I compiti a casa non sono solo l’incubo degli studenti. Sono anche l’ossessione dei giovane papà, che nel fine settimana vorrebbe rilassarsi un po’, mettere il naso fuori casa, divertirsi, e invece se ne sta lì, accigliato, di fronte alla durissima poesia senza rime che occorrerà imparare questa volta, e che gli riempirà buona parte del week-end. Avete presente il momento in cui ti arriva una raccomandata verde, e il cuore sembra rallentare fino quasi ad arrestarsi mentre fai mente locale cercando di ricordare se e quando avresti potuto prendere una multa? Oppure quello in cui ti affrettavi nei corridoi del liceo cercando i famigerati “quadri”, l’esposizione al pubblico ludibrio di un anno di fatiche?
Ebbene, l’apertura il venerdì pomeriggio del diario del figlio provoca più o meno le stesse ansie e paure. Perché è vero che i compiti a casa sono principalmente un problema dello studente, ma è anche vero che, almeno nei primi anni delle elementari, nemmeno il conte Ugolino può fare finta di niente di fronte a un figlio che ripete Help! I need somebody. I compiti sono una cosa brutta. Lo erano per me quando ero uno studente, lo sono da papà. Poi per carità, ci sono cose brutte ma simpatiche, come vecchia la zia che ci portava le caramelle al latte, cose brutte e necessarie, come l’estrazione di un dente cariato. Resta il fatto che per il giovane papà rappresentano un morso feroce che una maestra dà a quella fettina sottile della sua vita che si chiama tempo libero. Poi, aggiungo, lungi da me ricoprire il ruolo di chi si schiera dalla parte dei figli contro gli insegnanti, perché mio figlio è bravo sono loro che, perché non è maleducato è solo molto vivace, perché cosa sarà mai dare fuoco alla scuola sono ragazzi su. Quella mentalità non mi appartiene. Si dice che i compiti a casa servono, io non sono un pedagogista, mi adeguo. Però però un pensiero perfido ogni tanto fa capolino. Perché lo so che i ragazzi sono tanti, non ci sono abbastanza risorse per gli insegnanti di sostegno, quello di insegnante è un lavoro troppo poco retribuito e riconosciuto. Però però l’impressione è che nel week-end, talvolta, si debbano recuperare dei ritardi accumulati nei primi cinque giorni di scuola ogni tanto viene. Sbagliata, sicuramente. Maligna, di certo.
Però però, cari insegnanti, cosa pensereste se il gestore di un ristorante ad un certo punto vi dicesse: mi dispiace ma frutta e dessert ve la mangiate a casa perché non ho avuto il tempo di occuparmene? E se il gommista vi cambiasse tre ruote, che tanto la quarta troverete il tempo di cambiarvela da soli il sabato pomeriggio? Non sono bei momenti, perché a nessuno piace fare il lavoro per cui sono pagati altri. Adesso vado, che altrimenti non finiamo nemmeno per domenica sera.
regua. Ne ha fatti di chilometri, il piccolo suv, godendosi i momenti di celebrità, come la prima volta che è apparso dai nonni portando in sé il piccolo tesoro eccitato, oppure alla presentazione di “Bologna l’oscura“, in fondo alla sala, consapevole di attrarre l’uditorio molto più dello scrittore, grazie anche ai mugolii ruffiani del passeggero. Un po’ mi mancherà l’abitudine a guardarlo con la coda dell’occhio, parcheggiato sornione dietro l’albero al parco mentre aiuto mia figlia ad arrampicarsi sullo scivolo, e mi mancherà anche il suo capiente fondale capace di trasportare libri, giochi, ombrelli, biscotti, cambi, insomma il minimo indispensabile per chi esce di casa con un bimbo che ha meno di tre anni.
– Papà, papà do andiamo?
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L’aula mi sembrò grandissima. E piena di luce. Sulle pareti c’erano delle lettere accompagnate ad alcune immagini, una cartina geografica dell’Italia e un crocifisso in alto. In fondo una lavagna nera con la cornice di legno. Io indossavo un grembiule blu che mi metteva un po’ d’ansia perché non riuscivo a mettere le mani in tasca. Per fortuna la mamma mi aveva preparato un fiocco a strappo, per cui non era costretta a legarmelo dietro al collo. Odiavo le cravatte già allora. La maestra mi sorrise e mi invitò a sedermi in un banco verso la metà dell’aula. Era una signora piccola ed era incredibile come l’attenzione di tutti noi si focalizzasse su quella voce, sui quei gesti. Nella mia cartella di Topolino c’era un diario, quaderno a quadretti, un quaderno a righe e un astuccio con i colori. E la merenda, che in realtà occupava di gran lunga più spazio di tutto il materiale didattico. C’era anche un bicchiere rosso di plastica, di quelli che si richiudevano, e di solito lo facevano al momento sbagliato, proprio mentre mi dissetavo, innaffiando il mio fiocco a strappo e il mio grembiule blu.
Domenica mattina: nella sala parrocchiale attigua alla chiesa dove si sta celebrando la messa, un gruppo di papà controlla i piccoli teppisti qui relegati per impedire loro di dare fuoco alle navate con le candele votive, capovolgere i banchi con i nonni appisolati e correre verso l’altare scivolando sul pavimento lucido. Nella saletta gli spazi sono limitati, le possibili arme improprie costantemente monitorate, le bizzoche che guardano di traverso i piccoli rumorosi isolate al di là di una solida parete.