linguaggi. Nella prima fiction se non altro Stefano Fresi ci prova a parlare con un accento emiliano, nel secondo caso l’unica pugliese è la vittima che appare sì e no in tre scene. Passi che un poliziotto possa essere siciliano come nel caso di Alessio Vassallo, passi anche che il magistrato protagonista interpretato da Maya Sansa abbia vissuto a lungo a Roma (c’è un vago tentativo di giustificazione in merito nella sceneggiatura), ma perché suo figlio nato e cresciuto a Taranto è un romano de’ Roma, come per altro suo marito? E quanti veronesi – come un altro personaggio chiave – sono immigrati a Taranto, mannaggia alla miseria? Insomma, da questo punto di vista ci sono grosse carenze soprattutto nello sceneggiato tarantino: il casting segue scelte che ovviamente non sono quelle della verosimiglianza, ma delle capacità degli agenti di piazzare i loro clienti, ‘anvedi aho’!

Un mio rimpianto professore del liceo, Silvio Immune, trent’anni fa ci diceva che a causa della televisione avremmo tutti detto “So’ tarantino de Taranto”. Quanto aveva ragione.

L’altro aspetto comune è che ci sono diversi esterni, e questo va bene, ma sempre negli stessi duecento metri di città. Bologna è una città che offre una infinità di angoli cinematograficamente interessanti, nello sceneggiato tutto avviene sotto un portico del quartiere Barca, davanti a una villa sui colli e in via Zamboni. Per non parlare del mio amato Appennino: Monte Acuto Ragazza, borgo del Comune di Grizzana Morandi in cui sono ambientate alcune scene, meriterebbe una fotografia ricca e attenta. Invece vediamo a mala pena un albero, che avrebbe potuto tranquillamente essere un albero di qualunque colle di qualunque zona del mondo. Un albero.

Così come a Taranto tutto avviene sul lungomare, davanti alla Prefettura e in uno scorcio della città vecchia. Nessuno ha mai fatto jogging su quel lungomare, nessuno. Il marciapiedi è stretto, la strada molto trafficata, se scivoli e ti mettono sotto recuperano il tuo cadavere a San Vito.  Direte: va bene, ma di questo te ne accorgi tu perché conosci della città. Anche Montalbano usciva di casa a Puntasecca, girava l’angolo per andare a prendere l’auto parcheggiata a Donna Lucata a 18 km e e si ritrovava alla fermata della corriera a Ragusa, che è a 30 km. Ma quella era una città, Marinella, immaginaria. Taranto c’è. Dirò di più: non tutti a Taranto hanno la casa e l’ufficio con vista sul mare. Pensa un po’ tu.

La risposta in questi casi credo sia semplice: bisogna ottimizzare i costi e ridurre il numero di set è un buon modo per farlo. Capisco. Ma un po’ di fantasia a sopperire i mezzi limitati non guasterebbe, dai. Muovetela quella macchina da presa, ogni tanto, osate con le luci, ho visto fotografare per le carte di identità con maggiore brio.

E veniamo al più grave dei difetti che caratterizza entrambi questi prodotti: l’enorme, insostenibile, massiccia noia che li caratterizza. La storia in entrambi i casi c’è: Fabio Bonifacci è un signor scrittore e uno dei migliori sceneggiatori che abbiamo in Italia, ma sembra che la regia si sia divertita ad allungare, slabbrare, diluire la vicenda bolognese che avrebbe potuto essere trascritta in un film di due ore e invece ne dura sei. Stessa sorte per il povero lavoro di Ivan Cotroneo che ha una idea che potrebbe appassionare, quella di raccontare le vicende di 6 donne che si intrecciano, ma è più annacquato di una Coca-Cola alla spina del McDonald’s. Primi piani, primi piani, primi piani. Sospiri. Primi piani. Maya Sansa che riesce a mantenere la stessa espressione per sei ore di girato, anche se qualche volte stringe gli occhi per far vedere quanto è cattiva o batte le palpebre lentamente quando il regista grida “più pensosa”. Il giovane protagonista della serie bolognese, poi, ha due espressioni come Clint Eastwood di Sergio Leone, con il cappello e senza. Solo che non ha nemmeno il cappello.

Abbiate pietà dello spettatore. Fateli muovere ogni tanto, questi attori. Sono film, anche se scritti per la televisione, non fotoromanzi con l’aggiunta dell’audio. Non voglio una sparatoria alla Quentin Tarantino, non voglio effetti speciali che non possiamo permetterci. Vorrei solo un po’ di mestiere, mica grandi spese, solo del ritmo per dare un po’ di pepe alla storia (quanto ci manca un Umberto Lenzi, oggi).

Bologna e Taranto meritano di meglio. Non siamo periferia dell’impero, non più.

L’ora del mistero. Come tornare bambini di fronte a una serie che ha fatto la storia

Avevo una decina d’anni, la televisione d’estate di solito non proponeva granché, a parte i Giochi senza frontiere e le solite commedie con Bud Spencer. Però quella sera la guardai, evidentemente non avevo nulla di meglio di fare, in prima serata su Rai Uno. Trasmisero un breve film di 70 minuti talmente claustrofobico e angosciante e con un finale così stupefacente, che non ho fatto che pensarci per anni. Magnifico.

Però noi non avevamo Internet né servizi streaming, e anche i videoregistratori sarebbero arrivati tempo dopo. Per cui solo la memoria poteva fissare l’emozione, e magari la condivisione il giorno dopo con qualche amico che avesse visto lo stesso programma. Potete immaginare la sorpresa e l’entusiasmo di riscoprire quel breve film su Prime Video, rendermi conto che si chiamava “Un gioco da bambini” e che faceva parte di una serie di 13 episodi prodotti per la tivù inglese a metà degli anni Ottanta, indipendenti uno dall’altro, intitolata in italiano “L’ora del mistero”. Il nome inglese “Hammer House of Mystery and Suspense” forse dirà qualcosa agli amanti del genere horror, visto che la Hammer Productions è una celebre casa di produzione che nel secondo dopoguerra ha realizzato decine di film (di qualità spesso discutibile) con Dracula e Frankenstein. La mano della Hammer si sente in questa serie, è inevitabile. Uno dei cliché più ripetitivi è quello dell’incredulo, il personaggio cioè che di fronte a fenomeni paranormali nega fino alla fine, e di solito non è una bella fine. Poi ci sono le corna, tante corna, quasi in ogni puntata. L’altro, che a me ha fatto sorridere, è il fatto che prima o poi le protagoniste (bellissime) vengono colte nel sonno in sottoveste e devono fuggire o correre mostrandosi in abbigliamento intimo. Alla Hammer piacevano certe situazioni pruriginose che oggi troviamo ridicole ma all’epoca evidentemente erano il massimo che si potesse chiedere a una serie televisiva in prima serata. Sul fronte tecnico, abituati come siamo a effetti speciali, uso spericolato della fotografia, inquadrature originali, sappiate che la regia è spesso più piatta delle ripresa di uno spettacolo parrocchiale (con diverse valide eccezioni), i colori sono quelli di una serie tivù di quaranta anni fa e il doppiaggio di tanto in tanto si perde la traduzione italiana: non litigate con il telecomando, è proprio la versione online ad avere qualche carenza.

Detto ciò, ecco di seguito i miei commenti alla serie, episodio per episodio: a parte le donne in sottoveste, si spazia dall’horror allo spionaggio, dalle storie di fantasmi al giallo più tradizionale, cercando sempre il colpo di scena finale. Purtroppo “Un gioco da bambini” è l’unico veramente straordinario; degni di nota anche “Salto nel tempo” dello stesso regista, il grottesco e stralunato “Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers?” e soprattutto “Un grido lontano”. Per gli altri c’è molto mestiere, a volte talento, a volte né l’uno né l’altro. Ecco in ogni caso gli episodi con il mio voto, evito ovviamente di anticipare i finali che spesso presentano colpi di scena interessanti.

  1. Il marchio del diavolo. Voto: 3

Uno dei peggiori della serie, superato solo dal leggendario “Il campo da tennis”, davvero non capisco la sequenza scelta dai produttori perché immagino che molti spettatori abbiano abbandonato dopo questo episodio. Il protagonista è Sberla dell’A-Team (sì d’accordo l’attore ha un nome ma per la mia generazione è Sberla dell’A-Team), che fa il piacione squattrinato. A causa di una sua cattiva azione, un misterioso tatuaggio comincia a espandersi sul suo corpo. Dopo la buona idea iniziale l’episodio scivola verso il finale più scontato e prevedibile della serie.

  1. Il video testamento. Voto: 6

La trama sembra uscita da una commedia con Nando Buzzanca e Renzo Montagnani: un anziano è sposato con una giovane bellissima che però trova sollazzo con carni ben più giovani. Non tutto andrà come previsto. C’è il tema della tecnologia che oggi risulta obsoleta ma che all’epoca doveva destare una certa inquietudine (videocamere e registrazioni che torneranno anche nell’Eredità Corvini), c’è una cattiveria di fondo che però non disturba, anzi solletica il sadismo dello spettatore. Mistero però poco.

  1. Accadde a Praga. Voto: 6,5

Episodio abbastanza insolito, visto che siamo nel mondo delle spy-story, con una suggestiva ambientazione nella Praga sovietica. Una donna si ricongiunge con l’ex marito che la porta con sé per un viaggio di lavoro a Praga e poi sparisce. Che ne è stato di lui? Un po’ piatto come giallo, dalla storia ingarbugliata per non dire confusa, che però si riscatta con un finale inatteso.

  1. Un grido lontano. Voto 7

Bellissima ambientazione in un hotel sulla scogliera, dove una coppia di amanti si rifugia al riparo dal marito di lui. Un uomo misterioso però spia la donna. Chi è? Il suo amante stesso, invecchiato e moribondo, che ritorna dal futuro per comprendere quello che da allora lo angoscia. E in un ribaltamento spazio temporale tipico della fantascienza ecco che il destino dell’uomo del futuro è segnato proprio dal suo viaggio nel tempo. Qualche ingenuità di troppo tipica della serie che non vi svelerò, ma merita.

  1. La defunta Nancy Irving. Voto?

Il più misterioso di tutti, visto che da Prime Video è scomparso. Non c’è. Evidentemente non sono riusciti a recuperare una versione qualitativamente decente del video, o più probabilmente del doppiaggio.

  1. Salto nel tempo. Voto 8

Come anticipato, questo è un altro episodio che con un uso sapiente di rallenty, soggettive, colpi di scena e musiche di commento in alcuni momenti riesce davvero a mettere paura. Una coppia sta per lasciare l’appartamento a Londra per trasferirsi all’estero a causa del lavoro di lui, ma l’ultima notte una serie di apparizioni li fa cadere nella più profonda angoscia. Che siano fantasmi? Che si tratti di un appartamento stregato? Attendete il finale per scoprirlo, ma godetevi anche il resto.

  1. Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers? Voto 7,5

Sicuramente il più “Hammer” episodio della serie, perché qui c’è veramente di tutto, omicidi, misteri, necrofilia, villaggi dannati, personaggi fuori di testa, musica rock. Mescolato in maniera a volte arbitraria ma proprio per questo ancora più divertente. Uno scrittore e una giornalista devono scoprire cosa è successo ai Verne Brothers, coppia di musicisti di successo scomparsi anni prima, di cui nessuno sa più nulla. C’è la nebbia, il paesino abbandonato, il finale teso anche se un po’ prevedibile. Come verosimiglianza siamo a livelli bassi, ma cosa importa? Un episodio che sarebbe piaciuto a Shalaman, e chissà che non l’abbia visto.

  1. Il dolce profumo della morte. Voto 6,5

Eccoci di nuovo nell’ambito del giallo più classico. C’è una dimora di campagna isolata (un elemento classico della serie) e una donna perseguitata dal suo passato. C’è un marito preoccupato ma molto preso dalla sua vita professionale (è un politico), c’è un finale coerente e credibile. Più Jessica Fletcher che mistero, a dirla tutta, ma si lascia guardare.

  1. L’uomo che dipinse la morte. Voto 7

Come sempre i titoli in italiano svelano più di quanto non dovrebbero. Però se vi dico che c’è un pittore che dipinge la sua morte non svelo troppo, perché è proprio questo l’incipit della storia. Un artista si finge morte perché i suoi quadri acquistino valore, nel frattempo la moglie si distrae con il commerciante d’arte e scopre che spassarsela con lui mentre il marito dipinge chiuso nella soffitta non è poi così disdicevole. Interessante la critica del mondo dell’arte, belli anche i quadri anticipatori, unico elemento paranormale estraneo alla solida costruzione gialla, il problema dell’episodio è il finale: se di solito sono il punto di forza dell’Ora del mistero, questo invece è veramente scontato.

  1. L’eredità Corvini. Voto 7

Forse il più cinefilo episodio della serie, tra Hitchcock, De Palma, Polansky e Cronenberg, girato molto bene anche se decisamente lento e in alcuni momenti addirittura noioso. Forse è il più profondo ma non necessariamente il più appassionante. Come al solito finale sorprendente anche se dalla collana maledetta mi sarei aspettato qualcosa in più.

  1. La parete maledetta. Voto 5

I temi cari all’horror ci sono tutti. La setta satanica, la chiesa maledetta, il dipinto nascosto. E poi la bella funzionaria che crede nel paranormale, i costruttori preoccupati del rispetto dei tempi (ma quando mai? In Inghilterra, forse, in Italia dopo il primo omicidio avrebbero chiuso il cantiere per cinque anni almeno), il giovane che fa disegni misteriosi e inquietanti. Il tutto però è parecchio raffazzonato, tirato via, gli attori recitano sopra le righe, la regia ha un’unica buona idea, quella del dipinto satanico che non riusciamo mai vedere se non per qualche macchia di colore.

  1. Un gioco da bambini. Voto 10

Non vi dirò assolutamente nulla. Dovete guardarlo e basta. Capolavoro.

  1. Il campo da tennis. Voto 2

Purtroppo il finale crolla nel comico involontario. In assoluto il peggiore episodio della serie, ha tutti i difetti della Hammer (donne svestite e sin troppo libertine, trucchi splatter di pessima fattura, paranormale di bassa lega, risparmio sui costi) senza avere quel mistero che invece caratterizza altri episodi. Qui a essere maledetto è un campo da tennis, ma lo spirito che vi aleggia non è quello di un morto, ma di un vivo che ha in parte abbandonato il suo corpo (e già qui…). Nonostante le palline sanguinantI e i rumori notturni, il capannone però non ha il fascino di una vecchia magione o di una cantina dimenticata.  Il finale da esorciccio poi davvero non si può guardare, nonostante il successivo tentativo di ribaltamento, ancora più irritante. Vi dico solo (e pazienza se faccio un po’ di spoiler, questo film va visto per quanto è brutto, la trama non c’entra) che in pieno stile Ed Wood, la trama si sposta tra il presente e il passato: ma mentre il protagonista, per rendere la storia più credibile, è interpretato da due attori diversi, uno giovane e l’altro anziano, gli altri due per risparmiare sono interpretati dagli stessi attori a cui aggiungono giusto qualche capello bianco. Argh!

Pietoso a dir poco, per non parlare dell’esperto di paranormale, il peggior personaggio dell’episodio, della serie, del cinema di tutti i tempi forse. Ammazza che zozzeria.

La schedina fra le dita

Gli appassionati di calcio oggi seguono le partite di campionato praticamente dal venerdì al lunedì, persino all’ora di pranzo, con le giornate libere occupate da manifestazioni internazionali. Cari ragazzi miei che vi appassionate a questo sport come a me capitò più di trent’anni fa, non è sempre stato così. Quello che voi assaggiate è un vino talmente annacquato da risultare insipido, e mi domando come facciate a non esserne stufi (io per esempio lo sono).
C’era una volta la schedina: un gioco che con poche lire permetteva di sfidare la fortuna cercando di indovinare i risultati: la schedina fra le dita può cambiare la tua vita, cantava il mitico Toto Cutugno.

La schedina c’è ancora, almeno credo, ma è tutto il corredo intorno ad essere svanito. Intanto perché le partite si giocavano tutte in contemporanea, dalle 14,30 (orario spostato in avanti l’estate). Quindi in quei novanta minuti potevi sapere se avevi vinto o no, senza dover aspettare tre giorni. Poi perché la schedina era un rito collettivo, quello che manca alla società attuale parcellizzata tra mini schermi personali e contenuti ipertrofici h24, come dicono quelli che ne sanno. Andavamo allo stadio tutti insieme, dal mio indimenticabile “Erasmo Jacovone” di Taranto a San Siro, dall’Olimpico al Renzo Barbera. Poi tutti insieme rientravamo in auto sperando di fare in tempo per novantesimo minuto, per poi ritrovarci di fronte alla domenica sportiva, che faceva sì rivedere i goal, ma da angolazioni sghembe dietro la porta e con primi piani sul terzino che facevano tanto televisione di qualità.

E io ancora me lo ricordo quel maledetto undici, un numero maledetto come il cinque e mezzo per i liceali o il ventinove per gli universitari, un sogno svanito in pochi  attimi: il mio tredici che resisteva sino a pochi minuti allo scadere, poi due gol che ti facevano crollare dal mito del successo alla mediocrità di uno dei tanti che non ce la fa. Erano di solito le partite minori a rovinarti la festa, un pareggio casalingo della Triestina o peggio ancora una vittoria inattesa del Campobasso in C2 (e no, all’epoca la C2 non era una utilitaria francese). Non ricordo quanti undici ho collezionato, non tantissimi direi, ma abbastanza da farmi ancora ricordare la delusione.

Delusioni o gioie che derivavano dal nostro scandire il tempo tutti insieme, il dibattito la domenica sera dietro la parrocchia o ancora il lunedì mattina sull’autobus che ci portava a scuola. Perché noi non avevamo il supporto della tecnologia, ma eravamo parecchio social, eccome se lo eravamo.

Sanremo: cantano tutti (e poi patteggiano)

musicaE comunque il colorito di Carlo Conti non esiste in natura. Io c’avevo un Big Jim di quel colore, ma era perché lo lavavo con il sapone da bucato.

Tutti “Je suis Charlie”, tutti liberi e libertini, poi Siani fa una battuta infelice su un bambino sovrappeso (ciccione non si può dire) e apriti Cielo siora Maria dove mai andremo a finire.

Certe nuove proposte sono talmente vecchie che per televotarle serve il piccione viaggiatore.

Ciribiribì Kodak! Ah, no, è Nesli.

Dopo la Premiata Forneria Marconi posso anche andare a dormire

Qualcuno sa come si fa a televotare il tatuaggio più tamarro a Sanremo?

Sanremo: vincono tre giovani che fanno cose che nemmeno due secoli fa. La perfetta sintesi dell’era renziana.

L’orizzonte di Peppa Pig

Peppa_Pig
Dal sito www.peppapig.com

Uno degli argomenti di discussione nelle piazze virtuali e reali degli ultimi giorni, complice lo stop del campionato, la mortale noia della politica e la mediocrità dei cinepattoni, è il successo di Peppa Pig, un programma televisivo dedicato ai bambini in fascia prescolare. Sono già state scritte tante analisi sul programma, e non sarei in grado di aggiungere molto di interessante a quanto riportato per esempio da questo articolo.

Condivido l’apprezzamento verso le scelte stilistiche degli autori: disegni bidimensionali, colori netti e senza sfumature, durata (5 minuti) sufficiente a raccontare una storia ma non tanto da annoiare i più piccoli, il commento sonoro puntuale e mai ornamentale. Mi piacciono anche gli elementi tipici della modernità (il papà che cucina mentre la mamma lavora, l’incontro con la famiglia dei conigli, che hanno abitudini “diverse” ma in fondo condividono i valori di base dei maialini, il ruolo diseducativo ma affettuoso dei nonni).

Sottoscrivo anche l’opinione di chi considera il merchandising intorno a questo prodotto eccessivo e invadente: scadente, aggiungo io, nel senso che i prodotti editoriali che sfruttano l’immagine di Peppa Pig non hanno nulla della geniale gestione dei contenuti del programma, ma si limitano a riproporre stancamente soluzioni che prima sono state di Winnie The Pooh, delle Principesse, di Topolino. Fin qui ribadisco concetti già ampiamente risaputi.

Ad un certo punto però ho sentito l’esigenza di aggiungere qualcosa al dibattito, in particolar modo dopo l’articolo sul tema di Gramellini. Ora, da sempre considero Gramellini uno scrittore e non un giornalista: in quanto tale tende a usare elementi e informazioni per raccontare le “sue” storie, per condirle e renderle saporite, per ammaliare il lettore e condurlo lungo un percorso che ha preparato per lui. Comportamenti ineccepibili per uno scrittore ma deontologicamente discutibili per un giornalista. In questo caso almeno Gramellini ha l’onestà intellettuale di ammettere la sua ignoranza sul tema, e il fatto di aver cercato di recuperare con una full-immersion di episodi della maialina rosa e della sua famiglia. Ora, Gramellini apprezza la famiglia così politically correct e rassicurante penstata dagli autori dopo anni di provocazioni, cinismo, sarcasmo e cattiveria. E così scatenando le ire di una certa sinistra radical chic per la quale se un programma non contiene incesto, tossicodipendenza e tratta delle bianche allora è mistificazione della realtà, è neofascismo edulcorato, è oppio per le coscienze da narcotizzare con immagini tranquillizzanti.

A parte il fatto che mi piacerebbe che la sinistra tornasse a cercare di risolvere i problemi invece di limitare a raccontarli con dissimulato compiacimento, in una catarsi consolatoria da piccolo borghesi che discutono di Darfur durante l’apericena, il punto è che sia Gramellini che trova Peppa Pig rassicurante sia i suoi oppositori che denunciano l’assensa di mafia e stupri durante gli episodi non mettono a fuoco il fulcro del programma. Che è il punto di vista narrativo, che è quello di una bambina di 4 anni.

Non so se avete presente cosa sia un diorama. Si tratta di una riproduzione ambientale che sfrutta le regole della prospettiva per rendere maggiormente realistici e avvolgenti gli scenari. Tipicamente si usa per il presepe o per altre scene di ambientazione religiosa: per godere però a pieno degli effetti pensati dall’autore bisogna vederli ponendo lo sguardo all’altezza dell’orizzonte del diorama. Infatti quando vengono mostrati al pubblico sono di solito presentati in modo che l’occhio dello spettatore raggiunga l’altezza delle statuine e che il campo visivo sia limitato. In questo modo – se l’autore è stato bravo – si può rimanere affascinati dai paesaggi tridimensionali, dagli ambienti paesaggistisci sullo sfondo, dal gioco di luci e di colori, dall’impressione di essere di fronte ad una fotografia in 3d. Se però un diorama lo si osserva lateralmente, o da un punto troppo alto o troppo basso, allora tutto il gioco si perde, e la magia è sostituita dall’osservazione sciapita di una specie di plastico stretto e lungo.

Per capire Peppa Pig bisogna osservarla come si osserva un diorama: dal punto di vista di un bambino. Che non è quello del critico televisivo e nemmeno quello del vicedirettore di un giornale. Io credo di aver imparato da Peppa Pig più dall’osservazione delle mie bimbe, fedeli spettatrici, che dalle mie limitate competenze analitiche. Non è corretto dire che Peppa Pig è rassicurante, perché non parla di buco dell’ozono, malattie invalidanti o crisi economica: questi temi sono estranei anche al più sfortunato bambino di tre anni (tra gli spettatori di Peppa Pig, ovviamente: quando hai lo stomaco gonfio per la fame hai problemi più seri ma di certo non guardi la tivù). Però questo non vuol dire che a due anni non si soffra: a quell’età si soffre per la rottura del giocattolo preferito, per la gelosia nei confronti del fratello o della sorella minore, per una gara all’asilo in cui non si riesce a primeggiare.

Voglio sperare che i miei 25 lettori non si siano ariditi al punto tale di aver dimenticato che per queste situazioni si può piangere, essere intimiditi, avere paura e in’ultima analisi soffrire a quell’età. E questi elementi sono tutti presenti in Peppa Pig: perché un bambino di tre anni nel mondo occidentale non ha paura del cybercrimine, ha paura di salire in cima ad uno scivolo. Però il batticuore, l’adrenalina e i tremori sono gli stessi, anche se certi grandi l’hanno dimenticato. Rassicurante per me è il manga giapponese in cui un orsacchiotto venuto dal futuro risolve tutti i guai infilando la mano in una tasca magica, non quello in cui Peppa impara che se vuole imparare a pattinare deve seguire i consigli della mamma, perché se non sai frenare poi finisci a terra, e ti fai male.

Se volete capire Peppa Pig, prima abbassatevi per porre lo sguardo all’altezza dell’orizzonte giusto. Fate ancora in tempo.

Top ten di consigli culinari di un “master che”?

limoneNegli ultimi tempi in televisione è tutto un fiorire di cuochi, chef, maestri dei fornelli e compagnia cantante. Come ovvia conseguenze anche le conversazioni sempre più di frequente hanno a che fare con il cibo. Io non so cucinare, non nella accezione del termine che preveda un minimo di creatività e competenza. Eppure, nel mio meccanico e demenziale lavoro ai fornelli, mi sento di dare qualche consiglio talmente ovvio che io stesso, dopo averli scritti, ho pensato: ma dai, davvero non penserai che c’è qualcuno che…C’è, c’è, ve lo dico io.
10) Si fa sempre in tempo ad aggiungere sale in extremis. Toglierlo invece è un casino. Per cui moderate quel pugno carico
9) La qualità della penne rigate è, a parità di altri fattori, più scarsa di quelle lisce. Le righe le hanno inventate apposta per favorire la cottura anche di impasti mediocri
8) Un fettina ai ferri è più saporita se ci aggiungete un filino d’olio prima o durante la cottura. Giusto un filino, che la frittura è un’altra cosa
7) Il parmigiano è saporito, ma se esagerate, tutto saprà solo e soltanto di parmigiano. E poi, con il tonno proprio no.
6) Le mozzarelle in busta che si vendono al supermercato non sono mozzarelle. Sulla confezione bisognerebbe scrivere “demozzarellizato”, come per il caffé senza caffeina. Se volete davvero mangiare una mozzarella, scordatevi quella sbobba annacquata.
5) Meglio abbondare con l’acqua di cottura, stando attenti che la pasta non ne assorba troppa. Ci mette di più a cuocersi Se avete fretta compratevi uno di quei prodotti da infilare nel microonde e trangugiare al volo, precondito, precotto, perdigerito. Sono fatti a posta per gli ndividui con i vostri problemi. A proposito, il sale si versa quando l’acqua già bolle, non prima.
4) Lasciate perdere quegli insaporitori industriali, se il pesce è buono e cotto bene, un poì di succo di limone è l’unico condimento di cui ha bisogno
3) Tutti i vini sono buoni se serviti ghiacchiati. Anche l’aceto allungato. Ma se volete rispettare il lavoro di chi l’ha prodotto, il vino va servito tra i 10 e i 20 gradi a seconda del tipo
2) Siete stanchi del panino con la mortadella, degnissima specialità emiliana? UNa sana alternativa al panino del camionista è il panino con i pomodorini ciliegini, olio extravergine e origano. Sin da bambino per me è imbattibile.
1) Il caffé con la macchinetta della moka si prepara con il gas al minimo. Niente ma! O così o niente.