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Non chiamateli gialli

Da sempre la letteratura poliziesca e la cronaca nera rappresentano due vasi comunicanti: le vicende criminali alimentano la fantasia degli scrittori e a loro volta c’è chi – nel male ma anche nel bene – nella vita si ispira a personaggi letterari.

Personalmente trovo molti spunti nei fatti di cronaca realmente avvenuti, utili a tracciare le vicende dei miei romanzi, perché mi sembra che così le storie siano più realistiche. Può darsi che in questo incida anche la mia formazione giornalistica.

Non ci trovo niente di male in tutto ciò: è il contrario che mi mette in imbarazzo. L’utilizzo cioè di tecniche letterarie per raccontare la cronaca nera, a cominciare dall’abuso della parola “giallo”.

Sappiamo bene che l’origine del termine per indicare la narrativa poliziesca nasce dal colore della famosa collana Mondadori. Però il giallo è fantasia, è divertimento, intrattenimento.

Anche nelle versioni più crudeli, spietate, nel noir più angosciante, alla base c’è l’immaginazione dello scrittore. Che può fare riflettere, appassionare, denunciare, angosciare forse, ma un pubblico di lettori che ha scelto di farlo. E che in ogni momento può chiudere il libro, o spegnere la tivù. Nella vita è diverso. Non ci sono gialli, nella vita, ma tragedie. C’è gente che soffre, non fantasie. Gente che non ha scelto di essere lì, di vedere morire un proprio caro, un parente, un amico. Sono persone, non personaggi. Invece, dai plastici agghiaccianti di certi salotti televisivi al proliferare di documentari che adesso si chiamano “true crime”, la passione morbosa verso queste storie cresce e disorienta chi, come me, non riesce a non essere empatico nei confronti delle vittime, ma anche dei carnefici, che spesso sono vittime a loro volta.

Per cui, cari colleghi giornalisti, documentaristi, cineasti, continuate a raccontare la cronaca perché è un presidio della libertà e nessuno ha nostalgia negli anni in cui era sparita dai quotidiani perché andava tutto bene e i treni erano puntuali. Però con il tatto e la consapevolezza di incidere nella carne viva delle persone.
In caso contrario, potete sempre scrivere romanzi.

PS. Chiudo con una civetta di alcuni anni fa per sdrammatizzare un po’.
Ritrovato dito mozzato di un cinese.
È giallo.

Gioventù ribelle, il peggior videogioco della storia?

Si chiamava “Gioventù Ribelle”, probabilmente molti di voi non ne hanno mai neppure sentito parlare. Era un videogioco lanciato il 17 marzo 2011 per dimostrare al mondo intero le eroiche gesta di valorosi sviluppatori italici. Fu ritirato tra le risate e le pernacchie in tutte le lingue conosciute (e anche in un paio di lingue morte) pochi giorni dopo.

Conoscerne almeno un po’ la storia può servire a prepararci a quello che ci aspetta in futuro, visto che questo capolavoro racconta bene lo stile comunicativo di Giorgia Meloni. Che è stata ministra della (beata) gioventù nel governo presieduto da Berlusconi anche se a volta sembra averlo dimenticato.

I comunicati un po’ altisonanti parlavano di “Gioventù Ribelle” come di un gioco “nato con il duplice intento di celebrare l’eroismo e l’amor di Patria (patria maiuscolo nel testo, non sia mai, ndr) di giovani coraggiosi, il cui sangue è stato versato per unificare il nostro Paese, e di parlare ai giovani d’oggi con il loro linguaggio, che in parte è anche quello dei videogiochi”. Il videogioco, da scaricare gratuitamente, doveva servire a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia.

Come si capì meglio in seguito, non si trattava di un prodotto commerciale ma del risultato del lavoro di un gruppo di studenti dell’Istituto Europeo di Design. La speranza era trovare un editore che decidesse di investire in questo prodotto “competitivo ma allo stesso tempo culturalmente valido e storicamente accurato”, perché, come scriveva all’epoca un audace addetto stampa, “come un gruppo di giovani contribuì a realizzare l’Unità d’Italia durante il Risorgimento, così un gruppo di “giovani ribelli” vuole dare un segnale importante: che l’Italia ha storie avvincenti e importanti da raccontare, anche attraverso i videogiochi”.

Ahimè il capitalismo delle potenze plutocratiche ha impedito il successo di questo prodotto, che come anticipato fu ritirato con fulminea manovra pochi giorni dopo il glorioso lancio nelle cosmiche vie elettroniche. Le sue ultime labili tracce si stanno perdendo nel ventre molle del web. Nel forum internazionale di appassionati Negaf c’è chi lo definì il peggior videogioco di sempre.

Ma cos’era Gioventù Ribelle e perché fece ridere il mondo? In buona sostanza si trattava di uno sparatutto in prima persona che, tra le altre cose, permetteva di sparare al Papa, o meglio alla sua sagoma immobile e inanimata, anche se l’ira divina – come legittima e plausibile conseguenza – rimandava, senza una spiegazione plausibile, gli aspiranti papicidi direttamente indietro al primo livello.

I programmatori si erano procurati un motore gratuito (il motore è un insieme di software, funzioni e algoritmi che fanno funzionare un videogioco) di Unreal, famoso sparatutto dell’epoca. Lo avevano fatto talmente spudoratamente che il menù di avvio non era quello di Gioventù Ribelle, ma direttamente quella di Unreal. Il bersagliere protagonista era dotato di un revolver Colt (ah, l’accuratezza storica), si esprimeva a rutti e si muoveva attraverso caverne di cioccolato (per non dir peggio) e campi magici (in realtà gli errori di programmazione facevano sì che il protagonista rimanesse bloccato senza motivo). Con una profezia di diversi anni sulle conseguenze del cambiamento climatico, il cielo di Roma appariva plumbeo e minaccioso che neanche il sotto sopra di Stranger Things.

L’obiettivo? Uccidere le guardie svizzere cattive durante la breccia di Porta Pia, raggiungere il papa e consegnargli un ultimatum. Senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, visto che l’amor di patria lo rendeva praticamente invincibile al fuoco nemico. Ad aggiungere un altro tocco di surrealismo, il fatto che tutti i protagonisti del videogioco fossero uguali, con un’unica differenza, c’erano quelli con la barba e senza. Tutti  ugualmente immobili, pietrificati dal nostro eroismo, alcuni con i piedi fucsia (questo dettaglio voluto forse dagli storici rinascimentali).

Insomma, prendete un motore di sviluppo gratuito, infilateci un po’ di modelli tridimensionali e qualche texture a casaccio, e poi presentatelo al Maxxi di Roma come di uno strumento ludico e formativo (la Meloni lo fece sul serio). Come emerse poi in seguito, si era trattato della tesi di laurea di otto poveri studenti dello IED che non meritavano di essere messi alla berlina dai videogiocatori di tutto il mondo. Un prodotto artigianale e immaturo cui furono però associati in pompa magna i nomi di Associazione Italiana Opere Multimediali Interattive, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Assoknowledge Produttori Italiani di Videogiochi, Alberghi per la Gioventù con il coinvolgimento di sponsor tecnici come Ferrovie dello Stato, Cinecittà Studio Luce e Rai Trade. Addirittura.

La maggior parte di loro ovviamente in seguito si dissociò, gli sviluppatori italiani contestarono in una lettera aperta non tanto il progetto in sé, quanto i toni altisonanti con cui era stata presentata al pubblico una demo incompleta e frettolosa, la Meloni si giustificò spiegando che il suo era un ministero senza portafoglio, non è che potesse spendere dei milioni per quella che però, il 17 marzo, era stata definita come l’occasione per dimostrare “che un gioco italiano può competere coi grandi titoli internazionali”.

Concludo dicendo che l’obbrobrio… L’esperimento fu presentato a Giorgio Napolitano. Adesso almeno sappiamo perché fece in seguito cadere il governo, altro che mercati finanziari.

Frettolosità, superficialità, retorica. Benvenuti nel futuro.

Giù le mani dal trailer

Credo sia arrivato il momento di fare una riflessione su un genere poco considerato, ma che invece richiede competenza, attenzione e cura: il trailer cinematografico. Se c’è un motivetto che tutti possiamo legare a un ricordo di infanzia, secondo solo alla sigla di Novantesimo Minuto, è proprio quello di “Appuntamento al cinema”, il programma Rai che presenta una serie di trailer. Torno a usare il termine inglese, sapete che non amo particolarmente l’uso di parole straniere ma in questo caso “anticipazione” fa sorridere, “promo” sa di televendita, “traino” mi ricorda un carretto per non parlare del termine “provino” che usavano i nostri nonni sbagliando, per giunta, perché un provino è un’altra cosa. Ci sarebbe anteprima, ma viene usata spesso per indicare un prodotto che anticipa sì il film, ma magari durante le fasi di produzioni, con il backstage, le prime immagini dal set. Qualcosa di meno codificato insomma di quei tre minuti che tutti, con buona pace dell’Accademia della Crusca (sempre sia lodata) chiamiamo trailer.

Il trailer deve incuriosire, stuzzicare, provocare forse, insomma mettere voglia di andare a vedere il film al cinema. È uno dei pochi prodotti cinematografici per i quali non solo tollero la voce fuoricampo, ma addirittura la auspico: serve eccome, perché ovviamente quando il regista ha pensato al film non ha potuto prevedere quegli elementi di collegamento necessari a tenere insieme pochi spezzoni. Uno dei maestri nel realizzare i trailer secondo me è Carlo Verdone, che talvolta girava dei veri e propri mini film per presentare il suo lavoro, con scene non presenti nella pellicola stessa. Il guaio di Verdone, semmai, è che è talmente bravo a realizzare i trailer che di solito li arricchisce di quattro o cinque sequenze comiche che ahimè alla fine si rivelano essere gli unici momenti autenticamente divertenti del film.

Ma perché faccio questa riflessione? Perché se da un lato i trailer continuano a godere di ottima salute (in particolare nelle arene estive finché il sole non tramonta e il barista non serve l’ultimo panino si va avanti con la programmazione di  tutta l’estate e se non basta anche dell’autunno), dall’altro ho scoperto con sgomento e raccapriccio che le società di streaming o non li pubblicano (è il caso di Disney Plus), o ne creano una versione loro, sulla base di non si sa bene quale scelte (mi è successo con Netflix), oppure, e qui siamo allo scempio più assoluto, con il trailer ti raccontano mezzo film (Prime Video è colpevole di questa spregevole scelta criminale). Davvero, se vi capita fateci caso, magari con un film noioso che non avete intenzione di guardare: l’anteprima della piattaforma di Bezos sceglie le sequenze in ordine, dall’inizio alla fine, per cui più che un trailer è un bignamino del film. Ripeto: perché? State forse pensando a film a velocità 2x, come i messaggi whatsapp (che detesto a qualunque velocità, amici sappiatelo, io i messaggi li cancello quasi sempre perché se mi graffiate l’auto con gessetto mi irritate meno)? Avete trovato un algoritmo che seleziona le scene e ne infila una ogni dieci? Fate fare il trailer a uno stagista con un dottorato in filmologia francese che non sa usare Adobe Premiere? Smettetela subito. Io voglio il trailer originale, quello passato al cinema, quello che ho visto nelle arene estive (chissà perché arrivo sempre in anticipo e me ne sorbisco quaranta alla volta).

Altrimenti me lo cerco su Youtube, e voi lo sapete che se comincio così passo la serata a vedere video di gol del Taranto degli anni Novanta, corsi di pronuncia in inglese e recensioni di dispositivi tecnologici che non potrò mai permettermi e ciao film su Prime Video.

Le previsioni del meterror

Le previsioni del tempo hanno sempre rappresentato per me un angolo, nel variegato mondo della comunicazione, di oggettività, di  scientificità, almeno presunta.

Sarà che da bambino ad annunciare quello che ci sarebbe toccato in termini climatici era il serio colonnello Bernacca, sarà che le previsioni erano un rito che spesso costringevano tutti a stare zitti (si poteva chiacchierare sul telegiornale o durante una partita, ma la liturgia delle previsioni richiedeva il silenzio), ma insomma, le ho sempre considerate al di sopra di ogni parzialità; magari sbagliate, ma oneste.

Anche negli anni in cui democristiani e comunisti se le davano di santa ragione, e purtroppo non solo metaforicamente, non è che le previsioni del primo canale annunciassero il sole su imprenditori e preti, e grandine sugli operai. Anche Rai Tre annunciava che avrebbe piovuto persino sull’Emilia rossa, e non solo sul nero Veneto.

Poi le cose sono cambiate. I colonnelli in divisa hanno lasciato spazio a meteorologi in giacca e cravatta, e fin qui tutto bene, non mi è mai piaciuto un ambito prerogativa dei militari. Da lì a breve però sono scomparsi anche loro, sostituiti da signorine sorridenti, bellissime, che recitavano un copione a memoria, senza avere la più pallida idea di cosa voglia dire saccatura depressionaria o anticiclone, ma dicendolo benissimo.

Che dire? Sì certo la donna oggetto bla bla sì certo il corpo esibito bla bla sì certo l’incompetenza in primo piano, ma in fondo, se da attrici recitavano un copione scritto bene da un meteorologo serio, che male c’era? Ogni tanto si poteva sostituire con un bellone per appagare il pubblico femminile (magari l’hanno fatto, non so), ma la vera tragedia, per la meteorologia, è stato internet, e quel mostruoso fenomeno chiamato clickbait.

Letteralmente “esca da click”, si tratta di contenuti il cui obiettivo è attrarre più persone possibili, per generare contenuti pubblicitari: non importa che leggano o che si informino, basta che leggano. “Dieci attori che non sapevi fossero morti”, “Non crederai ai tuoi occhi quando vedrai come si è ridotto tizio”,  “Queste auto invendute vengono quasi regalate”.

Sciocchezze di questo tenore insomma, notizie buffe, inverosimili, a volte palesemente false. Questa patologia dell’informazione online ha finito per colpire anche il meteo, con annunci del tipo: “Verso un drammatico peggioramento” “rischio bufere di neve” “L’Italia nella morsa del gelo”, o se preferite l’estate, “In arrivo una rovente estate di caldo” “In arrivo Lucifero e il caldo torrido”. Poi clicchi, e ti accorgi che sì, verrà un po’ di pioggia e forse la neve sulla cima delle Alpi, ma è novembre, non mi sembra in fondo questa gran notizia, come non lo era un pomeriggio caldo a fine luglio.

Cari amici redattori dei siti di meteo, siamo già circondati da paure: della pandemia, della crisi finanziaria, dell’inquinamento. Smettetela di fare buh! per un po’ di neve o una giornata afosa, tanto su quella notizia fasulla ci potremo cascare una volta o due, poi impariamo la lezione.

Sei italiano se…

Si chiamano solitamente “Sei di quel posto se…” e all’inizio sembravano innocenti gruppi su Facebook con cui condividere la propria appartenenza ad una comunità. Il successo è stato clamoroso, soprattutto per quelle comunità più piccole dove questi gruppo si sono trasformati in una piazza virtuale. Una piazza allegra, all’inizio, in cui condividere progetti, idee, esperienze, far nascere nuove amicizie, riscoprirne di vecchie.
Poi però quell’entusiasmo dolce dei pionieri si è un po’ inacidito. In qualunque posto c’è un rompiballe che da decenni si lamenta perché vuole un lampione davanti casa che gli illumini il giardino a spese della collettività. E così, con fare non curante, eccolo postare un commento “Non so se è il gruppo giusto, ma vorrei segnalare che in via degli sfigati 88, civico 17, nonostante le ripetute segnalazioni, ci vorrebbe un lampione. Dobbiamo per forza aspettare che capiti qualcosa di brutto?”. Il rompiballe è già stato dal sindaco che gli ha fatto notare che c’è un lampione al civico 15, non è che via degli sfigati può diventare tutto ad un tratto Las Vegas. Non vinto sarà andato dal vicesindaco e dal capo dell’opposizione, avrà scritto ai quotidiani locali pretendo di essere informato in caso di pubblicazione (perché il rompiballe non compra un quotidiano dal 9 luglio 2006, quando prese Tuttosport). Dopo avrà cominciato a lamentarsi perché il gestore del gruppo non pubblica tutti i suoi commenti…
A quel punto qualcosa ha ceduto. La sottile membrana che separa il diritto di opinione dalla barbarie si è strappata, il gestore si è stufato e ha pubblicato il commento, e da lì la valanga. Ma vogliamo parlare della raccolta differenziata? E della buca davanti casa mia? Hanno cominciato a scrivere anche quelli che non sapevano scrivere nemmeno ai tempi delle scuole, con sanguinosi stermini di congiuntivi, “è” verbo essere e “ha” verbo avere. Tutti a lamentarsi e ad esigere, a lamentarsi delle lamentele degli altri e a esigere che prima si risponda alla propria richiesta e poi a quella degli altri.
Paradossalmente gli unici post a sopravvivere all’ondata di rancore sono stati quelli sui cani perduti. Ogni minuto in Italia si perdono 6 mila miliardi di cani, forse il doppio, o forse ormai un cane non è libero neanche di farsi una pisciatina in fondo al giardino del padrone senza essere fotografato da un animalista che ne pubblica una foto con un commento “è buono ma non si fa prendere, fate qualcosa ha lo sguardo triste”. E ci credo che non si fa prendere da un imbecille che ha il tempo di pubblicare le foto di tutti i cani del quartiere, ma se gli chiedi di differenziare carta e plastica non ha tempo perché deve lavorare, lui.
Un’unica, colossale valanga di lamentele, pretese e rancori ha occupato questi gruppi, ne ha superato i confini, è arrivato a conquistare la politica nazionale con le sue esigenze che vengono sempre “prima”, con la nostalgia di un tempo perduto fatto di manovre in deficit e debiti scaricati sui nipoti.
A proposito, in via degli sfigati 88, al civico 17, ora c’è un lampione, la cui unica funzione è quella di illuminare il giardino del rompiballe a spese della collettività. Infatti sei italiano se... oltre al lampione magari gli paghi anche la pensione (non ha versato un contributo in vita sua ma ne ha diritto, lui, perché è italiano) e il reddito di cittadinanza al figlio, che gestisce gruppi Facebook in cui si insultano immigrati, la cui unica colpa è quella di non aver letto un “Sei di quel posto se” prima di imbarcarsi.

Forza Bodoni!

“I due deputati”, indimenticabile film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

Il santino elettorale è un sempreverde della politica italiana che sopravvive alle stagioni, agli spin doctor e alle strategie mediatiche. Quel faccione sorridente e amichevole che dava un tocco di vivacità alle cassette postali, imbottite di bollette e cartoline dei parenti pensionati al soggiorno, al limite popolate semestralmente da qualche Postal Market invadente, quel faccione torna, di tanto in tanto, a riaffacciarsi nelle nostre vite. Sono le elezioni amministrative quelle in cui ha ancora un senso, visto che i nostri illuminati politicanti hanno tolto ogni legame tra elettore ed eletto nelle elezioni politiche, in cui tocca votare un partito come si compra un ovetto Kinder: lo scopriamo dopo se la sorpresa ci piace.

Il faccione però, come tutta la nostra vita del terzo millennio, è a basso costo. Non c’è il fotografo delle prime comunioni a selezionare l’inquadratura di tre quarti che dà autorevolezza, o la camicia sbottonata che fa lavoratore. La foto magari se l’è fatta da solo il candidato con un selfie ritoccato dalla app all’ultimo grido. Quella app che dona al viso delle donne la stessa profondità di un ritratto di Modigliani e agli uomini regala quel colorito brillante e quel capello rinvigorito che temevamo relegato alle troppo poco valorizzate foto per il loculo.

Essendo low-cost la produzione del santino, lo è anche la distribuzione, relegata a bacheche Facebook dove improvvisamente diventano attivi profili che negli ultimi cinque anni hanno pubblicato una foto con il tricolore francese per il Je suis Charlie, messo qualche mi piace alla foto del cane che fa il bagno e al massimo hanno segnalato di aver raggiunto interessantissimi punteggi a videogiochi di discutibile spessore morale.

Nessun manifesto sulle decine di tabelloni elettorali, autentici monumenti allo spreco italico, nessuna distribuzione porta a porta, che grazie al forzuto ministro dell’interno se suoni per distribuirne uno l’onesto cittadino può spararti in fronte e invocare la legittima difesa. Il santino è liquido, fluttua nel mondo virtuale riproducendosi con la insostenibile pesantezza dei byte, senza un minimo di targettizzazione. Se i nostri genitori ricevevano il santino dai candidati nel loro Comune, su Facebook troviamo quelli di enti locali la cui esistenza dobbiamo verificare dopo una ricerca su Google.

Per non parlare del più increscioso dramma del santino virtuale: non si capisce mai con chi ci si candida. L’aspirante eletto oggi si vergogna di dichiarare di essere di destra, sinistra o centro. Quel tranquillizzante scudo crociato, quelle vigorose falci e martelli, quegli eleganti garofani che subito ti facevano capire che il lattaio era un nostalgico del ventennio – come avevi sempre sospettato – e che il sacrestano si era fatto in quattro per la sagra parrocchiale con una poltrona nel mirino, sono ormai residui di un’epoca passata.

Oggi una massa informe di colori accesi e loghi insignificanti, frutto di grafici e comunicatori che non hanno mai studiato grafica e comunicazione, ci ricopre di dubbi. E se almeno una volta qualche indizio potevi recuperarlo, e pensare che “sicura” fosse un aggettivo di destra e “solidale” uno di sinistra, ora tutto questo non c’è più. Insieme, civico, futuro, nuovo, aperto, libero. Il minestrone di etichette appiccicate al santino sembra prodotto da un algoritmo di terza categoria. E a noi popolo non ci resta che votare quello con il font che ci convince di più.