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Ad ogni costo, di Cristina Orlandi

Le storie che racconta in questo romanzo sono brutte, molto brutte. Ma vanno narrate, anzi farlo è quasi un dovere per chi si sente in grado di portare questa responsabilità, perché sono storie vere o comunque verosimili.

Cristina Orlandi infatti ci racconta di donne vittime di violenza, e lo fa sulla base di quello che le hanno confidato alcune donne che sono riuscite a liberarsi dalla violenza assassina dei loro compagni prima che fosse troppo tardi. Grazie anche al meritevole e prezioso lavoro della Casa delle donne per non subire violenza onlus, associazione che in quasi trent’anni a Bologna ha accolto e sostenuto oltre 12 mila donne e i loro figli.

Donne come Serena, proveniente già da un ambiente familiare difficile, fuggita di casa in cerca di un futuro migliore per finire invece tra le braccia di un principe azzurro che si rivelerà il più spietato degli orchi. L’autrice non giudica, non punta il dito, non indulge in particolari raccapriccianti, ma la sua prosa pacata riesce comunque a scuotere e impressionare il lettore.

Perché storie come quella di Elisa, convinta dal suo “ragazzo” a prostituirsi e poi minacciata, sono storie che potrebbero capitare anche a persone a noi vicine. Che capitano, anzi, e frequentemente, come la cronaca quotidiana ci mostra. E l’aspetto più toccante è che queste donne finiscono spesso per sentirsi in colpa, quasi che la violenza che subiscono sia giustificata, sia la conseguenza di un loro cattivo comportamento.

L’immagine più bella però che questo romanzo ci lascia è quello di Serena che affronta l’inverno bolognese con un paio di scarpe estive di tela, perché le sono rimaste solo quelle: il compagno violento l’ha privata di tutto. Ma non della libertà e dell’amore di suo figlio.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi, Edizioni del loggione. Pag. 146, 12 euro.

PS Il titolo in realtà è A ogni costo, senza di eufonica. Quella l’ho aggiunta io (ghigno)

La prima app del mattino

Da qualche mese uso i mezzi pubblici, autobus e treno, per andare a lavorare. In autobus di solito siamo in tre a non guardare lo smartphone tutto il tempo: io, un vecchio senza occhiali da vicino e l’autista. Sull’autista però non sono del tutto sicuro. A giudicare dalle frenate, in effetti, alcuni probabilmente mentre guidano usano lo smartphone, la griglia per il barbecue e già che ci sono fanno anche un po’ di addominali. Ma non distraiamoci.

Il fatto è che io non uso lo smartphone sia perché a quell’ora del mattino mi sembra di violentare gli occhi, sia perché mi diverte guardare gli altri, che ipnotizzati come sono, non si accorgono di nulla. Gli uomini non sono molto interessanti, a dire il vero: prevedibili come un viaggio in ascensore in una palazzina a tre piani. Tendenzialmente schiacciano palline variopinte, rapiti da decine di diverse variazioni sul tema di Tetris, e le loro capacità intellettive si esauriscono tutte lì. Hanno degli schermi ad alta risoluzione e smartphone grandi quanto un vassoio, e li usano fondamentalmente per schiacciare palline. In alcuni casi anche per seguire i gol del giorno prima, a dire il vero. E poco altro: con i maschi finisce così. Probabilmente l’altro uso che fanno con il telefono è legato a qualche sito a luci rosse, ma in autobus ci risparmiano questo spettacolo, anche perché con l’altra mano devono tenersi aggrappati.

Ma è con le donne che ci si diverte. Ci sono le donne straniere che chiacchierano a voce alta in videochiamata. Immagino che dall’altra parte ci siano parenti, magari figli, ma proprio non riesco a spiegarmi perché quel momento di condivisione familiare, così intimo se vogliamo, debba essere vissuto sull’autobus 36. Dall’altra parte c’è tua figlia a Islamabad, forse: collegati in piazza Santo Stefano, dico io, sotto i portici, ai Giardini Margherita. Falle vedere qualcosa di carino alle tue spalle che non sia il solito pensionato che inveisce contro il governo, il sindaco e l’amministratore di condominio mentre continua imperterrito a inserire il biglietto nella macchinetta in senso contrario. Che poi, con queste videochiamate, è un attimo e l’immagine del tuo faccione decomposto del primo mattino, con le tracce di dentifricio accanto alle labbra e la bolla al naso può finire dall’altra parte del pianeta. Sono brutti momenti, dai. Da quando me ne sono reso conto sto sempre lontano dalle signore straniere con lo smartphone.

Poi ci sono le liceali, il futuro del nostro paese (davvero riponete qualche speranza in quei cretini che schiacciano palline scuotendo il telefono per massimizzare l’effetto?), con i loro capelli pettinati, i loro occhiali spessi, gli zaini sulle spalle e… Gli ultimi aggiornamenti su Pomeriggio 5, Amici, il Grande Fratello. Il futuro dell’Italia. Con un po’ di fortuna emigreranno in Francia dove serviranno in un caffè contestando il loro paese che non ha dato loro una possibilità. Le donne giovani a dire il vero tendenzialmente chattano. Che sia Messenger, WhatsApp o chissà quale altra applicazione, loro scrivono, scrivono, scrivono. Secondo me dovrebbero inventare un servizio online che si limita ad fingere di leggere, e rispondere ogni tanto “Quanto hai ragione” “Come ti capisco” “Su questo sono d’accordo” “lo dice anche il tuo oroscopo, oltre tutto” “anch’io”. Avrebbe più efficacia di tanti ansiolitici.

E poi c’è lei, la mia vicina di posto che l’altro giorno mi ha spinto a scrivere questo post. Si è davvero impegnata tanto. Quando mi sono avvicinato a lei non ha nemmeno alzato lo sguardo, tanto era presa dall’applicazione. D’altronde, ho capito che era di fronte ad un passaggio decisivo: stava scegliendo le scarpe. L’app in questione infatti permetteva di vestire una specie di manichino, come quelle sagome che le nostre compagne d’asilo ritagliavano dai giornalini e incollavano sul cartone, per poi addobbare come alberi di Natale. Una volta scelte le scarpe (il top e i pantaloni attillati li aveva evidentemente già individuati prima che cominciassi a sbirciare), il dramma: nessuna delle borse possibili era adeguata. La mia vicina ha cominciato a selezionarne  diverse dapprima incuriosita, poi nervosa, alla fine in preda al panico: piccola, piccolissima, colorata, nera, in pelle, di cotone, grande, con tante tasche, senza, zebrata, scamosciata. Alla fine, insoddisfatta, ha deciso di cambiare scarpe, via gli stivaletti, ma a quel punto forse la gonna era più opportuna, e l’acconciatura? Non era forse il caso di raccogliere i capelli in una coda di cavallo, con un atteggiamento più sbarazzino piuttosto a quei capelli lunghi e mossi ma che richiedevano una borsa d’alta moda?

Non so sinceramente come sia andata a finire, è scesa continuando ad armeggiare disperatamente alla ricerca di una soluzione.
Speriamo che l’autista donna non scopra quell’app, altrimenti siamo finiti.

Licenziare il principe azzurro

Lprincipeicenziare il principe azzurro. Ora, subito. Se proprio non possiamo o vogliamo liberarcene con metodi più efficaci ma cruenti, il licenziamento disciplinare per giusta causa è un atto che non possiamo più rimandare. I gravi danni provocati da questa figura, presente da secoli nella cultura occidentale ma impostasi nei cuori di innocenti fanciulle solo nel secondo dopo guerra, sono sotto gli occhi di tutti. Complici anche i successi planetari di alcune trasposizioni cinematografiche, il principe azzurro ha rovinato generazioni di donne.

Migliaia di quarantenni belle, intelligenti, simpatiche, con una professione valida, interessanti, che se ne stanno lì alla finestra ad aspettare il loro principe azzurro. Proprio così. Ce ne sono ovunque. Sono in mezzo a noi, in alcuni casi si mimetizzano, ma il loro numero cresce esponenzialmente senza che le autorità intervengano per fermare il fenomeno. E attenzione, non parlo di quelle che cambiano principe con la frequenza con cui si cambia la biancheria intima (spesso in concomitanza). Talmente veloci nel loro turbinio sentimentale che del principe la mattina dopo non ricordano affatto il colore, azzurro, rosso, verde, chissà. Loro vivono la loro vita in libertà senza crucci, e al limite al principe grigio penseranno con la pace dei sensi. Loro sono a posto, escludiamole. Non mi riferisco nemmeno alle donne che sentono il bisogno di un uomo come di un videoregistratore betamax o di un ventilatore a pedali.

E attenzione, non parlo nemmeno delle zitelle, quelle donne più acide di un bicchiere di latte scordato sul tavolo della casa al mare a settembre e riscoperto il giugno successivo. Anche loro vivono in libertà e senza crucci, al limite qualche problema potranno averlo gli esseri viventi che malauguratamente ne incroceranno il destino, siano essi colleghi, parenti, vicini di casa, piante da balcone. Al limite troveranno conforto con gli acidi uomini zitelli, che non sono da meno. Ma, come dicevo, non parlo di loro. Le quarantenni condannate dal principe azzurro, cui faccio riferimento in questo articolo, hanno tutto per piacere e vorrebbero anche compagnia, al contrario delle altre, vai tu a capire perché. E magari sono anche un po’ infelici. Non un’infelicità da dramma, per carità. Diciamo piuttosto quell’infelicità che ti prende quando scopri in fondo alla tasca dei pantaloni un buono sconto che non hai usato in tempo, ecco. Quell’infelicità lì.

Perché parlo di quarantenni? Perché a vent’anni hai altro a cui pensare, a trenta hai ancora la vita davanti, a quaranta pure ma, come dire, anche quella che hai dietro comincia a farsi notare.

Il principe azzurro già dal nome italiano dimostra la sua pochezza, come cappuccetto Rosso si identifica per le scelte cromatiche dell’abbigliamento: almeno gli inglesi lo chiamano principe affascinante, è già più dignitoso. Chi è costui? Un uomo bello, affascinante appunto, ricco e forse anche intelligente (a dire il vero non ci sono prove che attestino quest’ultimo dettaglio, per cui procediamo per supposizioni), il prototipo insomma di ciò che nessun uomo sarà mai, perché la combinazione dei tre elementi è impossibile. Ci sono quelli belli e ricchi (con i soldi di solito non si lavora in fabbrica e la morbidezza della pelle ci guadagna) ma intelligenti quanto l’aiutante automatico di Windows, quelli belli e intelligenti che però di mestiere lavorano nei call center o fanno i cultori della materia all’Università, quelli ricchi e intelligenti ma belli come un ritratto cubista. Aspettare la terna è come vincere alla lotteria.

Anche perché serve un quarto elemento decisivo: il principe azzurro delle favole arriva e, patapunfete, si innamora della protagonista nella quale alcune donne si identificano. Senza bisogno di essere sedotto. Senza che Cenerentola gli abbia mai cucinato, che so, due spaghetti allo scoglio, senza che Biancaneve abbia bisogno nemmeno di mostrare una giarrettiera. Senza fingere di capirne di calcio o motori, senza dare l’impressione di essere interessate a quello che lui dice. Alcune se ne stanno addirittura stese prive di sensi, e in quel torpore conquistano il cuore del bellimbusto coronato. A loro basta stare lì, e il principe azzurro cade ai loro piedi. È questa la fregatura delle quarantenni cresciute con il principe azzuro: stanno lì ad aspettarlo, quando invece bisogna battersi e darsi da fare per conquistarlo. Fare la prima mossa e se serve anche la seconda e la terza, che se le donne son cresciute ascoltando le fiabe, gli uomini son cresciuti guardando Sanpei. E infatti sono degli autentici baccalà da cacciare e cuocere.
Sempre che ne valga la pena, direte voi, visto che nessuno sa veramente cosa celi quell’ambiguo “e vissero tutti felici e contenti”…

Donne, uomini e tecnologia

vhsGli uomini inseriscono i coltelli nella lavastoviglie con la lama verso l’alto, perché è risaputo che così si lavano meglio. Le donne inseriscono i coltelli nella lavastoviglie con la lama verso il basso, perché è risaputo che così si evita di scarnificarsi le braccia. Gli uomini rimuovono la polvere dai loro prodotti tecnologici, le donne usano prodotti tecnologici per rimuovere la polvere.
Gli uomini usano più shampoo e prodotti di bellezza per la propria automobile di quanto non ne usino per se stessi; per le donne a parte la benzina e l’acqua per i tergicristalli, di cos’altro dovrebbe avere bisogno quell’arnese per andare?
Gli uomini riempiono la lavatrice prima di farla andare perché così consuma meno acqua. Le donne la fanno andare appena vedono sentore di calzini post-calcetto, perché ritengono che la loro serenità venga prima del consumo d’acqua.
Per un uomo occorre assecondare le macchine, per le donne sono le macchine che devono assecondare noi. E non è un caso che i personal computer abbiano cominciato ad essere davvero user-friendly quando anche le università scientifiche americane, tra gli anni settanta e ottanta, hanno cominciato a essere popolate da ricercatrici che proprio non accettavano quel modo freddo e impersonale di dare ordini ai calcolatori (command-line, si chiamava, vi ricordate?Copia! Cancella! Scrivi!). Vuoi mettere le infinite possibilità di arredare un desktop?
Io dico che dobbiamo ringraziare le donne se la tecnologia va avanti e semplifica la vita. Perché chi si oppone a loro è destinato alla scomparsa: ricordate quanto complicato fosse programmare un videoregistratore, e quanto lo odiassero molte signore? Ebbene, guardatevi intorno, e ditemi quanti videoregistratori vedete in giro. Ricordate quanto vostra madre odiasse quei televisoroni 25 pollici profondi mezzo metro che gli rovinavano la sala? Gli schermi sottili li hanno imposti le matrone giapponesi, altro che.
Sapete, per la tradizione cristiana Maria è ascesa al cielo dopo la morte, ed è stata la prima, perché gli altri dovranno aspettare il giudizio universale. Ed è un bene, perché almeno potrà organizzare per bene la permanenza di chi ci arriverà. Avesse dovuto fare Gesù tutto da solo, il paradiso sarebbe un posto pieno di schermi catodici a fosfori verdi e vhs.

La signora Ikea contro Mister Mondoconvenienza

ikeaStiano tranquilli gli avvocati dei due gruppi commerciali citati nel titolo di questo post, i loro seguigi a caccia di articoli che minino la reputescion o anche semplicemente gli appassionati di arredamento: non ho intenzione di parlare della qualità dei prodotti di questi due fornitori. Peraltro sono un cliente piuttosto soddisfatto di entrambi, per quanto non faccia testo perché posso spaccare il capello ed essere un cliente molto esigente quando si tratta di tecnologia, ma quando si tratta di un tavolo o di un armadio per me l’importante è che stia su.

Sono le filosofie di acquisto che ruotano intorno a questi marchi che mi interessano, l’acquirente ludico e l’acquirente funzionale di flochiana memoria.

Al cliente ludico piace fare acquisti. Gli piace mettersi in macchina il sabato mattina, ritrovarsi nel traffico della tangenziale con altre centinaia di ludici come lui, forse gli piace persino il salmone che mangia durante la sua gita al centro commerciale. Gli piace muoversi tra gli ambienti colorati, scegliere il mobile di cui ha bisogno tra una sala e l’altra e nel frattempo magari comprare posate e piatti di plastica dai colori talmente vivaci che la lavastoviglie quando li vede arrivare indossa gli occhiali da sole, curiosi ciappetti che dovrebbero servire a chiudere i pacchi ma che funzionano solo in Svezia (in Italia ce ne vogliono tre per fare il lavoro di una dignitosa molletta), marmellate fuxia che di notte diventano fosforescenti (e se ne mangiate tanta in effetti potrebbe servire come colonoscopia). È risaputo che Ikea come altre catene della grande distribuzione analoghe basino una fetta rilevante del proprio business proprio su questi accessori.

Pazienza se poi occorre portarsi a casa, due piani senza ascensore, un oggetto imballato lungo due metri e spesso 40 cm senza alcuna maniglia, che pesa dannatamente e le cui tracce nella tromba delle scale allieteranno il dibattito della prossima riunione di condominio. Pazienza se alla fine di un pomeriggio estenuante l’armadio montato in casa barcolla vistosamente e vi è avanzata una mensola e tre viti. Tanto fra una settimana è di nuovo sabato e si riparte, abbiamo giusto dimenticato di comprare due lampadine.

Al cliente funzionale il prodotto serve. Punto. Ne ha bisogno, prima arriva e meglio è: se risponde alle sue esigenze, è contento. Non ha tempo da perdere, il cliente funzionale, e non è particolarmente interessato neanche alla possibilità di scegliere tra un ventaglio di alternative diverse. Il cliente funzionale si mette al computer – ma i nostalgici del mondo analogico potranno sfogliare un catalogo riportando alla memoria i bei tempi andati di Postal Market e Vestro), verifica le misure, ordina. E include nel prezzo la consegna e il montaggio, cosicché un paio di giorni dopo due omaroni suonano a casa, entrano con l’oggetto imballato lungo due metri e spesso 40 cm (ma loro sono in due, eh!), in venti minuti l’hanno montato e messo al suo posto, si sono fatti pagare e hanno salutato.

In casa mia, l’avrete capito, Mister Mondoconvenienza sono io. Per me l’idea di fare una telefonata e avere qualcuno che mi risolve il problema senza impicci è un lusso a cui non so rinunciare. Ovviamente la signora Ikea è mia moglie, che invece trova assurdo spendere qualche decina di euro per la consegna e il montaggio quando possiamo fare da noi (e usarli magari per comprare i maledetti piatti e ciappetti psichedelici). Magari in un’altra coppia le parti si invertono; oppure ci sono coppie che pascolano felici per l’Ikea mano nella mano con il carrello pieno di caramelle al lampone. Non lo so, ma ho la sensazione che l’ipotesi funzionale (o pigra, se vogliamo dirla tutta) sia molto maschile, e quella ludica molto femminile. Tranne il caso patologico di quei viri dal petto villoso che si comprano tre assi di legno e una motosega perché pensano di costruirsi la camera da letto da soli (che però mi pare una moda decisamente in calo).

PS Ovviamente i mobili potete ordinarli online o farveli montare anche dall’Ikea, così come potete visitare un negozio di Mondoconvenienza e andare a ritirare la merce al magazzino. Ma è qualcosa di intrinsecamente innaturale, come festeggiare l’addio al celibato a Parigi e andare in viaggio di nozze ad Amsterdam. Non si fa.

Là sotto

semaforoC’è un elemento che da sempre accomuna tutte le donne che ho conosciuto in vita mia, dalla mamma alla passante cui chiedi informazioni. Si tratta della capacità di sintesi quando si tratta di dare indicazioni. Dov’è il caffé? Là sotto. Cioé è là, quindi un qualunque punto dell’universo che non sia qui (o qua, per fare rima). Escludendo qua, rimangono appunto tutti gli altri punti dell’universo.

Abbiamo però una precisa indicazione: sotto. Cioé, rispetto a qualche oggetto non meglio identificato, il caffé è in una posizione subalterna. Sicuramente è sotto il lampadario, forse sotto la mensola, probabilmente in un cassetto inferiore della dispensa. Provare a chiedere ulteriori dettagli è pressocché inutile, la donna in questione, sia essa mamma, nonna, moglie, amante o autostoppista rimorchiata in autogrill divericherà le narici, scuoterà una mano come a farsi largo con noncuranza e in pochi istanti tirare fuori il caffé, spiegando: te l’ho detto che è là sotto, dove hai gli occhi?

Gli occhi dei maschi sono là dove dovrebbero essere (e cioé in mezzo al volto, tra la fronte e gli zigomi: un po’ di precisione, diamine!), solo noi siamo dotati di un navigatore che raccoglie informazioni e ci indirizza sulla base degli indizi raccolti. Non ci sono inferenze induttive, ricordi di infanzia, istinto materno o fiuto primordiale a guidarci, solo le indicazioni ricevute.

Scusi, dov’è il duomo? Uomo: “Prosegua dritto, superi il semaforo, poi svolti alla seconda a destra, poi ancora a sinistra, c’è una piazzetta, parcheggi perché è quasi arrivato”.

Scusi, dov’è il duomo? Donna: “Guardi, non può sbagliare, è una bella chiesa romanica, con una facciata maestosa, proprio in centro, prosegua di là, sempre dritto, poi dopo un po’ gira, dove ci sono quelle boutique con i saldi, poi al limite chiede. E buon viaggio, eh!”.

Avete presente i parcheggi dei supermercati? B8, seconda fila ottava colonna, si capisce che deve averlo progettato un uomo. Perché è quadrato come la nostra testa. Una donna avrebbe dato ad ogni colonna il nome di un colore. Dov’è la macchina? Pesca turchese. Poi al limite chiede.