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Bologna città 3000

Da qualche mese il dibattito bolognese è concentrato sul tema della cosiddetta “Città 30“. Lo spiego in due parole: l’amministrazione comunale ha stabilito che in larga parte del centro cittadino , pari a circa il 70% delle strade, non si potrà superare la velocità di 30 chilometri all’ora.

Attenzione, però, prima che finiate nel coro di quelli che gridano di giornate intere trascorse in auto per raggiungere l’ufficio o di frizioni bruciate, sappiate che nelle ore di punta a Bologna andare a 30 all’ora è un sogno. Quando usavo l’auto per attraversare la città a fatica riuscivo a inserire la terza, in certe circostanze. E poi il limite dei 30 all’ora non coinvolge le arterie a scorrimento più veloce.

Personalmente la trovo una scelta tipicamente italiana: metto il limite di velocità ai 30 così almeno non superi i 50, vista l’abitudine italica a farsi uno sconto rispetto alle norme. Io personalmente avrei mantenuto i limiti ai 50, sequestrando l’auto e penalizzando fortemente i criminali che vanno a 90 all’ora in stradine frequentate da anziani e bambini (e ce ne sono eccome).

Però la velocità non è che la punta dell’iceberg di un’idea di città che prima di essere bolognese è delle grandi metropoli europee come Parigi e Londra, centri che questo percorso l’hanno già intrapreso. Una città che rappresenta il trionfo della classe borghese su quello che una volta si chiamava proletariato. La città dei ricchi che non sopporta lo smog prodotto dai poveri, insomma. Alla faccia della città più progressista di Italia.

Sì perché il modello di questa città è fatto di piste ciclabili, aree pedonali, zone verdi, riduzione delle corsie e soprattutto sparizione dei parcheggi. Chi usa l’auto è un avvelenatore mefitico, un retrogrado, uno sporcaccione.
Evidentemente a essere soddisfatto di questo modello è chi ha una villetta in prima periferia con il garage che ospita le vetture di papà, mamma e figlio, lavora in centro e si reca in ufficio in moto, forse in bici perché tanto ha il bagno personale dove può fare la doccia, oppure può spendere venti o trenta euro all’ora per una di quelle macchinuzze elettriche che salveranno il mondo. Via i parcheggi, più spazio per dehor, viva la democrazia del tagliere.

E se abiti lontano dalla città, ma ci lavori? Usi i mezzi pubblici, ovvio. Ora, premetto che io ho da diversi anni l’abbonamento annuale ai mezzi e li uso per andare a lavoro tutti i giorni. Ma prima di fare una affermazione del genere, bisognerebbe usarli i mezzi, cacchio. Per recarmi a Vergato con i mezzi uscivo di casa alle 7,15 e timbravo alle 9,10. Per Monzuno l’uscita era prevista alle 6,15, prima autobus, poi treno, poi corriera. Arrivo alle 7,45. Se però il treno faceva tardi e la corriera non lo aspettava, arrivavo intorno alle 10. E succedeva, ah se succedeva. Ovviamente, lo stesso vale per un poveraccio che fa il viaggio in direzione opposta. Impediamogli di usare l’auto puzzona, al maledetto, che si adegui. E il pensionato che vorrebbe trascorrere il fine settimana nella casa in Appennino? Anche lui senz’auto? Ovvio. E se la domenica non ci sono i mezzi pubblici, ci vada in bici, con le ciclabili siamo collegando Helsinki con Malta, hai voglia.

Quando fai notare queste difficoltà, la risposta è: i mezzi pubblici sono lenti perché ci sono le auto. Ma è falso. I mezzi pubblici sono lenti perché da anni gli investimenti si concentrano su turisti, manager, su quelli di cui sopra: perché abbiamo potuto spendere milioni di euro per collegare l’aeroporto con la stazione con il trenino di Gardaland, ma la ferrovia Porrettana è a binario unico dal secolo diciannovesimo.

Le nuove linee del tram seguono questa logica. Un metropolitana connessa alle linee ferroviarie che collegasse San Pietro in Casale a Porretta e Zola a Ozzano, quella sarebbe servita. Magari evitando le zone del centro più delicate.

E non venitemi a dire che non si può perché Bologna è una città sull’acqua: è anche l’unica città con la stazione per l’alta velocità sotterranea,  che stanno collegando con un percorso ferroviario interrato fino alla zona Roveri, in periferia. Praticamente un pezzo di metropolitana ce l’ha senza saperlo.

Una metropolitana ci voleva, non questi trasportini per stranieri pronti a pubblicare su Instagram le bellezze colte dal finestrino del tram elettrico. Ma a un certo punto parlare di metropolitana ha voluto dire essere di destra, mentre il tram è di sinistra. Magari un giorno qualcuno mi spiegherà perché.

I centri delle città italiane si avviano a trasformarsi in parchi dei divertimenti per turisti e per cittadini benestanti che le frequentano per una mostra, un aperitivo o una passeggiata. Che gli altri si arrangino.
Non è una città 30, è una città 3000, e sono gli euro che devi guadagnare al mese per essere degno di frequentarla.

Non sarò mai come mi volete voi

Non gli basta la consapevolezza di aver fatto una scelta e condurla con fierezza, pagandone anche le conseguenze scomode. Non gli basta il sostegno di chi, quella scelta, l’ha condivisa.
Devono fartelo sapere, perché vogliono la tua approvazione. Di più: vogliono la tua conversione. Ecco, io quelli che cercano perennemente di fare proselitismo li amo come i fazzoletti di carta nel bucato in lavatrice o come le caramelle sciolte in fondo alla tasca dei pantaloni.

L’etimologia della parola è illuminante: il proselita, nell’Antico Testamento, era lo straniero che si era venuto a stanziare nel territorio. Meglio, uno straniero che, accolto, poi si converte agli usi e ai costumi del popolo. Però era lui a venire, e tu gli spiegavi: qui da noi funziona così. Ha senso. In un’epoca per cui lo straniero è quasi sempre un nemico e l’accoglienza è solo l’angolo con una ragazza sorridente pagata per radunare le lamentele dei clienti, il proselitismo è tornato ossessivamente di moda.

Bei tempi quelli in cui i testimoni di Geova suonavano per spiegarti i benefici spirituali di un abbonamento alla Torre di Guardia. Quelli in cui un collega cercava di spingerti a iscriverti al suo sindacato. Anche quelli in cui, durante il pranzo della domenica, si discuteva di politica, rimanendo distanti, forse, ma rispettando il giudizio degli altri.

Bei tempi andati. Oggi non è più così, perché oggi a rivelarvi la verità è stato un messaggio di whatsapp, l’ennesimo video contenitore di notizie false, una chat che non credevo ma guarda che invece. E questa verità vi dota di un’aura di santità, perché il re delle castronerie vi ha nominati vostro cavaliere e quindi siete in dovere di andare in giro per il mondo (più facilmente, in giro per i social) a frantumare, affettare e sminuzzare gli zebedei del prossimo, tritarli, inscatolarli e poi rompere di nuovo le scatole per ricominciare da capo.

E lo dico subito dove voglio andare a parare: mi riferisco al proselitismo di quel popolo variegato, confuso e confusionario che abbiamo imparato ad etichettare come novax. Tutti con quell’iconcina in cui chiedono le terapie domiciliari contro il covid, che è un po’ come chiedere terra e libertà per tutti. Chi non vorrebbe curarsi senza andare in ospedale? Lo facciamo  – se non sono gravi – per l’influenza, la gastroenterite, le emorroidi. Però nessuno pretende di curare l’influenza con clisteri di candeggina, se avete l’intestino sottosopra potete pure provare a curarvi facendo cadere nell’acqua sassolini in grado di trasferirvi la loro energia olistica, ma secondo me il cagotto vi rimane. Se poi pensate che le emorroidi vi passeranno perché mangiate patate coltivate in un terreno biodinamico carico di forze cosmiche e spirituali, auguri, ne avrete bisogno.

Non ci rimanete male se io sono schiavo del sistema e continuo ad ascoltare la maggiore parte dei medici per curarmi, dei nutrizionisti per alimentarmi, degli avvocati per capire la legge, degli ingegneri per fare i lavori edilizi. Sono fatto così, sono poco biodinamico.
Avete visto la luce? Io sto bene al buio, grazie.
 

Ecco, se voi credete nell’urinoterapia, buon per voi. Spero sia buono, non so, non ho assaggiato, non ho intenzione di farlo. Se pensate che il vaccino sia “sperimentale” solo perché per una volta le multinazionali si sono messe di buona lena a realizzarlo anziché fare prima le doverose indagini di mercato, non vaccinatevi, ma poi basta. Basta con questi toni da missionari  new age che hanno visto la luce perché hanno visto un servizio del 2015 del TG3 che aveva previsto tutto, basta con i “giù le mani dai bambini”, voi che nemmeno vi ricordate che faccia ha vostro figlio, ormai divenuto un tutt’uno con il suo smartphone, voi che avete scoperto l’importanza dell’istruzione ora che rischiate di trovarvelo un po’ troppo spesso tra le balle, voi che avete capito tutto di quello che è successo a Wuhan ma se vi chiedono di indicarlo su una cartina puntate il dito sul Giappone.

Non cercate di convincermi, non sarò mai come mi volete voi. Per carità, stiano alla larga anche quelli che vorrebbero tornare a un lock down e vogliono spiegarmi con valanghe di dati difficilmente correlabili i motivi per cui sarebbe necessario. Se odiate il green pass perché vi fa fare meno quattrini ditelo senza bisogno di citare Socrate. Se volete il lock down perché siete pendolari da vent’anni, ammetterlo non vi farà sembrare più stupidi.

Ma soprattutto smettetela voi “io mi sono vaccinato, però…” che poi lasciate partire il pippone sulla tenuta della Costituzione, sullo stato liberticida, azzardando richiami addirittura a quegli zucconi della Corte Costituzionale che non bloccano i dpcm o di decreti legge. Ci foste voi, al loro posto, sì che sapreste come fare: basta leggere quel sito che vi ha mostrato vostro cugino dove c’è scritto tutto. La verità è che – per fortuna –  non lo sapete cos’è davvero la sospensione della democrazia, e non serve andare in Corea del Nord,  Turkmenistan o Arabia Saudita per scoprirlo. Voi che, oggi, osate paragonarvi agli ebrei perseguitati dai nazisti. Basterebbe leggere qualche libro, qualche giornale, qualche testo senza immagini che contenga ogni tanto anche un po’ di ipotassi. 

Voi che non votate da quindici anni perché tanto rubano tutti, che improvvisamente avete scoperto di tenerci così tanto alla democrazia da gridare alla rivolta, senza riuscire a capire che a un certo punto si vota, chi vince fa le leggi e chi perde le rispetta comunque. Funziona così. Oltre a difenderla, sarebbe il caso di leggerla, ogni tanto, la Costituzione.

PS Sì, sì, avete ragione voi, ma basta.

Perché ho votato sì (casomai interessasse a qualcuno)

L’ultimo referendum non mi ha entusiasmato. Non che questo strumento mi appassioni più di tanto, ma per esempio ai tempi del referendum sull’acqua pubblica mi sentii particolarmente coinvolto in quello che ritengo essere il bene pubblico per eccellenza, e quel pastrocchio di riforma costituzionale del 2016 mi inorridì al punto di arrivare quasi a fare propaganda pur di fermarla.

Stavolta ho coltivato fino all’ultimo una delle arti che mi riesce meglio, quella del dubbio, e ho deciso di votare sì a pochi giorni dal voto. Siccome non interessa a nessuno il motivo, possiamo pure chiuderla qui caro lettore, e ricordati di leggere “#stodadio – L’enigma di Artolè”.  Se però per qualche strano motivo vedo che stai continuando nella lettura, allora bisogna che dia risposta al tuo coraggio e ti spieghi il perché.

Non ho votato sì per risparmiare, non diciamo corbellerie. Prima di tutto perché si tratta di un risparmio minimo. Poi perché basta una piccola riforma al regolamento delle camere (neanche una vera e propria legge, ma un regolamento, un atto amministrativo insomma) e i prossimi eletti potranno raddoppiarsi lo stipendio mandando all’aria tutti i presunti risparmi. O, più probabilmente, caricheranno costi a destra e sinistra tra consulenze e addetti alle pubbliche relazioni che – già oggi – ci costano molto più che deputati e senatori. E poi, se risparmiare vuol dire tagliare indistintamente, allora chiudiamo gli ospedali, le scuole, vendiamo le strade e lasciamo che i proprietari ci chiedano un fiorino per passare. Quello sì che sarebbe un risparmio (almeno fino a quando le strade non crollano e tocca allo Stato ricostruirle, ma questo è un altro discorso).

Non ho votato sì per dare un segnale alla casta. Anzi, non sopporto nemmeno questa definizione che il fortunato (per loro, per la democrazia è stato una catastrofe) saggio di Stella e Rizzo ha dato del ceto politico. Perché di caste ce ne sono tante, e tutte in diversa misura protette: dagli evasori fiscali ai professori con dieci incarichi tutti ben retribuiti, dai fannulloni sindacalmente garantiti a tutti i numerossisimi “figli di” che popolano questo paese. E poi da sempre l’anti-parlamentarismo è un tratto distintivo dei dittatori.
Se proprio vuoi dare un segnale politico lo fai semmai con il voto, non riducendo la rappresentatività.

Ed ecco che ci avviciniamo però al nocciolo della questione: il Parlamento negli ultimi anni è sempre di più diventato più che una (doverosa) spesa di rappresentatività, una spesa di rappresentanza. Il legame con il territorio che tanto è stato sbandierato dai difensori del NO si è spesso tradotto in invisibili emendamenti, che in un testo che trattava di riforma di pubblico impiego ci infilava una postilla per finanziare la pavimentazione del lungomare di Patonza Inferiore, o il rifinanziamento dell’aeroporto mai inaugurato di Flatulenziano. Ecco, cosa hanno fatto spesso i famosi rappresentanti del popolo, un tristissimo voto di scambio alla luce del sole. Sapete qual è una delle regioni italiane la cui rappresentatività sarà maggiormente ridotta dalla riforma costituzionale? La Calabria. Siete in grado di citarmi il nome di un grande politico calabrese? Tommaso Campanella e Pitagora non valgono, non erano nemmeno politici.

Sto generalizzando, sento lo sguardo corrucciato di voi altri che siete arrivati fin qui, e che magari sul lungomare di Patonza Inferiore avete conosciuto vostra moglie. Però signori ci sono due aspetti sui quali non dico che sono convinto (non lo sono mai), ma almeno ho meno dubbi: primo, il valore salvifico che viene dato alle leggi in Italia è eccessivo (tema complesso, ci dedicherò un post a parte). Non è solo con le leggi che si risolvono i problemi: abbiamo più leggi di tanti altri paesi, ma non meno problemi. Secondo, da decenni il parlamentarismo è in crisi: in aula ci si limita ad approvare i decreti legge del governo, o a creare cornici, i tecnici le chiamano leggi delega, talmente generali da essere imbarazzanti tipo “Governo scrivi una bella legge sullo sport per favore”. E non si tratta di riconoscere che il livello medio di deputati e senatori è calato. Il tema non è quello. Il tema è che il mondo di fuori è mostruosamente più complesso rispetto a quello dei secoli in cui l’idea di parlamento si è formato. Oggi se eleggessimo un premio nobel per la chimica, quello avrebbe di sicuro bisogno di un esperto per capire come scrivere una legge sugli incentivi alle associazioni sportive di ruzzolone, o per la gestione dell’import-export di calzini bianchi. Le leggi si fanno fuori dal parlamento da tantissimo tempo. E non fuori nel senso che c’è un disegno di legge di iniziativa popolare. Magari. No, nel senso che più o meno i politici al governo (non il parlamento che si limita a ratificare) spiegano agli esperti quello che vorrebbero fare, e si affidano alla traduzione in atti che da questi maturano.
Complici anche una serie di leggi elettorali che hanno trasformato i parlamentari in personaggi nominati più che votati, oggi il parlamento è ridotto ad essere una giuria che dà i voti ai virtuosismi sul palco del ministro di turno. E allora non vedo perché una giuria un po’ meno nutrita debba essere considerata un attentato alla democrazia.

Attenzione, la situazione è la stessa anche a livello locale. Consiglieri regionali e comunali sono altrettanto inutili e poco produttivi: sono il sindaco, il presidente della Regione e la giunta a decidere dei nostri destini. Gli altri al massimo decidono dei loro intestini (questa è pessima, lo ammetto).

Chiudo con due note. La prima è rivolta a certi convinti renziani (dissimulano la loro presenza, ma esistono ancora, ve lo giuro) che si sono scoperti difensori della costituzione. Ricordo che la loro riforma portava a 630 gli eletti, giusto 30 più di questa: gli altri 100 senatori infatti sarebbero stati pescati secondo meccanismi di dubbia eleborazione. La seconda mi serve a rispondere a chi sostiene che riducendo i parlamentari ridurremo quelli buoni e ci terremo gli scarti. Non lo so. So che però oltre a 345 eletti in meno, avremo molti, molti meno candidati alle prossime elezioni, meno segreterie, meno portaborse, meno manifesti elettorali (quelli in realtà sono scomparsi da tempo tranne che dalla legge che li vuole gratuiti). Non so se sarà un bene, ma so che vale la pena provarci.

Forza Bodoni!

“I due deputati”, indimenticabile film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

Il santino elettorale è un sempreverde della politica italiana che sopravvive alle stagioni, agli spin doctor e alle strategie mediatiche. Quel faccione sorridente e amichevole che dava un tocco di vivacità alle cassette postali, imbottite di bollette e cartoline dei parenti pensionati al soggiorno, al limite popolate semestralmente da qualche Postal Market invadente, quel faccione torna, di tanto in tanto, a riaffacciarsi nelle nostre vite. Sono le elezioni amministrative quelle in cui ha ancora un senso, visto che i nostri illuminati politicanti hanno tolto ogni legame tra elettore ed eletto nelle elezioni politiche, in cui tocca votare un partito come si compra un ovetto Kinder: lo scopriamo dopo se la sorpresa ci piace.

Il faccione però, come tutta la nostra vita del terzo millennio, è a basso costo. Non c’è il fotografo delle prime comunioni a selezionare l’inquadratura di tre quarti che dà autorevolezza, o la camicia sbottonata che fa lavoratore. La foto magari se l’è fatta da solo il candidato con un selfie ritoccato dalla app all’ultimo grido. Quella app che dona al viso delle donne la stessa profondità di un ritratto di Modigliani e agli uomini regala quel colorito brillante e quel capello rinvigorito che temevamo relegato alle troppo poco valorizzate foto per il loculo.

Essendo low-cost la produzione del santino, lo è anche la distribuzione, relegata a bacheche Facebook dove improvvisamente diventano attivi profili che negli ultimi cinque anni hanno pubblicato una foto con il tricolore francese per il Je suis Charlie, messo qualche mi piace alla foto del cane che fa il bagno e al massimo hanno segnalato di aver raggiunto interessantissimi punteggi a videogiochi di discutibile spessore morale.

Nessun manifesto sulle decine di tabelloni elettorali, autentici monumenti allo spreco italico, nessuna distribuzione porta a porta, che grazie al forzuto ministro dell’interno se suoni per distribuirne uno l’onesto cittadino può spararti in fronte e invocare la legittima difesa. Il santino è liquido, fluttua nel mondo virtuale riproducendosi con la insostenibile pesantezza dei byte, senza un minimo di targettizzazione. Se i nostri genitori ricevevano il santino dai candidati nel loro Comune, su Facebook troviamo quelli di enti locali la cui esistenza dobbiamo verificare dopo una ricerca su Google.

Per non parlare del più increscioso dramma del santino virtuale: non si capisce mai con chi ci si candida. L’aspirante eletto oggi si vergogna di dichiarare di essere di destra, sinistra o centro. Quel tranquillizzante scudo crociato, quelle vigorose falci e martelli, quegli eleganti garofani che subito ti facevano capire che il lattaio era un nostalgico del ventennio – come avevi sempre sospettato – e che il sacrestano si era fatto in quattro per la sagra parrocchiale con una poltrona nel mirino, sono ormai residui di un’epoca passata.

Oggi una massa informe di colori accesi e loghi insignificanti, frutto di grafici e comunicatori che non hanno mai studiato grafica e comunicazione, ci ricopre di dubbi. E se almeno una volta qualche indizio potevi recuperarlo, e pensare che “sicura” fosse un aggettivo di destra e “solidale” uno di sinistra, ora tutto questo non c’è più. Insieme, civico, futuro, nuovo, aperto, libero. Il minestrone di etichette appiccicate al santino sembra prodotto da un algoritmo di terza categoria. E a noi popolo non ci resta che votare quello con il font che ci convince di più.

Non si commissaria il dissenso

VIa Diaz a StatteHo lasciato Statte più di vent’anni fa ormai, ma quando ho saputo tramite la stampa e i social network che hanno commissariato la sede del PD, ho provato un autentico moto di stizza. Ma come si permettono? Ma chi? Ma da dove vengono questi? Sì perché io a quella sede ci sono affezionato.
Se dovessi raccontare un luogo per raccontare la mia giovinezza, con ogni probabilità lo identificherei in quel tratto di strada di via Diaz che dalla chiesa della Madonna del Rosario conduce alla sede dell’Arci di via Piave, quella che una volte per tutti era la “Casa del Popolo”. Si perché è lì che sono cresciuto, a metà strada tra la la chiesa e la casa del popolo, fisicamente ma anche idealmente, tra un incontro dell’Azione Cattolica e una partita di pallacanestro nella squadra dell’Arci. E quanto ci volle per convincere mia madre, credente e praticante, che A.R.C.I. stava per Associazione Ricreativa CULTURALE Italiana, e non Comunista, come temeva lei. Perché l’idea che suo figlio avesse in tasca una tessera da comunista la preoccupava non poco. Ma si convinse e mi lasciò giocare in quella squadra di basket, dove in effetti ci occupavamo di marcatura a zona e dai e vai e non certo dell’isolamento del compagno Trotsky. Mi lasciava anche frequentare la sede, con qualche gelato ogni tanto e qualche partita al biliardo, quel tavolo verde sopravvissuto miracolosamente alle mie stoccate sghembe, che con la stecca davvero non ho mai avuto un buon rapporto.
Sono cresciuto lì, tra la chiesa e la casa del popolo, e lì sono le mie radici e i miei amici, quelli che non hanno lasciato il paese e con il loro impegno politico hanno contributo a farlo crescere. Ho visto la criminalità distruggere la vecchia casa del popolo, quella rasa al suolo da un attentato dinamitardo che per fortuna non fece vittime, alla fine degli orribili anni ottanta. Ho visto gli operai e gli impiegati che dopo giornate di duro lavoro nel siderurgico o in ufficio sistemavano la nuova sede e la mettevano a nuovo. Li ho visti montare quella la copertura per dare un tetto ai dibattiti e agli incontri, ma anche al presepe più bello della Provincia di Taranto, mi spiace per gli altri ma è così. Li ho visti rimetterla in piedi dopo che il tornado ha cercato di portarsela via. Ho visto l’impegno in quei primi anni novanta quando ci si batteva per l’autonomia comunale e quelli che adesso pretendono di commissariare facevano di tutto per ostacolarla. Sì perché ho lasciato Statte da più di vent’anni ma questo non vuol dire che abbia perso la memoria. Ho visto l’impegno di un concittadino straordinario come Angelo Gigante porre le basi per una rinascita forse incompiuta, ma che gli sforzi di chi è venuto dopo hanno sicuramente cercato di realizzare. Negli ultimi anni Statte ha inaugurato un nuovo ponte e una nuova piazza oltre a parcheggi e strutture, anche se in tanti dopo aver lasciato cicche di sigarette e sporcizia in giro si lamentano perché nessuno le raccoglie prontamente.
Certo, alcuni mi potrebbero rimproverare, tu non vivi a Statte e ti permetti di intervenire nel dibattito politico. A costoro rispondo che non ho intenzione di influenzare il voto in alcun modo. Prima di tutto perché, non essendo residente, non voterò. Poi perché non conosco personalmente le persone che si candidano secondo il “nuovo corso”, chiamiamolo così, del PD, nato da quel Patto del Nazareno che da alcuni anni segna il destino politico dell’Italia. Sono convinto che siano persone interessate al bene della comunità stattese e, nel caso dovessero prenderne la guida, hanno tutto il mio rispetto e i miei auguri di riuscire.
Ma il commissariamento no, il commissariamento è un atto violento di cui i responsabili dovranno pagare le conseguenze politiche. Perché gli stattesi si sono liberati ventiquattro anni fa dalle moleste attenzioni della politica del capoluogo, e non hanno nessuna intenzione di vivere un déjà vu. Non sarà il commissario a prendersi quello che né le bombe della criminalità né la furia del tornado è riuscito a spazzare via.
Non si commissaria il dissenso.

Il fronte del no

NegazioneI referendum abrogativi previsti dalla normativa italiana sono considerati validi solo se a votare è la maggioranza degli aventi diritto: da anni intorno a questo punto c’è molto dibattito, e io lo trovo tristemente interessante perché in fondo rappresenta uno spaccato della nostra società, che si ripropone ogni giorno. Nel referendum ci sono due fazioni, quella del sì e quella del no: sembrerebbe la base di qualunque ragionamento democratico. Però i no hanno, come dire, qualche rinforzo. Perché votano no, senza saperlo, anche quelli che hanno preso una gastroenterite fulminante e non riescono ad uscire di casa. Votano no anche quelli che sono stati chiamati all’ultimo momento ad un impegno lavorativo fuori città e non possono farne a meno. Ma non solo. Votano no anche quelli che non hanno mai votato in vita loro perché dormono coperti da cartoni sotto i ponti delle nostre città, votano no quelli che vivono temporaneamente in un’altra città e non hanno modo di tornare a casa per votare. Votano no i delusi, i disinformati, gli apatici, gli anarchici. Da sempre, i sostenitori del no, fanno leva su queste truppe inattese di sostenitori, e quasi sempre vincono.

Perché è quello che hanno voluto i nostri padri costituenti, che non si fidavano troppo, e a ragione credo, del furor di popolo, del plebiscito, della pancia della piazza. Di quella piazza che grida “Barabba, Barabba!”, come cantava anni fa Jovanotti. L’avevano vista gridare compatta ed entusiasta negli anni del nazifascismo (salvo poi passare all’antifascismo militante quando le cose si misero male), quella piazza, quel popolo, e non avevano voglia di dargli troppo potere tramite l’unico vero strumento di democrazia diretta, il referendum abrogativo. Non a caso, vecchi filibustieri, gli stessi padri costituenti non hanno previsto la necessità di raggiungere quorum quando il referendum tocca ciò che loro avevano di più sacro, la carta costituzionale, che a ottobre dovremo difendere dai pasticci sgrammaticati del governo.

Il fronte del no, tuttavia, vince anche al di fuori del seggio elettorale. È il fronte di quelli che non partecipano all’organizzazione della festa di fine anno per raccogliere un po’ di soldi per la scuola, che non ci mettono nemmeno un euro e poi criticano. È il fronte di quelli che si lamentano perché non si gioca a calcetto ma poi guai a chiedere loro di prenotare. È il fronte di quelli che non vogliono l’ascensore condominiale, l’antenna parabolica, la raccolta differenziata. Si fanno forza del peccato più forte del nostro tempo, l’inerzia, con l’unico obiettivo, quello di non raggiungere il quorum, mai, da nessuna parte. Quello di sfinire i sì, quelli che vogliono fare, cambiare, agire, migliorare.

Osservateli, guardateli, ricordatevi di loro. Perché prima o poi avranno bisogno di un’azione, un cambiamento, un miglioramento: e allora sarà il caso di ripagarli con la loro stessa moneta. No.