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Lavorano gratis da mesi. Non lasciamoli soli

Non so se vi è mai capitato di entrare in un ambiente dov’è possibile avvertire un rumore, come un treno o un automobile. Dopo alcuni minuti, quel rumore non lo sentite più. Oppure vi sarà successo di indossare un capo di biancheria e avvertirne il contatto sulla pelle: dopo pochi istanti, anche quel contatto non lo percepite più. È il nostro cervello che disabilita automaticamente quelle percezioni continuative ma povere di informazione che altrimenti ci farebbero impazzire. E meno male che dopo un po’ ci abituiamo persino a certi odori in autobus, ma un po’ più a fatica.

Alcuni vorrebbero che accadesse così anche per i fatti che riguardano le persone che ci stanno intorno. A furia di sentirli ripetere, alla fine non ci facciamo più caso. Ci anestetizzano, e dopo un po’ l’evento “perde di notiziabilità” come dicono gli esperti di media, e non se ne parla più.  A Roma da molti mesi migliaia di dipendenti di alcune cliniche private romane (Idi Irccs, Villa Paola e Ospedale San Carlo di Nancy) stanno lavorando senza prendere lo stipendio.

Una di queste è una mia amica che con i suoi colleghi si sta battendo perché le vengano riconosciuti i diritti più essenziali, il diritto alla retribuzione.

Se accedete al sito dell’Ospedale San Carlo vi chiedono se volete prenotare una visita e si tessono le lodi di quella che era, anzi è, un’eccellenza nel sistema sanitario italiano, con centinaia di posti letto e all’avanguardia nella cura di tante malattie. Però un box in homepage ricorda anche che “la Provincia Italiana della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, quale Ente cui fa capo l’Ospedale San Carlo, è stata ammessa alla procedura del concordato preventivo(…)”Insomma, ad un passo dal baratro finanziario.

La vicenda è troppo complicata per essere raccontata qui, e poi non avrei gli elementi per farlo. Già il fatto che una congregazione religiosa gestisca delle aziende sanitarie private, a me, cattolico praticamente, non mi entusiasma. Che poi le faccia fallire, e porti alla disperazione lavoratori che dimostrano una professionalità straordinaria continuando a lavorare gratis, è veramente intollerabile. Invece di riempirsi la bocca di parole sulla famiglia, perché certi prelati non fanno un esame di coscienza sullo stato in cui stanno riducendo le migliaia di famiglie dei dipendenti di questi istituti gestiti da religiosi? Se io fossi papa venderei seduta stante un po’ di argenteria intanto per pagare i debiti, almeno quello. Poi si cerca di rimediare agli errori, ma intanto rimettiamo i nostri debiti. Ma tanto io papa non lo sono, e anzi nel mio modesto punto di vista di laico ricordo che i farisei volevano buttare Gesù giù dalla montagna perché non amavano quello che diceva loro. E se una volta l’ha scampata alla fine sappiamo com’è andata a finire.

Però queste cose devono fare rumore, e dobbiamo sentirlo questo rumore. Il cervello non può e non deve disattivarlo. Perché è un grido assordante, un tanfo che rende l’aria irrespirabile, un capo di biancheria pieno di spine che dovrebbero farci gridare in difesa di quei lavoratori, e di tutti quegli altri in giro per il nostro disgraziato paese, che hanno perso il lavoro anche se lavoravano bene eccome.

PS I lavoratori del San Carlo hanno creato una pagina su Facebook. Credo che il minimo che si possa fare è cliccare su “mi piace”, per farli sentire meno soli. Anche se no, non ci piace per niente che si debba lavorare gratis.

La crisi raccontata a mia figlia

C’era una volta un paese con alcuni ricchi che possedevano campi e fattorie, e molti poveri che nei campi lavoravano. In cambio del lavoro nei campi, i ricchi davano ai poveri di che vivere: grano, frutta, un po’ di carne, qualche vestito. E i poveri spesso se li scambiavano fra di loro, per cui chi aveva due paia di pantaloni li barattava con un cappello.

Un giorno i ricchi dissero; ma perché dobbiamo scambiarci frutta, grano e carne? Non è comodo, e poi è così faticoso trasportarli… Facciamo così: prendiamo dei pezzi di carta e ci scriviamo sopra: un litro di latte, un chilo di frutta, e così via. Chi metterà nel deposito questo cibo, avrà in cambio un pezzo di carta.
E andando al desposito si potranno scambiare i pezzi di carta con ciò di cui si ha bisogno.

All’inizio sembrò una buona idea, tutti erano contenti di scambiarsi la carta e poi andare a ritirare la merce al deposito.

Ma i ricchi inventarono un modo per arricchirsi ancora di più. Cominciarono a scrivere nuovi pezzi di carta, e ancora, e ancora. Talmente tanti che non sarebbero bastati dieci depositi pieni di merce per scambiarli. Come fare? I poveri pretendevano di scambiare la loro carta con la merce, ma non bastava più per tutti.

Allora arrivò un professore. Un tecnico, stimato da tutti i ricchi. E disse: per risolvere il problema tutti i fogli di carta dovranno valere la metà di quello che c’è scritto. I ricchi, che ne avevano tanti, non si preoccuparono, ma ancora non bastava. E allora il professore disse: i poveri dovranno lavorare di più per avere gli stessi fogli di carta. Ma ancora non bastava.

E allora il professore disse: i proveri dovranno  mangiare di meno,  fino a quando il deposito non basterà di nuovo a tutti.
E i poveri cominciarono  a morire di fame,  stenti e fatica, finché non rimasero solo i ricchi. Non sapevano lavorare la terra, non sapevano allevare gli animali, non sapevano raccogliere la frutta.
Rimasero soli con un deposito pieno di fogli di carta mentre del professore nessuno seppe più nulla.

La mia generazione

Sulla mia scrivania c’è un contrasto che balza agli occhi. Il giornale parla di una crisi senza via d’uscita che preannuncia un futuro fosco. Il volantino pubblicitario del centro commerciale mostra uno smartphone superchic supercool che costa quasi settecento euro.
Allora è vero che la crisi non c’è, è un’invenzione dei giornali? No, non è vero, c’è eccome. Allora è vero che i ricchi sono sempre più ricchi e possono premettersi il lusso? Sicuramente è vero, ma dubito che acquistino lo smartphone in un supermercato. Lo prenderanno in uno di quei negozi curati come boutique del centro con commesse che sembrano modelle.
La soluzione dell’enigma è semplice. A comprare quei cellulari costosissimi, magari a rate sono quelli della mia generazione. La mia generazione è immersa nella crisi, alle soglie dei quarant’anni molti gironzolano nel precariato contenti in fondo di avere ancora una carriera di successo da sognare, spendono in viaggi esotici con l’eterno fidanzato/a quasi tutto ciò che riescono a mettere da parte, vanno a mangiare da mamma più spesso di quanto mamma non facesse dalla nonna e per non pensare ad un futuro che li vede settantenni senza pensione, senza casa, senza famiglia.
La mia generazione vive nel mito di Kurt, Jimi, Janis, Jim ed Amy, e non si accorge che ha superato i 27 anni già da un po’.

Ceto mediocrissimo

Colpiti i ceti medi: pagherà più tasse chi guadagna più di 70 mila euro all’anno.
Molti giornali oggi titolavano così, e la notizia mi ha prostrato e gettato in un profondo sconforto. Se uno per definirsi medio deve guadagnare più di 5000 euro l’anno (sono dieci milioni, signori), allora cosa sono io con il mio misero stipendietto impiegatizio? Dopo un’attenta valutazione ho concluso che posso collocarmi tra gli indigenti in grave crisi e i diseredati vicini alla disperazione. Più vicino ai secondi, a dire il vero.
Buon weekend.

Mercatone zero

© Moreno Soppelsa/Photomicrostock

Uno poi si domanda come mai l’economia italiana sia in crisi e i nostri mercati siano colonizzati dagli stranieri. Mi è capitato l’altro giorno di entrare in un negozio Mercatone Uno alle 12,30. So che al contrario di altri grandi magazzini non fanno orario continuato, ma ho pensato che in mezz’ora avrei avuto modo di fare gli acquisti di cui avevo bisogno. Sono un consumatore funzionalista: non amo gironzolare, punto dritto al prodotto.

Errore imperdonabile: in meno di 30 minuti gli altoparlanti hanno annunciato 7 volte la chiusura del negozio, con voci sempre più ansiose e animose. Ad un certo punto ho temuto che stessero per attivare Hal8000 pronto ad annunciare l’autodistruzione del negozio entro pochi secondi. Addirittura una commessa ad un certo punto ha bloccato la porta per evitare la scellerata evenienza che qualche cliente entrasse fuori orario. In un ambiente così sereno ho deciso di non acquistare niente. E lo stesso devono aver pensato gli altri tre (Tre! Di sabato!Questo si chiama successo).

Non è colpa certo dei commessi che hanno diritto alla pausa e probabilmente sono pagati poco, ma certo se la prossima volta andrò nella solita catena di provenienza nordeuropea, avranno ancora meno clienti da cacciare per fare pausa…