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“Privato” è un participio passato

scuola_pubblicaIn questi giorni si sta discutendo a Bologna di un referendum consultivo che, nelle intenzioni dei promotori, vuole ricordare agli amministratori bolognesi come l’articolo 33 della Costituzione citi “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Senza oneri, appunto, mentre le scuole  private di Bologna incassano circa un milione di euro l’anno dal Comune. Ma non solo, dico io: l’articolo riporta anche come “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle  scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai  loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.

Peccato che però quando si tratta di far rispettare gli obblighi di legge lo Stato sia, come dire, un po’ distratto, visto che le scuole paritarie sono obbligate ad accettare, per esempio, bambini disabili (legge 62/2000), e invece a Bologna le materne  paritarie ospitano meno dell’1% dei bambini certificati (14 su 1700 iscritti nel 2008) contro il 2,46% delle scuole comunali (128 su 5200).
Eppure io vorrei fare una riflessione più ampia che non tocchi soltanto il tema della scuola, perché quando si tratta di bambini siamo tutti coinvolti e quindi meno imparziali. Io vorrei parlare di questo lavaggio del cervello che da trent’anni ci sta costringendo a credere che ciò che è privato è efficiente, bello, organizzato, mentre ciò che è pubblico è arretrato, sprecone, inadeguato.

Se da destra questo modo di pensare è coerente con un’idea di mercato libero e stato “leggero”, a sinistra questo ragionamento è meno comprensibile. Ecco, ci sono troppi casi da prendere in considerazione e la verità probabilmente sta nel mezzo (nessuno ha nostalgia per i mostruosi servizi statali sovietici), ma io vorrei farvi riflettere su un aspetto: quando si affronta la questione non si propone un passaggio dal pubblico al privato, che pure avrebbe un senso in una logica liberista, ma dalla gestione pubblica di servizi pubblici alla gestione privata di servizi pubblici.

E qui casca l’asino (cioè noi. Ahia).

Si perché il problema del pubblico, e gli anni di condanne lo dimostrano, sta soprattutto nell’amministrazione politica, prima che nella parte operativa. Se l’amministratore corrotto si intasca i soldi anziché usarli per riparare le scuole, il problema sono le maestre della scuola pubblica? E perché, se invece lo stesso amministratore corrotto finanziasse delle scuole private, cosa cambierebbe? Se hai un contadino pigro che non usa la zappa, è il caso di cambiare contadino o di cambiare zappa?
La gestione privatistica dei servizi pubblici vuol dire potere.
E il potere piace ai politici di sinistra quanto a quelli di destra. Perché? Ve lo spiego in parole semplici sperando non siano semplicistiche. Torniamo al nostro amministratore corrotto.
Immaginiamo che nel suo ente abbia un operaio che gli pulisce le aiuole. Ebbene, che potere potrà esercitare questo amministratore? Al massimo potrà influenzare il concorso per far assumere un operaio suo amico. Ma poi se lo tiene quarant’anni. Capirai. Immaginiamo invece che il nostro esternalizzi il servizio. Una bella gara di appalto di tre anni. Per vincere l’azienda è costretta a una bustarella. In quarant’anni sono 13 bustarelle. Non male eh? E se proprio non vogliamo parlare di bustarella, parliamo di voto di scambio. Si perché è vero che nel primo caso l’amministratore si è garantito il voto dell’operaio prima del concorso, ma poi niente gli garantisce che quest’ultimo sia così riconoscente da rivotarlo per altri quarant’anni. E invece con 13 gare di appalto, i voti che si muovono sono di più. Perché votano quelli che vincono, ma anche quelli che credono di poter vincere.
E però se allla comunità quell’operaio costava 1 € di stipendio all’anno, con gli appalti esterni bisogna considerare che le ditte devono avere qualcuno che si occupi di amministrazione, studi le carte per partecipare al bando, devono produrre la cara vecchia rendita di marxiana memoria per gli azionisti, devono comunque garantirsi un margine anche per gli anni che non vinceranno l’appalto. Risultato: se anche per ipotesi alla comunità il servizio continuerà a costare 1 € all’anno,in tasca all’operaio della società appaltatrice se va bene arriveranno 50 centesimi.
Il privato piace ai politici perché priva alla comunità un controllo che dà a loro. Perché le scuole pubbliche stanno lì, noiose e monotone, e non ci fai nulla. Finanziando le scuole paritarie attiri le simpatie del voto cattolico (non certo il mio!),di quello alto borghese di chi può permettersi di mandare i figli a scuole che costano 500 € al mese ma è più contento se 100€ glieli mette il Comune. Finanziando le scuole paritarie modifichi le convenzioni, minacci o prometti. E vogliamo togliere ai politici questo giochino?
Attenzione, vale per le scuole, ma vale anche per le tante strutture pubbliche “privatizzate” o trasformate in società a controllo pubblico o partecipate o fondazioni. Tanto per restare a Bologna, l’ultima è la Cineteca, ma non dimentichiamo le municipalizzate, le aziende di servizi alla persona…
Non solo: il processo è ormai in uno stadio così avanzato che l’unica soluzione per continuare a garantire i servizi da parte di un amministratore onesto è proprio quella di esternalizzare, visto che non può assumere dipendenti né fare investimenti, ma sperperare denaro in convenzioni con il privato sì.
In alcune regioni come la Lombardia questo processo chiamato “sussidiarietà” ha già smantellato larghe parti dei servizi pubblici e creato una rete di intrighi tra amministratori pubblici e gestori di servizi privati sui quali la magistratura sta indagando da tempo. Salviamo l’Emilia-Romagna prima che il contagio si diffonda…

Tutti pagano e pochi incassano

Sono tornato quest’estate a Marina di Ginosa, una delle più belle località di mare in provincia di Taranto, una delle poche a fregiarsi della bandierina blu quasi ogni anno. Ma non è stato il mare a colpirmi. E’ stata la villa comunale. Quell’angolo di verde che da bambino mi sembrava una foresta smisurata è rimasto lì, un polmone al centro del paese, eppure qualcosa è cambiato. Venticinque anni fa c’era un chioschetto al centro. Adesso una fetta di parco è adibita a giochi gonfiabili per bambini (gestiti da privati e a pagamento), un’altra è in concessione ad un albergo, al centro troneggia una enorme pista da ballo con bar, un altro bar ha conquistato un altro angolo (ricoprendo il suolo con moquette verde, agghiacciante). Insomma i privati stanno colonizzando il parco: un bene di tutti diventa fonte di lauti guadagni di pochi. E pazienza poi se si trovano anche rottami, spazzatura e angoli secchi. Mi sembra una metafora meravigliosa dell’Italia di oggi, in cui tutti dobbiamo pagare, ma poi ad arricchirsi con i beni pubblici sono i pochi furbi (vedi autostrade, energia, televisioni).
Mi va bene un sistema di mercato in cui un privato si costruisce un giardino e lo adibisce a bar, e mi va bene un sistema pubblico dove il giardino è accessibile a tutti. Ma un giardino pubblico in cui bisogna pagare il barista che se ne è appropriato -legalmente, ci mancherebbe –  proprio no.