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Crociera e delizia

Per una serie di ragioni anche di natura anagrafica, quest’anno ho deciso finalmente di sperimentare la crociera per una settimana di vacanze della famiglia.

Giro del Mediterraneo occidentale con partenza da Genova e poi tappa a Civitavecchia, Palermo, Ibiza, Valencia e Marsiglia. Esordisco subito con il giudizio finale: mi sono divertito tantissimo, è una esperienza che consiglio anche a chi, come me, nutriva qualche dubbio. L’idea della crociera infatti trascina con sé infatti l’immagine di anziani pensionati con il cocktail in mano e la polo con i colletti inamidati. Ci sono anche loro, diciamolo subito, li riconoscete perché sono i più spensierati, quelli che hanno scelto la formula tutto incluso per cui all’occorrenza possono pure chiedere a un ufficiale di bordo di lanciarsi con la scialuppa e pescare qualcosa di fresco per loro. Ma ci sono anche tante coppie giovani, ci sono molte famiglie con bambini al seguito, ci sono anche persone di mezza età come il sottoscritto che per una volta ha deciso di rompere il salvadanaio e lanciarsi in questa avventura.

Più accessibile di quel che si creda

Da un punto di vista economico, la strategia di MSC, che è la compagnia che ho scelto, ricorda da vicino quello di parecchie compagnie di volo: prezzi base più accessibili della concorrenza, poi ti stangano sugli extra. Evitando l’altissima stagione e prenotando per tempo, infatti, una crociera di una settimana può costare tra i 700 e gli 800 euro a persona: non alla portata di tutti, ma una settimana di vacanza (specie se include un volo) difficilmente costa meno. A meno che non si dorma in stazione mangiando scatolette di tonno tutto il tempo (ah, quanti ricordi di gioventù). Se si sta attenti agli extra, come dicevo, non si spende troppo di più: nel nostro pacchetto era incluso infatti l’accesso al buffet e una cena con servizio per ogni sera, oltre che lla possibilità di assistere agli spettacoli musicali serali, di frequentare la palestra, il parco acquatico (sì, la MSC Grandiosa ha un parco acquatico con tre scivoli e vi dirò, non è niente male), al campo di basket e calcetto eccetera eccetera.

Galleria MSC

Quali sono, allora, questi extra? Tanto per cominciare, le bevande. A parte l’acqua al buffet dai dispenser, se non hai un pacchetto specifico le paghi. Più del normale, è ovvio: quasi 4 euro una bottiglia d’acqua da un litro, 9 euro per un cocktail, 2,70 per un caffè. Io personalmente credo comunque che i pacchetti non siano vantaggiosi: vanno dai 43 euro in su a persona (e se si viaggia in famiglia devono obbligatoriamente prenderlo tutti), per cui basta farsi due conti. A parte gli alcolizzati e i prepensionati con il secondo lavoro, credo che siano in pochi a scegliere queste offerte, preferendo scegliere a consumo.

L’altro extra che fa la differenza riguarda la cabina: se vuoi l’oblo lo paghi anche più di 50 euro al giorno, se vuoi il balcone con vista il prezzo base raddoppia, e così via fino alla suite imperiale. A tal proposito, davvero non riesco a domandarmi chi possa spendere 10mila euro per un appartamentino su una nave da crociera con altre migliaia di persone. Se avessi quel budget lo spenderei per un altro tipo di vacanze. Comunque, sono scelte. Come è una scelta pagare di più per avere accesso a un’area vip con piscina e ristorante riservato. Mai stato vip, non ne ho sentito la mancanza.

Un altro extra di cui difficilmente si può fare a meno, riguarda le escursioni. Ci sono porti, come Palermo, dove scendi dalla nave e sei in centro. O altri, come Ibiza, dove puoi prendere un traghetto per attraversare la baia e raggiungere il centro storico. Però se sbarchi in una città come Valencia, ti rendi conto che il porto in sé è già una città, visto che si estende per chilometri: se non vuoi perdere troppo tempo con i mezzi pubblici o aspettando un taxi, allora ti conviene pagare un servizio di pullman messo a disposizione dalla compagnia che ti accompagna in centro e ti riporta in tempo per la partenza. Noi l’abbiamo fatto e mi sento di consigliarlo. In altri casi, ricorrere alle escursioni organizzate, cioè delle gite con guida che si pagano a parte, è quasi obbligatorio. Chi trascorrerebbe infatti una intera giornata a Civitavecchia? In questo caso noi abbiamo acquistato un pacchetto che ci ha portati a visitare Tarquinia e Tuscania. Due cittadine affascinanti, con i loro borghi medievali, le torri antiche e le strade pavimentate. Spero di tornarci, visto che alla fine distano circa tre ore da Bologna, ma la verità è che l’Italia è talmente ricca che dubito che ne avrò davvero tempo.

La guida serve il giusto, nel nostro caso doveva ripetere ogni volta il sermoncino in italiano e inglese, ma insomma, sono soddisfatto. Meno bene è andata la seconda escursione che abbiamo acquistato, quella a Marsiglia. In questo caso, la decisione è stata legata al fatto che avevamo davvero poco tempo, circa cinque ore, per cui ci siamo affidati a un pacchetto che ci ha consentito di fare un lungo giro panoramico della città. Il problema qui è sorto perché il tempo a nostra disposizione era tra le 13 e le 17 e c’erano 38 gradi, immaginate la situazione. Se ci aggiungete la famigliola spagnola che si è iscritta per errore e capisce solo spagnolo (e anche con quello ha difficoltà di comprendonio) che fa un quarto d’ora di ritardo a ogni tappa, capite l’irritazione.

Ma è davvero turismo, questo viaggiare mordi e fuggi?

Lo abbiamo letto tutti in libri, saggi, articolo o meme che il senso del turismo è nel viaggio, più che nella meta. Se siete miliardari e non dovete lavorare per vivere, è vero. Se invece potete permettervi una settimana di vacanza l’anno, la crociera va benone. Di sicuro avrei voluto avere più tempo per visitare i quartieri meno turistici di Marsiglia, avrei voluto girare per il quartiere delle arti e delle scienze di Valencia oltre che per il centro storico, mi sarebbe piaciuto salire fino a Monreale, vicino Palermo, e magari fare tappa a Formentera. Certo che sarebbe più appagante avere una settimana per ciascuna di queste città. Ma dovendo fare una scelta, a me è andata bene così: lo spirito di una città e quei due o tre elementi fondamentali, si riescono a cogliere anche in sei o sette ore. Ho visto la Cappella Palatina di Palermo, ho passeggiato nei mercati di Valencia e nelle stradine del Barrio del Carmen, mi sono arrampicato su per le stradine di Dalt Villa fino a raggiungere la Cattedrale di Ibiza, ho ammirato la costa sud della Francia. Ho di che raccontare.

La vita in crociera

Le navi da crociera sono una specie di villaggio turistico in movimento. Per me, la vera felicità è stata addormentarmi in Spagna e svegliarmi in Francia senza autostrade, check-in, bagagli, parcheggio. Una libertà assoluta dalle preoccupazioni che, a mio modo di vedere, è la vera essenza della vacanza. Le procedure di imbarco e sbarco infatti sono rapidissime. Riguardo a come passare il tempo libero a bordo, le occasioni non mancano. Le piscine (a bordo ce n’erano quattro più le vasche idromassaggio) ovviamente sono sovraffollate e bastano appena per rinfrescarsi. Molto più divertente, come ho anticipato, il parco acquatico. Però anche solo affacciarsi a guardare il mare è meraviglioso.

Poi ho usato volentieri anche una palestra piuttosto ben attrezzata, mentre ho attraversato il casinò solo per raggiungere il teatro. Notevoli gli spettacoli: durano 45 minuti perché replicati tre volte per dare a tutti la possibilità di assistervi, ci sono cantanti, ballerini, prestigiatori, musicisti. Qualità piuttosto elevata, dimenticatevi il gioco aperitivo o l’animatore che racconta barzellette. In un secondo teatro c’era la possibilità di assistere a uno spettacolo a pagamento (10 euro con cocktail incluso) che è stato veramente mozzafiato. Si chiamava Strings: qui la cura per le luci, gli schermi multimediali, il talento degli interpreti e le loro acrobazie circensi mi ha regalato forse uno dei momenti più emozionanti della vacanza. La versione acustica di I’m on fire di Bruce Springsteen mi ha fatto rabbrividire.

Il cuore della nave è occupato da un grande centro commerciale con boutique che propongono prodotti in sconto, io tutte queste occasioni non le ho viste anche perché i prezzi non sono esposti e questo dovrebbe far riflettere. Comunque non sono poi il tipo da vestito Armani o Ralph Lauren né tantomeno da Rolex, nemmeno duty free. Ci sono tanti altri modi di passare il tempo per i quali vale quanto detto prima a proposito degli extra: spa, simulatori di guida, realtà virtuale, tutta roba che a terrà pagate la metà. Se dedicate le vostre energie per le visite delle città, ve ne rimarranno poco per queste attrazioni. E poi non dimentichiamoci del buffet: un ristorante aperto 24 ore al giorno che sforna decine di primi, secondi, pizza, hamburger, insalate, frutta, una quantità di dolci industriali.

Interni della MSC Grandiosa

Gli ultimi due extra di cui si può decisamente fare a meno riguardano la connessione Internet, che si paga (e dai, un giorno l’anno senza connessione si può fare, considerando che vicino ai porti la connessione dati funziona) e poi l’extra più incredibile. In un posto dove c’è uno strepitoso buffet aperto 24 ore al giorno, dove ogni sera hai la sera pagata in ristorante (ma a noi piaceva talmente tanto il buffet che spesso l’abbiamo saltata), dove se proprio hai voglia di qualche sfizio puoi mangiare a Palermo o Valencia, ci sono 12 ristoranti tematici. Piuttosto costosi, desolatamente vuoti. Questa strategia di marketing di MSC proprio non l’ho capita. Va bene essere snob e schizzinosi, ma spendere 70 o 80 euro a persona per una cena quando ne hai già pagata un’altra non deve essere parsa una buona idea nemmeno ai tizi della zona vip.

Si torna al lavoro con tanti ricordi in più e qualche chilo da smaltire.

Nessun perdono, di Flumeri e Giacometti

Capita di leggere romanzi di intrattenimento che appassionano, divertono, fanno trascorrere piacevoli serate in compagnia di autori e paesaggi che fuoriescono dalla carta per popolare la nostra immaginazione.

Così come capita di leggere storie che magari divertono un filino meno ma ci fanno conoscere culture, paesaggi, problemi anche che non conoscevamo e che siamo contenti di aver approfondito o scoperto.

Quando poi succede che questi due momenti si incontrano, bisogna davvero essere grati all’autore se ci ha fatto divertire e pensare. Che è quello che credo vi capiterà se leggerete “Nessun perdono” di Flumeri e Giacometti, edizioni Guanda Noir. C’è una storia di crimine sulla quale sarebbe un delitto soffermarsi troppo, per non svelare accidentalmente passaggi cruciali. Posso dire che il lettore si troverà invischiato in una serie di omicidi il cui collegamento emergerà solo alla fine della storia, com’è giusto che accada per un giallo.

Le pagine regalano più di qualche brivido nel raccontare esperienze anche piuttosto dure, grazie al tratto preciso e puntuale della penna delle autrici. Che sono al primo romanzo, ma attenzione, le ragazze di esperienza ne hanno eccome, e si vede. Perché a quella che potrebbe essere una vicenda come ne abbiamo lette tante, intersecano momenti toccanti che riguardano drammi dei giorni d’oggi come il bullismo e il femminicidio con estrema accuratezza. Oggi è facile infilare un tema sociale in un romanzo, tanto per imbonirsi la critica più impegnata. In questo libro invece la storia di Angela, una donna dal passato doloroso che conduce un’accademia per aspiranti criminologi e si trova a indagare in prima persona su questi crimini, scivola via leggera, senza appesantimenti moralistici.

Aggiungo anche che le autrici raccontano una Roma inesplorata (almeno da parte mia), accompagnandoci in quartieri e strade poco note ai turisti, come quelle della “Piccola Londra” o del ghetto ebraico, con pennellate in grado di restituire i colori e i sapori di certe località.

Non resta che aspettare il seguito di questo lavoro, o magari una trasposizione televisiva. Immagino che le ragazze che hanno scritto questo romanzo sarebbero assolutamente in grado di scriverne la sceneggiatura, senza l’ausilio di qualche inutile maschio messo lì solo perché l’ha chiesto la produzione.

L’insostenibile divergenza con la coppina

Prima o poi sapevo che sarebbe accaduto.

Sono entrato, mi sono guardato intorno, mi sono fatto prendere dallo sconforto. Che ci faccio, qui? Mi sono detto.
E l’ho fatto. Sono uscito.

È vero, abbiamo alle spalle una storia di conoscenza e rispetto, se non affetto, che risale al secolo scorso. È vero, non passerei alla concorrenza dell’imprenditore lombardo un po’ fascio nemmeno se l’alternativa fosse la fame. Al limite posso tradirti con i cugini del Conad. È vero, negli ultimi anni ho cominciato a fare la spesa e a frequentare i discount semplicemente perché sei diventata troppo cara per me. Ma da lì ad arrivare a tanto…

D’altronde il museo archeologico nel reparto sulla destra non si smentisce. La frutta è come quelle principesse egizie dei film d’avventura rinchiuse nelle piramidi: appena usciti dal tempio si polverizza. Il reparto carne ormai è più piccolo di quello dei prodotti per cani e gatti. Ci sono tantissimi piatti pronti per single o anziani soli, ma io al momento non appartengo a nessuna della categorie. Poi vino, tantissimo vino accompagnato da alcolici vari e super alcolici, bello ma inutile per me che sono praticamente astemio e magari vorrei un po’ di pesce che non fosse surgelato. Un esperto di marketing direbbe che sono fuori target.

Insomma, sabato mattina sono entrato nel negozio “In coop” vicino a casa mia, quello che familiarmente chiamo coppina, ho fatto un giro dentro e sono uscito senza comprare niente. Tutto esasperatamente caro e scelta probabilmente adeguata a un giovane, vegano, con qualche problema con l’alcol e cane e gatto viziato al seguito. Insomma niente che mi appartenga.

Chi mi conosce sa che sono un utente dei supermercati Coop da sempre, ma ormai mi diventa sempre più difficile collocarmi come acquirente per mera questione ideologica. La coppina in questione mi è simpatica, si respira un’aria da lotta sociale anni Settanta (dovrebbe chiudere alle venti, ma già alle diciannove e dieci un messaggio in filodiffusione comincia a ricordare che sta per chiudere, sta per chiudere, uscite, presto, fuori di qui dannazione!). Poco spazio anche per servizi quali prestito sociale o telefonia: lo spazio dedicato è praticamente chiuso e incellofanato e il messaggio è chiaro, qui si fa alla vecchia, se vi interessano i fronzoli andate in un ipermercato.

Ahimè, anche l’ipermercato non è qui quello di una volta, dove andremo a finire signora mia: adesso ci sono dei ristorantini di sushi in mezzo alle corsie e spazi per la socializzazione con caffè e merendine. Per un utente funzionalista come me che vuole gli stessi prodotti e in fretta, limitando al massimo l’interazione al buongiorno alla cassiera, è la fine.

Il mondo cambia e io no, è evidente. Alla fine sono andato a fare la spesa nel supermercato Coop un po’ più distante, che difende ancora i valori dei vecchi come me: carne buona (e anche un po’ di pesce), frutta e verdura decente, vino sì ma non da cirrosi, soia, kamut e altre diavolerie da Cosmopolitan poche e non pretenziose.

Ora e sempre resisteremo!

Trenta

Era un 14 settembre.

Un ragazzotto smilzo si aggirava per le strade di una città incontrata per caso.
Aveva deciso di studiare scienze della comunicazione perché gli piaceva scrivere e pensava sarebbe stato bello farne una professione. Chissà, magari sarebbe diventato persino uno scrittore di successo.

All’esame di maturità gli avevano detto che la scrittura non faceva proprio per lui.
Così, con l’autostima sotto i piedi, aveva azzardato una scommessa: provare a superare quel test di ammissione che offriva pochi posti per migliaia di aspiranti.

I test si tenevano nello stesso giorno a Torino, Salerno, Roma, Siena. Aveva scelto la Toscana, poi a Siena c’erano diverse persone che conosceva già. Aveva scoperto che, chissà perché, c’era un’altra città che il test lo faceva una settimana prima: proviamo, si era detto, servirà come allenamento. Quella città anarchica, entusiasta e caciarona era Bologna.

Ed eccolo lì, in un albergo di via Galliera, che a una certa ora della sera non è che gli avesse fatto un’impressione eccellente. Non c’era anima viva in giro, e quelle poche che c’erano non sembravano boy-scout. Quelli che giustamente denunciano gli eccessi turistici di oggi dovrebbero ricordare anche certe zone cupe della città dell’epoca.

Niente turismo per lui, doveva essere fresco per la prova del giorno dopo.
Comprò una rivista in edicola, guardò un po’ di Ajax-Milan in tivù, poi a nanna. La prima volta da solo in albergo. Wow.

Ancora non lo sapeva, ma stava prendendo uno di quei bivi che la vita ci propone e di cui comprendiamo le conseguenze solo più avanti.
Superò il test sia a Bologna che a Siena, alla faccia della commissione di maturità.

Il resto lo conoscete, sono passati 30 anni, il ragazzotto in effetti scrive, ma tutti i torti la commissione non li aveva visto che più che uno scrittore di successo è uno scrittore sul cesso: scrive infatti quando riesce a ritagliarsi degli attimi di intimità.

Ah già: il ragazzotto non è più smilzo.

Buona strada, Strunzy

Oggi, cari 25 lettori, permettetemi di ringraziare i miei familiari e nella fattispecie le mie figlie, che mi hanno concesso il privilegio di conoscere Strunzy.

Strunzy era un grillo dalle dimensioni ragguardevoli che durante le ore notturne acquisiva una grande voglia di cantare. Deve essere entrato da una finestra incautamente lasciata aperta dalle mie figlie che io ho chiuso solo più tardi.

Da qui si è posizionato sul mio comodino, dove ha cominciato a cantare. Alle tre in punto. Che burlone che era Strunzy, ci mancherà tanto.

Quando ho visto l’ora puntuale, ho pensato a una sveglia puntata male: certo che per programmare una sveglia perché suoni alle tre del mattino devi essere davvero molto distratto. Ma non c’erano sveglie a cui attribuire la colpa. Allora ho pensato a qualcuno in strada: ma nessun antifurto fa un suono paragonabile a quello che produceva Strunzy. Come se qualcuno facesse scattare un interruttore, come un contenitore che si apre e si richiude a tempo.

Ci siamo divertiti, io e lui. Lui che fingeva di essere sparito, per poi ricominciare a cantare appena io riprendevo sonno. Che mattacchione!

Io che cercavo di farlo uscire mentre lui gironzolava tra l’armadio e la scrivania. Purtroppo la nostra amicizia è finita verso le 4 e un quarto, 4 e mezza, per colpa della mia ciabatta che l’ha disintegrato con un colpo secco e ben assestato.

Buona strada Strunzy, adesso sveglia gli angeli del Cielo.

La fine di una storia d’amore

Le storie d’amore tra le automobili e i loro proprietari sono spesso destinate a concludersi dolorosamente.

Non è la mancanza di passione né il bisogno di nuovi stimoli a porre fine al rapporto, ma una parola fredda e spietata: rottamazione.

Comprammo la C3 per festeggiare (?) la mia assunzione a Monzuno. La precedente Saxo infatti aveva dimostrato più di qualche affanno tra i tornanti appenninici, e un vandalo motorizzato che ne sfasciò una metà mentre era parcheggiata tranquilla sotto casa ne anticipò la sostituzione.

Arrivò così lei, con quell’aria da nobildonna francese nonostante si trattasse di una utilitaria.

Aveva persino quella parola, bluetooth, che all’epoca ti faceva fare bella figura con gli amici.

Dal centro medievale di Castel di Casio al Contrafforte di Brento, dalle grotte di Labante ai laghi di Castiglione, non c’è angolo dell’Appennino che non abbiamo percorso insieme. Bologna, Monzuno, Tolè, Vergato. Quante curve, quante salite in seconda.

Comprese fughe “fuori porta” tra i forestieri di Loiano, Monghidoro o Zocca.

Sempre orgogliosamente emiliana romagnola, la C3: il suo minuscolo portabagagli non l’ha quasi mai portata fuori dai confini regionali. Minuscolo perché occupato dalle bombole a metano: con dieci euro facevo 250 km, altro che le aspirapolvere su quattro ruote che vorrebbero propinarci con la scusa della transizione ecologica.

Che poi a dirla tutta non ci si affeziona agli oggetti ma ai ricordi che ci associamo. Come quella volta che sommerso di neve la lasciai alla rotonda prima di Monzuno per chiedere al mio amico e collega Fabio che mi recuperasse con la Panda 4×4. Gomme termiche o no, non ne voleva sapere di continuare. Era pur sempre una nobildonna, che però indossò con qualche resistenza le catene il 13 novembre 2017, il giorno del nevone, quando mi attrezzai per recuperare mia figlia dal nido che chiudeva in anticipo vista la tempesta.

E come non citare quel 29 febbraio 2012, data indimenticabile: mia moglie mi chiamò per dirmi che le si erano rotte le acque, e la C3 volò come una C4 o una C5, pure. Per fortuna il viaggio non fu immortalato dalla polizia locale, sai che multa.

La mia cara C3 non mi ha mai coinvolto in incidenti anche se registro diverse sbandate in fondovalle e un testa coda sulle Ganzole, per fortuna senza conseguenze. Si perché come si dice a Bologna la C3 sguillava un po’, presa com’era da quell’entusiasmo nell’affrontare le curve.

Quasi quindici anni insieme, si volta pagina mia cara. Ne hai visti di incarti di caramelle, ne hai sopportate di figurine infilate ovunque e unicorni che rotolavano nel portabagagli.

Alcuni sinistri cigolii e qualche colpo di tosse di troppo ci hanno fatto capire che è il momento per te di andare in pensione.

A me manca ancora un po’. Anche se in cuor mio so di essere anch’io una utilitaria, una C3 che quando serve corre quanto una C4 o una C5 pure.