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Il Signore ti chiama in tanti modi, ma non al cellulare

Un bel cartello posto di fronte alla porta di ingresso della chiesa che sono solito frequentare riporta: “il Signore ti chiama in tanti modi, ma di sicuro non ti chiama al cellulare. Perciò, per favore, spegnilo”. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto per le signore di una certa età, che a quell’arnese non volevano cedere, che non ne vedevano l’utilità, ma che adesso che ce l’hanno, se lo portano sempre dietro. In borsa. Non si sa mai, metti che zio Lilino, quello che abita lassù, non decida di chiamare. O magari il figlio – oggchiesaesummaria – chiami perché è successo qualcosa. Proprio in quella mezz’ora lì. E in effetti chiamano, e le reazioni purtroppo non sempre sono composte.
C’è quella che ha la suoneria della carica dei bersaglieri, e l’ha impostata al massimo del volume, perché si sa, con gli anni, le orecchie si induriscono. Solo i discotecari più tamarri e le signore devote di una certa età riescono a tenere il cellulare con suonerie con quella potenza. Solo che i discotecari più tamarri ad un certo punto rispondono. Con le signore, invece… Quando suona, il primo ad accorgersene è il chierichetto, perché l’onda d’urto fa tremare il calice sull’altare. Poi ovviamente il panico si diffonde, tutti cominciano a cercare freneticamente nelle tasche, nelle borse, ma è un atto di gentilezza nei confronti dell’unica vera responsabile. La quale solo dopo alcuni minuti di fanfara, mentre tutti la osservano come se stesse per partorire un alien, finalmente comincia ad attivarsi. Via il foulard. Via i fazzoletti. Via i guanti. Via le mentine. Le borse delle donne non decrescono con l’età, ma purtroppo i riflessi e le loro capacità di destreggiarsi sì. Intanto, tutti sperano: vabbé, prima o poi riattaccheranno. Macché. Zio Lilino che abita lassù lo sa che la cugina è sorda, e insiste, insiste, insiste. Una volta ritrovato l’ordigno, tra il sollievo e il giubilo dell’assemblea, occorre però disattivarlo. E la povera disgraziata, che nella ricerca si è ormai mezza denudata, è in sottoveste e ha un rossore inquietante che le infiamma le gote, ormai non è più in sè, non lo trova quel maledetto pulsante. Qualcuno finalmente si impietosisce, si avvicina, e zittisce i bersaglieri, mentre il coro dei fedeli intona l’alleluja.

C’è poi quella che nega spudoratamente. Di solito ha la suoneria di “Per Elisa”, un telefono gsm da un chilo e mezzo, e appena comincia a suonare si guarda intorno sdegnosamente. I suoi occhi infuocati proiettano disprezzo sui vicini così cafoni: nessuno ha il coraggio di farle notare che è dalla sua tasca che viene quel suono. Alcuni credono che in realtà la devota in questione sia talmente convinta di essere nel giusto che davvero non si rende conto di rendersi ridicola con quell’aggressività dissimulata e piena di sé. D’altronde, qualcuno che vota Formigoni ci deve pur essere.

Ma la mia preferita è quella che ha messo il vibratore. Se ne sta tranquilla: ha messo il vibratore, non disturberà nessuno. Peccato che il vibratore del suo modello metà anni novanta, appoggiato al ventaglio e all’ombrello in borsa, fa più o meno lo stesso rumore di elicottero in fase di atterraggio. Cosa avete da guardare, tutti? Avanti, seguite la predica. Non vi preoccupate, non c’è nessun terremoto. La panca trema ma non vuol dire. Ho messo il vibratore, io. Non sono mica una vecchia ignorante come voi altre.

Postal market?

cassetta_postaleMattina feriale, ambiente rilassato. I poster tradizionali con le tariffe hanno lasciato spazio a promozioni su articoli da cancelleria, televisori piatti in vendita, libri e giocattoli. Sono in un ufficio postale, uno di quelli piccoli che si arrangia come può visto che ancora non ha la saletta modello autogrill in cui vendere di tutto e riprendere seduta stante al pensionato parte della pensione fresca fresca di ritiro.

Squillo di telefono. Mi scusi, ora lo spengo, bofonchia la signora a cui il nipotino spiritoso ha impostato come suoneria la Cavalcata delle Valchirie, ma l’impiegata al di là del vetro sorride compiacente. Non si preoccupi, che scheda ha? Si perché noi sa vendiamo anche schede telefoniche, abbiamo un’offerta molto competitiva. Ma veramente non vorrei cambiare numero…Non non serve, fa la mobilità ed è un attimo, guardi basta che compili questo modulo, lo facciamo insieme? No? Vuole pensarci un’altro po’? Certo non si preoccupi, io però mi sento di consigliarglielo. Intanto comincia a formarsi un po’ di coda, all’altro sportello l’impiegata chiede ad un giovane prestante: è venuto in auto? Il ragazzo si irrigidisce spaesato, di tutti gli approcci quello è il più insolito, e poi l’impiegata ha il doppio dei suoi anni, veramente sì, perché? Perché abbiamo delle assicurazioni molto convenienti. Lei è assicurato, vero? Certo che lo sono. E quanto paga? Ma veramente, adesso. Guardi, con noi paga sicuramente meno. Si ma non mi interessa, sarei venuto per un bollettino. E abbiamo anche il furto e incendio. Quanti anni ha la sua auto?
Signora, sono un agente di pubblica sicurezza, ho un’assicurazione convenzionata e sono contento così. A quel punto il giovane tira fuori dalla giacca una pistola e la punta contro la signora: adesso prendi questo cacchio di bollettino sennò sparo. No vabbé l’ultima parte l’ho immaginata io, ma fino a “sono contento così” è tutto vero.
Le poste italiane sono una ricchezza straordinaria.Una rete informatizzata di servizi che raggiunge l’ultima frazione sperduta dove non ci sono uffici statali, la scuola è stata venduta e il parrocco celebra una messa ogni quindici giorni, ma l’ufficio postale c’è. Però sono anche l’esempio di quello che ci aspetta, quando tutto si farà mercato e al pronto soccorso proveranno a vendere un collirio al disgraziato che piange con la gamba rotta, mentre i consigli comunali saranno interrotti in due tempi per dare modo all’assessore di presentare la nuova invincibile batteria di pentole dello sponsor.

La scena è avvenuta il 28 febbraio: quel giorno ho spedito una raccomandata che oggi 13 aprile non è ancora arrivata.

L’ultima cabina

cabinaAlcuni giorni rientrando a casa mi sono accorto che c’erano stati dei lavori sul marciapiede non distante dalla mia abitazione. Visto che era buio sulle prime non mi sono reso conto di ciò che era stato aggiunto o rimosso, ma poi ho guardato meglio e ho visto: la cabina telefonica non c’era più. Sostituita da un telefono pubblico con una striminzita pensillina di plastica.

Per carità, nessuna obiezione seria potrebbe giustificare la presenza di un oggetto che appartiene indiscutibilmente al nostro passato: e sono abbastanza sicuro che tra breve anche il telefono pubblico scomparirà. D’altronde le cabine erano sempre più spesso prese di mira da vandali, e chi ha lavorato nella SIP racconta di quanto costoso e faticoso fosse provvedere alla manutenzione di quelle cabine e prima ancora al recupero del denaro, quando prima dell’avvento delle carte telefoniche si pagava con gettoni e monetine.

Eppure con le cabine scompare definitivamente una serie di abitudini, modi di fare, e perché no, anche di ricordi legati a quei posti. Pensate soltanto all’importanza iconica della cabine londinesi, o alle migliaia di scene di film ambientate in una cabina telefonica (e qui mi limito a citare Uccelli di Hitchcock e Duel di Spielberg, però se volete partecipare al gioco suggerite le vostre preferite).

Pensate all’importanza, nella narrativa poliziesca, della possibilità di lasciar perdere le proprie tracce, oppure delle necessità di recuperare un telefono pubblico tipica del protagonista in fuga: oggi, tra dna tramite il quale si risale praticamente a tutto (nelle serie americane: nella realtà italiana mi sembra un tantino più complicato) e segnali lasciati dal cellulare, studiare un colpo di scena è molto più difficile.

Personalmente il telefono pubblico mi fa venire in mente le prime gite con la scuola, quando la sera in fila indiana raccoglievamo i gettoni per telefonare a mamma che aspettava con ansia in quei pochi minuti di sentire come era andata la giornata, se avevo sudato e se avevo mangiato abbastanza. Le mamme di oggi tracciano gli spostamenti dei figli con il gps, controllano le foto pubblicate su facebook in tempo reale e prima o poi troveranno il modo di misurare online la temperatura corporea dei figli collegando un termometro allo smartphone.
E poi le telefonate lampo ai tempi del liceo quando con quelle carte telefoniche sempre agli sgoccioli ci seccava il tempo che il papà della nostra amica (rispondeva sempre il papà, maledizione) ci metteva prima di passarcela alla cornetta. Perché il telefono pubblico ti garantiva la privacy da un lato, ma dall’altro il problema del papà rimaneva.
E che dire dei bar con l’insegna con la cornetta, a indicare che dentro avresti trovato un sarcofago di legno con un telefono risalente agli anni sessanta che puzzava di tabacco, birra e big babol?
Il telefono pubblico mi fa venire in mente anche gli anni dell’università (il mio primo cellulare è venuto dopo la laurea), le ore passate nelle cabine pubbliche con la mappa di Bologna in mano per cercare un posto letto, le striscioline di carta con i numeri di telefono degli annunci scritti a mano, la disperata ricerca di un bar per cambiare il denaro quando gli spiccioli finivano. Noi quando chiamavamo non chiedevamo “dove sei”, perché chiamavamo sempre un fisso che da trent’anni campeggiava in soggiorno, ma semmai dovevamo essere noi a dire dove eravamo.
Mi fa venire in mente anche le mie urla inferocite di fronte ad un amico che entrato con me nella cabina si lasciava andare a peti roboanti ma rifiutava di uscire perché fuori pioveva. E la speranza che in cabina ti accompagnasse quella ragazzina così carina per chiamare gli altri, che invece sistematicamente rispondeva “ti aspetto qui fuori”.
Ricordo ancora la telefonata a casa per dire che avevo superato i test per l’accesso all’Università di Bologna da una cabina in via Borgo di San Pietro, e quella per annunciare la prima borsa di studio dai dintorni di via Galliera… Per non parlare dei soldi spesi in numeri sbagliati, perché noi il numero lo facevamo sul serio, mica schiacciavamo un nome sullo schermo. Di numeri ne conoscevo a memoria decine, adesso ricordo a malapena il mio. Le telefonate erano poche e importanti, e il luogo diventava parte integrante. Ed era impoortante anche il tempo: nei primi anni di università ero in un collegio dove potevamo solo ricevere le telefonate, per cui era fondamentale sincronizzare i tempi con il chiamante. Sembra passata una vita, sono passati vent’anni.
Sullo stesso marciapiede dove risiedeva l’ultima cabina del quartiere, un giorno mia figlia mi chiese: papà, a che serve quella? Borbottai che serviva per le persone che non hanno un cellulare. O l’hanno dimenticato. O per i nostalgici.
Ora non più.