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Comunicare l’idiozia

C’è il politico incompetente che per anni ha fatto solo i suoi interessi e commesso errori grossolani, che quando non viene rieletto commenta: è stato un problema di comunicazione, non siamo stati bravi a informare i cittadini sugli ottimi risultati raggiunti.
C’è lo stilista che disegna una linea di abiti orrendi e costosissimi che afferma spavaldo con gli azionisti che l’errore è stato nel posizionamento marketing del prodotto. C’è il rivenditore che non trova i pezzi di ricambio perché ha un magazzino caotico e disordinato che si giustifica con i clienti attaccando il software che funziona male. E l’impiegato che non ha voluto seguire i corsi di aggiornamento e da trent’anni spinge sempre gli stessi tre pulsanti che di fronte ad un aggiornamento del programma si lamenta che per colpa dell’informatica in ufficio non funziona più niente.

Fateci caso, a qualunque livello, in qualunque settore, i capri espiatori preferiti di una generazione di incapaci sono sempre loro, la comunicazione e l’informatica. Qualunque attrito, inefficienza, incompetenza, si traduce sempre in un “problema di comunicazione”. A seguire questa logica se Hitler avesse avuto un mental coach che gli avesse insegnato a gestire la sua intelligenza emotiva e allontanare le persone negative, avremmo risparmiato milioni di vite. E se l’Impero Romano non avesse aggiornato le sue norme e la sua gestione organizzativa per venire incontro all’espansione, litimandosi ai cari vecchi quattro codici, oggi parleremmo ancora latino. Come no.

Se tutto ciò serve a giustificare i nostri limiti, a crearci un comodo alibi, a scaricare sull’ufficio informatica la nostra poca voglia di imparare e cambiare, possiamo anche capirlo. Così come possiamo capire – non giustificare- il politico o il dirigente che, non volendo perdere il posto, fa fuori il suo consulente di immagine se le cose non vanno nel verso giusto. Però non ripetiamolo troppo spesso altrimenti finiremo davvero per crederlo.
Se sei un idiota e vuoi comunicare di essere intelligente, non è la comunicazione il problema.

Il morbo del “controlcismo”

Per esigenze lavorative ho dovuto fare delle ricerche d’archivio. Per carità, niente tuffo negli atti ottocenteschi, con la bella grafia dei funzionari che magari ci mettevano tre ore a scrivere che quel mattino era nato Vladimiro Puzzolezzo, ma lo scrivevano con la sacralità di un sacerdote del tempio. Una ricerca molto più vicina a noi, diciamo di una trentina d’anni fa.
Eppure così lontana.Tastiere  Control-C
Perché trent’anni fa le delibere venivano redatte con le macchine da scrivere.
Trent’anni fa i personal computer servivano a far giocare con il Sinclair SX Spectrum i ragazzini più fortunati, e sebbene non fosse così inusuale vedere di tanto in tanto un Olivetti con il monitor a fosfori verdi, non erano ancora stati massicciamente introdotti nella vita aziendale. Faranno il loro ingresso invasivo e fracassone nella pubblica amministrazione verso la fine degli anni ottanta. E se si guardano oggi quelle delibere si osserva un uso dell’italiano molto più pulito, netto, sintetico di quello di oggi. Perché ancora non si era diffuso uno dei mali delle società informatizzate, che con un brutto neologismo definirei “controlcismo”.

Trent’anni fa se dovevi perdere una mattina a battere a macchina una delibera li evitavi tanti fronzoli, tanti ghirigori che non conducono a niente, tante locuzioni pesanti. Oggi invece basta quella magica combinazione di tasti, control-c e control-v (non fate quella faccia, fruitori del mela-c: gli apple sono poco diffusi negli uffici della PA), ed ecco che centinaia di parole si riproducono e riempiono con quell’ammasso di segni espressivi il drammatico vuoto del livello contenutistico. Tret’anni fa scrivevi che serviva un armadio per la scuola e l’hai comprato. Oggi cominci citando dieci testi unici, la costituzione, la Bibbia e un paio di delibere dell’ente dal qual hai copiato l’atto e che ti sei dimenticato di cancellare, poi continui in pagine di delirio amministrativo fino a quando arriva alla parolina “delibera”, il lettore non ricorda più di cos’è che stiamo parlando e perché se le vita è così breve la sta sprecando leggendo una delibera.

Ma il controlcismo si è diffuso nella scrittura in maniera epidemica al di là della redazione di atti: centinaia di tesi, saggi o relazioni copiate o costruite incollando pezzi di provenienza diversa stanno lì a dimostrare che forse con il computer scrivere è più veloce, ma non è certo più facile. Alcune ricerche hanno dimostrato che con la diffusione dei personal computer la qualità delle tesi universitarie è calato, perché anche quando non si copia con il computer si comincia a scrivere prima di aver deciso COSA scrivere. Il giornalista una volta prendeva nota sul taccuino e rientrato in redazione butava giù il suo pezzo, adesso gironzola su Internet alla ricerca di un testo da depredare, chi vuoi mai se ne accorga. E non parliamo di certi romanzi in cui ad un certo puno l’editor taglia un capitolo, lo incolla cento pagine dopo e voilà, ecco a voi il colpo di scena destrutturato.

Anche in politica il control-c, negli anni della Grande e Infallibile Rete, ha generato mostri orrendi. Provate a guardare con occhio attento i commenti o i post sui social forum degli ultras più scatenati: le parole del capo, copiate e incollate, le ritroverete ovunque. Una volta le scarabocchiavano alla fermata dell’autobus, adesso sono sulle bacheche virtuali di amici e parenti. E quella volta che esprimono un concetto originale, si sentono in dovere di riprodurlo almeno su dieci piattaforme diverse.
Attenti, poveri fautori del controlcismo. Possiamo rivolgerlo contro di voi. Possiamo copiare il vostro testo, incollarlo in Google, e vedere quante altre volte ha ammorbato i lettori.E liberarci di voi, almeno virtualmente, perché chi copia e incolla continuamente prima o poi merita un control x. Tagliato.