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Il volo di un unicorno

Il cuore di Cicciobello smise di battere in un afoso pomeriggio di giugno alle 19,42. Lo chiamavano Cicciobello perché era ciccio, non  perché era bello. E chiamarlo Cicciobrutto era sembrato un modo di infierire gratuito ed eccessivo persino a loro. Era grasso, impacciato nei movimenti, lento. Un rinoceronte. Giocava solo perché la palla era la sua. A dire il vero era quello il motivo per cui loro non lo chiamavano Cicciobrutto.

Giocava in porta, e come la maggior parte dei portieri aveva scelto quel ruolo perché l’alternativa era fare l’arbitro, e a Cicciobello piaceva giocare,
non guardare gli altri. Gli altri erano i suoi compagni di squadra, che all’inizio erano stati un tantino scettici nei confronti delle sue capacità, e lo si intuiva perché piuttosto che passargli la palla indietro la cacciavano con foga in calcio d’angolo. In quegli anni il portiere poteva ancora bloccare con le mani la palla su passaggio del difensore, ma il primo passaggio Cicciobello lo raccolse dopo cinque partite. Si scoprì in seguito che si era trattato di un errore.

Col tempo però quel ragazzone conquistò forse non la stima ma almeno la tolleranza dei suoi compagni di squadra. Merito forse di quella divisa da portiere del Napoli che si era fatto regalare per il compleanno e che gli attribuiva un’indiscutibile fascino sacerdotale, se paragonata alle misere magliette bianche di cotone con il numero scritto con l’Uniposca e le strisce sulle braccia fatte con il nastro adesivo nero dei suoi compagni di squadra. Avrebbe voluto la divisa della nazionale, Cicciobello, ma la madre non aveva trovato la taglia adatta e il celeste del Napoli le era sembrato un’approssimazione accettabile.

Cicciobello non aveva buoni riflessi e la sicurezza nei suo mezzi era tale da rendere anche un rinvio con i piedi un’operazione da ponderare attentamente. Oltre tutto quella divisa sintetica lo faceva sudare come in una sauna per cui già dopo pochi minuti grondava sudore ed il suo colorito paonazzo denunciava una preoccupante carenza d’ossigeno. Ma aveva coraggio. Cacchio, se aveva coraggio, quel ragazzone massiccio come un rinoceronte. Lui non parava, lui si esponeva. Allargava le braccia, si piegava leggermente sulle ginocchia, gonfiava il petto e attendeva che l’attaccante adempisse alla sua missione.

Un attaccante furbo non avrebbe avuto difficoltà a piazzare la palla con un piatto di giustezza tra le gambe di Cicciobello. Al limite un dribbling appena accennato e poi un tocco d’esterno lo
avrebbero facilmente aggirato. Ma la furbizia era dote piuttosto scarsa negli attaccanti che concludevano immancabilmente l’azione con una puntazza, cioè una fucilata da distanza ravvicinata
realizzata colpendo il pallone con la punta della scarpa. Le possibilità di centrare Cicciobello, con quelle premesse, erano piuttosto elevate, visto che con la sua mole copriva tranquillamente un 40% della porta. E infatti lo centravano eccome. Qualche volta sul braccio o sulle gambe, dando all’azione una parvenza di respinta del portiere. Il più delle volte sulla faccia o lo stomaco, tant’è che Cicciobello, che per completare il suo portfolio agonistico era anche miope, giocava con una montatura di occhialini da piscina su cui aveva attaccato le lenti con lo scotch, perché la madre al terzo paio di occhiali stampati in fronte e frantumati aveva minacciato di iscriverlo ai corsi di danza classica.

Il cuore di Cicciobello si fermò in seguito ad un calcio di rigore alle 19,42. All’inizio la considerazione nei suoi confronti era tale che tutte le volte che la sua squadra subiva un
calcio di rigore si decideva una sostituzione al volo, per cui Beppe, l’opinion leader nonché idolo delle compagne di classe, lo rimpiazzava in porta, per poi cedergli nuovamente la posizione dopo il rigore. Si trattava evidentemente di una crudeltà inaudita, perché era come costringere una persona a farsi carico di tutto il lavoro ordinario per poi rimpiazzarla e metterla da parte nei momenti di maggiore visibilità.
Be’ insomma, considerando che si trattava di ragazzini meridionali, non era poi così crudele: meglio che si abituassero sin da giovani.
A furia di fucilate respinte con il muso, Cicciobello si era conquistato il diritto di restare in porta pure in caso di rigore, anche perché Beppe era sì un discreto centravanti ma in porta si scansava sempre per paura di rovinarsi il ciuffo. E quel diritto aveva aumentato esponenzialmente il numero di sbonnate, cioè di tiri violentissimi a cui era sottoposto il volenteroso ragazzone.

In particolare le quotazioni di Cicciobello salivano esponenzialmente in caso di partita sulla spiaggia. In questo caso infatti erano numerose le variabili che si volgevano a favore dei portieri in generale, e a favore suo in particolare. Intanto, non c’erano porte. La vis polemica che caratterizzava le partite di calcio di quel gruppo di quindicenni trovava allora terreno fertile, perché ci potevano volere anche delle ore e qualche rissa prima di stabilire se la palla si era infilata sotto l’angolino virtuale alla destra di Cicciobello oppure, in una simulazione fisica degna di un laboratorio del Cern, era rimbalzata sul palo interno modificando la traiettoria ed uscendo poi dalla linea di fondo. Tutto quello che c’era era un
pallone finito venti metri oltre ed una pantofola Champ conficcata nella sabbia che comunque dalla sua
posizione a testa in giù non sarebbe stata un testimone attendibile.
Se a decidere erano le risse,
Cicciobello, che per altro era buono come il pane, aveva una o due argomentazioni da far valere. Poi bisognava considerare che la sbonnata a piedi nudi aveva delle controindicazioni non da poco, come aveva imparato a sue spese Beppe che aveva smarrito più di un’unghia nel tentativo di riprodurre in riva allo Jonio le sue proverbiali puntazze. Ultimo argomento decisivo a favore di Cicciobello, il fatto che la soffice sabbia dorata di Castellaneta Marina era un letto di piume su cui lasciarsi andare dolcemente rispetto all’asfalto infame delle partire giocate giù alle palazzine dell’Italsider o ai sassolini infingardi che gli si conficcavano nelle costole quando si giocava nel campetto vicino alla ferrovia. Insomma, sulla spiaggia Cicciobello sapeva il fatto suo – anche se obiettivamente il boxer arancione con i girasoli gialli gli donava meno della divisa del Napoli – e le sue performance in riva al mare gli avevano permesso di conquistarsi un posto da titolare anche per la stagione invernale.
Il rigore che alle 19,42 fermò il cuore a Cicciobello era stato causato da Antonio Luccarelli, lo Scirea della squadra del palazzo, così chiamata perché si trattava di amici che abitavano nello stesso complesso di appartamenti. Avevano provato anche altri nomi, tra cui Palace’s Boys (che dava un tocco di internazionalità) e Spandau Ballet (che non dava una mazza ma avrebbe dovuto attirare le ragazze), ma alla fine era rimasta la squadra del palazzo. Antonio era un ragazzo piuttosto veloce, agile, che avrebbe potuto anche conquistarsi un certo successo in quelle partite pomeridiane se il suo gioco non fosse stato appesantito dal peggiore dei fardelli: la coscienza. Mentre gli altri infatti rincorrevano il pallone in mischie rugbistiche e si proponevano sempre e comunque come attaccanti, Antonio aveva coscienza, e rimaneva dietro a coprire, perché sapeva che in caso di contropiede il modulo 1-0-9 era comunque più affidabile dello 0-0-10. Perciò Antonio rimaneva nelle retrovie, lontano dall’azione, a ingoiare polvere e respingere pallonate, con l’aggravante che quando riusciva a conquistare il pallone veniva subissato dalle urla dei nove centravanti che chiedevano di essere messi nelle condizioni di segnare. L’unico dotato di un minimo di competenza tattica era Leo, l’intellettuale del gruppo, che in effetti copriva sempre a dovere il suo ruolo di centrocampista (avanzato, per carità), ma era talmente imbranato che non opponeva più resistenza della bandierina del calcio d’angolo.

La partita era una partita importante, la più classica delle sfide che agitavano la gioventù di Statte, provincia grigia di Taranto, alla fine degli anni ottanta, tra un attentato dinamitardo ed un avvertimento mafioso: ad affrontare la squadra del palazzo, figlia della piccola borghesia del centro, era la squadra della zona residenziale, figlia aristocratica di chi viveva nel verde in collina. Certo mancava il proletariato della squadra delle palazzine dell’Italsider, ma dai tempi della rivoluzione francese gli ultimi avevano delegato ad altri la propria rappresentanza. La squadra del palazzo, umiliata e sconfitta decine di volte da quella della zona, i cui componenti giocavano a tennis, facevano nuoto, avevano buoni voti e si scambiavano complimenti in inglese, incredibilmente era riuscita a portarsi in vantaggio alle 18,21 con un gol in mischia del solito Beppe, che era riuscito a infilare la sua punta miracolosa in una selva di gambe. Il che era inaudito per una squadra i cui componenti giocavano a ciclotappo sui marciapiedi, andavano a nuotare a Lido Gandoli senza pagare il biglietto dell’autobus e si scambiavano epiteti irripetibili in una lingua apparsa a Statte qualche secolo prima dell’italiano.

Quel gol bisogna difenderlo, però. I nove centravanti, consapevoli per una volta delle necessità della patria, avevano arretrato il loro raggio d’azione applicando la cosiddetta marcatura a donna: bisognava stare appiccati all’avversario come se fosse stato la più sinuosa delle donne, non dargli spazio, fargli sentire il fiato sul collo, ghermirlo senza ricorrere al fallo con l’unico intento di allontanare da Cicciobello quel maledetto pallone. Non era facile, anche perché le partite non avevano un tempo prestabilito, si giocava finché c’era luce, finché c’era fiato, finché le gambe reggevano.
Ma la squadra del palazzo ce l’aveva fatta, mostrando una compattezza e una coordinazione insolite, con quell’amalgama che nelle altre partite contro la squadra della zona residenziale aveva lasciato spazio a individualismi, incomprensioni e inevitabili sonore sconfitte. Ormai era quasi buio e per quanto fossero ben allenate anche le gambe slanciate dei ragazzi della zona cominciavano a perdere colpi. Beppe sentiva di aver compiuto a pieno il suo compito e disdegnava di tornare indietro a coprire, ogni volta che veniva sfiorato gridava e si lanciava per terra per prendere tempo, ma questa non era una novità: la novità fu che Stefano, lo spilungone che si faceva valere solo di testa e per l’uso sapiente dei gomiti, alle 19,39 decise di lanciarsi in un dribbling a testa bassa contro la difesa avversaria. Un raptus di follia come te ne capitano dopo aver corso tutto il pomeriggio in un campetto ricavato accanto alla
ferrovia, stando attento a non calciare la palla troppo a sinistra altrimenti finisce sui binari. Gli avversari non aspettavano di meglio: lo fermarono morbidamente con una padronanza che si era vista solo ai giocatori virtuali del Commodore 64, in due tocchi saltarono la metà campo e si lanciarono in due contro uno verso la porta dei ragazzi del palazzo.

Due contro uno, ma uno era Antonio Luccarelli, lo Scirea del palazzo, uno tosto, uno che non tornava mai a casa senza un corredo di tagli e sbucciature, uno che portava in campo l’autorità delle cicatrici sulle ginocchia. Antonio capì subito chi avrebbe tentato il tiro, gli si lanciò contro, scivolò in un tackle perfetto, sembrava un rasoio, che con una gamba ti ferma il pallone e con l’altra te lo porta via, il movimento fu eccezionale, ma quello non era San Siro, quelle non erano guance lisce, e così il polpaccio colpì una pietra e finì per intercettare anche le gambe dell’attaccante che alle 19,40 cadde gridando oh my god e rotolò come se l’avessero operato a freddo di appendicite. Seguì un silenzio di tomba, ma Cicciobello capì che era venuto il suo turno. Antonio infatti si rialzò con calma, tese una mano verso il ragazzo che era caduto, gli disse qualcosa di taumaturgico per cui questi smise improvvisamente di piangere e lamentarsi, poi alzò il braccio e indicò un punto di fronte a Cicciobello: è rigore. Nessuno osò opporsi. Se l’aveva detto Antonio, era rigore. Il miracolato aveva recuperato le forze, andò a sistemare il pallone con cura di fronte a Cicciobello. Prese una lunga rincorsa, e Cicciobello sentì il sangue che gli pulsava nelle tempie, l’odore dell’erba che si faceva più intenso, si asciugò il sudore dalla fronte e non si preoccupò del fatto che gli occhialini erano sporchi. Non era importante guardare la palla, adesso, l’importante era esserci, rischiare, decidere quale sarebbe stata la traiettoria del pallone e lanciarsi in quella direzione. Cicciobello era un rinoceronte, ma sapeva bene che il rinoceronte è un animale feroce, che dietro l’aspetto sornione nasconde una forza di volontà e dei muscoli possenti, un bestione grezzo che dentro sé vela l’eleganza di un unicorno. E volò, Cicciobello, si lanciò nell’aria, e capì che il pallone non avrebbe superato la linea di porta perché c’era lui, su quella linea, e l’avrebbe impedito ad ogni costo. La sbonnata colpì con violenza quel rinoceronte che si sentiva un unicorno, e gli fermò il cuore. Fu un attimo, impercettibile. Alle 19,42 e pochi secondi un angelo distratto si accorse che il suo custodito stava per ritornare a casa prima del previsto. Non poteva finire così, vabbe’ il libero arbitrio ma quella partita meritava un finale diverso. Qualcosa accadde perché alle 19,43 Cicciobello riaprì gli occhi, il petto ansimante, e vide tutti i suoi amici intorno a sé. Il suo sguardo incrociò subito quello di Antonio, che dopo essersi avventato sul pallone dopo la respinta di Cicciobello e averlo scaraventato via, aveva capito che qualcosa non andava.
Ma dopo qualche istante di smarrimento, il cuore di Cicciobello aveva ricominciato a macinare più forte che mai.
Le ombre lunghe della sera si adagiavano sull’orizzonte rossastro dell’Italsider. Il rinoceronte, almeno per quella calda sera di giugno, era stato il più leggiadro degli unicorni

IN VINO VERITAS Incipit di Alessandro Bergonzoni

In vino veritas in lino terital, per ben bere ci vuole stoffa! Questo disse al parco Lambro re Usco, pronipote di Bacco da parte di nonna, nonna Astemia, in una notte in cui pioveva come al solito acqua. Re Usco, grande monarca e pensator di marca, ebbe un’idea metereologetilica che avrebbe mutato il corso della storia logica ed enologica mondiale: cambiare l’essenza della pioggia in quanto tale. Gli sarebbe piaciuto cioe’ in sostanza creare delle nuvole nerorosso che a contatto con fulmini venti e altri fenomeni elettrostatici irrorassero nientepopodimeno che vino.Re Usco allora un bel dì partì dalla sua villa al Parco Lambro per venire in Emilia ed iniziar certi esperimenti al riguardo ma nel traffico caotico di Modena si imbottiglioò (atavico presagio del suo fortunato futuro destino); stette quasi un anno e mezzo davanti ad un semaforo ovviamente rosso e praticamente invecchio’, imbottigliato, e bloccando per di piu’ tutti quelli dietro di lui, infatti faceva da tappo! Questa ben strana congerie di fatti fece si che…

…la sua idea fermentasse. Un po’ inacidito dall’attesa ma reso frizzantino dalle idee che gli balenavano per la testa inseguite dai pescatori di frodo giapponesi, Re Usco abbandonò per strada la macchina dopo averla sedotta (una torbida storia di autoerotismo) e si avviò a piedi per brevettare la sua idea. Il brevetto fu altresì lunghetto data la complessità del piano che sulle prime fu interrato ma poi riuscì a salire le scale del successo. Il progetto di Re Usco prevedeva di sparare nel cielo cannonate di alcol compresso e diffondere tramite un aeroplano succo d’uva liofilizzato che, mescolato alle poderose nuvole modenesi (provenienti tutte cioè da un podere di un amico di Re Usco, il famoso Podere è volere), avrebbe fatto piovere vino di prima qualità. Il getto d’alcol avrebbe dovuto essere maestoso e reale, Re Usco era ovviamente dalla parte del pro-getto ma tanti furono anche i pareri contrari al getto, finché non si raggiunse un accordo, il classico si- la -do (l’autorizzazione, ovviamente) strimpellato dai tecnici della regione.
Il primo lancio fu un disastro: la palla d’alcol compresso infatti centrò in pieno uno degli aeroplani che stavano diffondendo il succo d’uva, il pilota precipitò ma non fu necessario curarlo troppo perché era già ben disinfettato. Addirittura, sollevandosi dai rottami in fumo, l’aviatore ebbe modo di fare una battuta, ovviamente una battuta di spirito. La seconda cannonata fu deglutita prontamente da un piccione che si era posto sulla traiettoria e che svolazzò felice e inebriato. Re Usco e i suoi lo mandarono ovviamente a cagare e così fece prontamente il colombo che arrivò fino a Piazza Grande dove sfogò i suoi sfinteri fortemente sollecitati. Purtroppo l’attrito e dei vecchi problemi intestinali fecero un brutto scherzo al volatile che partì a razzo verso la ionosfera e finì sotto la tettoia di una stazione spaziale russa.
Di fronte a questi fallimenti Re Usco rimase senza parole: temeva che tutto finisse a tarallucci e vino, ma i tarallucci costavano cari e del vino neanche l’ombra. Persino la nonna Astemia cadde al suolo affranta, ma raccolse presto i suoi frantumi e si fece Animo che sopportò pazientemente (Animo era il cognome Giovanni Animo, un suo amante, un giovane pierre in co.co.co abituato a prestazioni professionali promiscue, pr appunto). Coraggio, fatevi Animo anche voi, gridò la nonna ai collaboratori di Re Usco mentre il povero Giovanni fuggiva disperato, temendo una conclusione grigia del solito rapporto in nero. Povero Giovanni, l’ultima volta che aveva chiesto a nonna Astemia di mettere nero su bianco il suo rapporto, quella vecchia libertina gli aveva proposto un suo amico senegalese. No, no, non mi interessa questo tipo di rapporto così leggero – tuonò allora Re Usco – io preferisco il cambio meccanico, e poi è risaputo che ho una marcia in più: questo rapporto non mi soddisfa. Dovremmo cercare una soluzione invece di sollazzarci! A proposito, c’è troppo sole, mi avevano promesso nuvole poderose, al podere mi sentiranno! La soluzione dov’è? No che non posso aspettare il prossimo numero, la voglio adesso! Ma sire, ribatterono i collaboratori, non cerchi di continuo la soluzione, si sa che non c’è soluzione di continuità! Qui va tutto a farsi friggere, altro che, ribatté Usco, ma la frittura senza un buon vinello è indigesta. E allora?
In Medio Stat Virtus, disse qualcuno, no, Virtus Stat in Serie B, rispose ridacchiando il re di chiara fama fortitudina, e l’arguzia risollevò il suo spirito. Risollevare lo spirito: ecco la soluzione, alcalina ovviamente. Non bisognava sparare l’alcol, né sul pilota, né sul piccione né sul pianista (che sul pianista non si spara mai) ma farlo salire dolcemente, in mongolfiera magari!
Presto fatto, Giovanni Animo – che visto la precarietà della sua condizione lavorativa si faceva da anni – fu issato su una mongolfiera e partì con il suo carico di alcol compresso. Anche Giovanni era piuttosto compresso visto l’esiguo spazio, ma giunto in cielo, cominciò a diffondere il suo alcol, come da contratto, in effetti era piuttosto contratto vista la posizione scomoda.
Il processo sembrò funzionare ma i tempi furono lunghi – i processi in Italia vanno sempre per le lunghe, è risaputo – e soprattutto Re Usco non aveva previsto il vento. Le nubi poderose, cariche di alcol e uva, infatti, diedero sì origine ad una pioggia di vino, ma più a nord, in Lombardia, dove le portò una perturbazione turbo che turbò non poco il re e suoi agenti (i reagenti, appunto) che reagirono male. Ad approfittare della situazione fu una famiglia di lontani cugini milanesi di Re Usco, gli Usconi, che approfittarono dell’ubriacatura del popolo per conquistare bellamente il potere (i Bei Re Usconi, appunto, fu il nome della dinastia che perdura tuttora).
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampone, pensò Re Usco a cui tutto quel trambusto aveva messo appetito, se poi con la gatta frettolosa ci stanno anche i gatti ciechi (o slovacchi, cambia poco) la situazione di complica, e per giunta non ci sono più l’inve, la prima, l’autu e questo è grave. Basta rattristarci, pensò Re Usco: l’ambiente non ha il senso dell’umorismo per cui con l’ambiente non si scherza. Il vino continueremo a farlo con i sistemi tradizionali, niente cannoni, uva in polvere e altre porcherie. Ho imparato la lezione, mi è costata cara ma le lezioni di inglese mi sono costate anche di più e non c’ho imparato nulla, per cui, si festeggi!!!
Tutto è bene ciò che finisce bene, dunque, a patto che non ci sia il solito sequel.

PS Di Giovanni Animo si sono perse le tracce (anche perché lasciarne in mongolfiera è piuttosto difficile). Pare sia riuscito a calarsi (un’ultima volta, prima di smettere e disintossicarsi) e abbia trovato un nuovo lavoro, sempre nelle pubbliche relazioni. Non è più un co.co.co: adesso ha un contratto a progetto, e non sa se esserne felice.

Era finita

Racconto premiato dal concorso “Come la tecnologia digitale ha cambiato la nostra vita” indetto da Repubblica nel 1999

La notte per me era stata lunga e silenziosa, come al solito.
Non dormivamo più insieme da tempo, ormai, da quando aveva deciso di cacciarmi via dalla sua camera da letto.

Il primo timido sole mattutino mi lasciò intuire che tra breve sarebbe arrivato. E così fu: apparve in pigiama, lo sguardo assonnato, la barba incolta. Bellissimo come sempre. Mi si avvicinò, guardandomi con aria distratta, e bastò un leggero tocco delle dita a farmi sentire elettrizzata. Cominciai a parlargli, ma lui non mi dava ascolto. Avrei voluto che non avesse occhi che per me, che si perdesse in me, e invece lui era sempre così distratto. Mi faceva sentire un inutile soprammobile…Il nostro rapporto sembrava destinato a finire irrimediabilmente.

Finalmente si girò a guardarmi, intensamente. Il mio sguardo magnetico si perse per un breve istante nel suo, sentii di essere finalmente riuscita a conquistare  i suoi magnifici occhi blu. Lo vidi avvicinarsi verso di me. Protese la sua mano, stava per toccarmi, rimasi rigida come sempre…Temevo e agognavo quelle cinque dita…Dapprima impallidii, poi fui colta da un terribile rossore. No, non potevo lasciarmi manipolare così da un uomo. Non ne aveva il diritto! Mi disse che ormai ero diventata vecchia…

Vecchia! A me!

Dopo tutto quello che c’era stato fra noi! E poi lui aveva molti più anni di me…Sapevo che fra noi sarebbe finita, ma non in quel modo orribile…Il suo tocco mi aveva messa in subbuglio, non riuscivo più a coordinare le parole…Era finita…
Lo guardai tornare tranquillamente a fare colazione, cinico e implacabile come sempre. Eppure eravamo stati così felici. Era finita…Mi guardò di nuovo, e fu sufficiente un gesto della sua mano a farmi sentire svuotata di ogni energia.
Tutto si fece buio, per me. Era finita.

Probabilmente mi avrebbe sostituita con un modello 20 pollici con Televideo

Sempre dietro

Sempre dietro. Sempre in seconda fila. Un destino segnato, il mio, sin dal primo giorno. Un destino ineluttabile, crudele, a cui non posso ribellarmi e a cui, tuttavia, non mi adeguo.

Perchè mi lamento, dici? Perchè? Fai in fretta a parlare, tu. Tu non sai, e neanche immagini, cosa significa stare dietro, sempre. In movimento o da fermi il mio destino è segnato, io sto dietro, senza neanche poter mostrare la mia vera pelle. Sempre dietro, a subire incredibili pressioni, eseguendo il mio lavoro con tutta l’elasticità di cui sono capace. Eppure non ho neanche il diritto di capire che strada sto seguendo, cosa mi appresta di fronte…Compiangimi, forza, già immagino il patetico sorriso che mi rivolgerai, accarezzandomi come le prime volte che mi vedesti. Tanto tu sai che ti starò sempre sotto, che non opporrò resistenza alle tue pretese…Non posso neanche legarti a me, come facevo con il tuo bambino.

Chissà, forse l’hai generato proprio grazie a me quel bambino…Cos’hai da ridere? Sei un uomo senza cuore, anche se, lo devo ammettere, hai un bel sedere… Avanti, chiudi la porta e vattene. Sei un peso di cui voglio liberarmi. Sì, perchè anch’io voglio provare la libertà… Sempre che esista la libertà per un povero sedile posteriore come me.

E adesso smettila

E adesso smettila, dai, non puoi proprio lamentarti di me. Semmai io, io dovrei lamentarmi! Ho dato il benvenuto in casa a tutti i tuoi amici. Anche perché io il benvenuto ce l’ho proprio scritto in faccia, è parte di me, non posso farci niente. E loro? Non hanno saputo fare di meglio che calpestarmi, senza ritegno, senza un minimo di senso di colpa poi. Ho sopportato il loro peso con dignità e fermezza. Sono sempre stato fuori dai tuoi affari privati, non ho mai avuto la possibilità di superare la fatidica soglia, sempre fedele.

Qualche volta mi hai fatto entrare, è vero. Ma per cosa? Per sbattermi sadicamente, senza pietà, per scuotermi con violenza, forse per sfogarti di chissà quali delusioni. E adesso hai pure il coraggio di lamentarti, di dirmi che sono ormai vecchio, spelacchiato, opaco. Parlo poco, lo so, sono un tipo sintetico, e con questo? Bella riconoscenza. Dai, avanti, vai in fondo, piuttosto che sentire le tue lamentele preferisco andarmene a vivere in garage. Però fammi una cortesia, non essere ipocrita.

Il prossimo tappeto che metterai sul pianerottolo comprarlo senza scritta stampata sopra.

Scacco matto

Che drammatica sciagura.

Quando la vita sembra seguire il felice corso che la benevola provvidenza gli ha destinato, quando schemi e regole prefissate sembrano avere la meglio sugli imprevisti scherzi del fato, due semplici parole possono annientare tutto. La battaglia era stata terribile. Quante morti, quanta distruzione. Dalla torre si potevano osservare i campi squadrati dove l’irreale tranquillità che segue i grandi sconvolgimenti lasciava i protagonisti di quello scontro immobili, rigidi, incapaci ormai di movimento. Persino quei fieri animali compagni dell’uomo in tante lotte e dall’uomo così facilmente manovrabili, i cavalli (quelli sopravvissuti), di solito così saettanti, rapidi nei loro salti, pronti a lanciarsi per primi nella mischia, se ne stavano fermi, esterrefatti.

Persino il viavai di pedoni che caratterizzava le zone del centro era stato interrotto da quella incredibile sciagura.

La guerra aveva sconvolto ogni simmetria, ogni ordine predefinito: solo il campo sembrava pronto a nuovi duelli e nuove sfide, quasi si sentisse estraneo alle sconfitte cui puntualmente faceva da scenario. La sciagura era arrivata improvvisa, imprevista, scioccante: i reali erano ancora circondati dai loro uomini di fiducia, e la regina in particolare sembrava più scintillante che mai nei suoi abiti  magnificenti: la battaglia sembrava così lontana dai fasti di corte…

Eppoi, imprevedibile e imprevista, la sciagura, sintetizzabile in due parole…
…scacco matto.