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La fine di una storia d’amore

Le storie d’amore tra le automobili e i loro proprietari sono spesso destinate a concludersi dolorosamente.

Non è la mancanza di passione né il bisogno di nuovi stimoli a porre fine al rapporto, ma una parola fredda e spietata: rottamazione.

Comprammo la C3 per festeggiare (?) la mia assunzione a Monzuno. La precedente Saxo infatti aveva dimostrato più di qualche affanno tra i tornanti appenninici, e un vandalo motorizzato che ne sfasciò una metà mentre era parcheggiata tranquilla sotto casa ne anticipò la sostituzione.

Arrivò così lei, con quell’aria da nobildonna francese nonostante si trattasse di una utilitaria.

Aveva persino quella parola, bluetooth, che all’epoca ti faceva fare bella figura con gli amici.

Dal centro medievale di Castel di Casio al Contrafforte di Brento, dalle grotte di Labante ai laghi di Castiglione, non c’è angolo dell’Appennino che non abbiamo percorso insieme. Bologna, Monzuno, Tolè, Vergato. Quante curve, quante salite in seconda.

Comprese fughe “fuori porta” tra i forestieri di Loiano, Monghidoro o Zocca.

Sempre orgogliosamente emiliana romagnola, la C3: il suo minuscolo portabagagli non l’ha quasi mai portata fuori dai confini regionali. Minuscolo perché occupato dalle bombole a metano: con dieci euro facevo 250 km, altro che le aspirapolvere su quattro ruote che vorrebbero propinarci con la scusa della transizione ecologica.

Che poi a dirla tutta non ci si affeziona agli oggetti ma ai ricordi che ci associamo. Come quella volta che sommerso di neve la lasciai alla rotonda prima di Monzuno per chiedere al mio amico e collega Fabio che mi recuperasse con la Panda 4×4. Gomme termiche o no, non ne voleva sapere di continuare. Era pur sempre una nobildonna, che però indossò con qualche resistenza le catene il 13 novembre 2017, il giorno del nevone, quando mi attrezzai per recuperare mia figlia dal nido che chiudeva in anticipo vista la tempesta.

E come non citare quel 29 febbraio 2012, data indimenticabile: mia moglie mi chiamò per dirmi che le si erano rotte le acque, e la C3 volò come una C4 o una C5, pure. Per fortuna il viaggio non fu immortalato dalla polizia locale, sai che multa.

La mia cara C3 non mi ha mai coinvolto in incidenti anche se registro diverse sbandate in fondovalle e un testa coda sulle Ganzole, per fortuna senza conseguenze. Si perché come si dice a Bologna la C3 sguillava un po’, presa com’era da quell’entusiasmo nell’affrontare le curve.

Quasi quindici anni insieme, si volta pagina mia cara. Ne hai visti di incarti di caramelle, ne hai sopportate di figurine infilate ovunque e unicorni che rotolavano nel portabagagli.

Alcuni sinistri cigolii e qualche colpo di tosse di troppo ci hanno fatto capire che è il momento per te di andare in pensione.

A me manca ancora un po’. Anche se in cuor mio so di essere anch’io una utilitaria, una C3 che quando serve corre quanto una C4 o una C5 pure.

Una cena al sudcoreano

All’inizio, per farti sentire subito uno di loro, ti accolgono con un posto di blocco. Di qui non ci si muove se non arriva il cameriere.

Bontà loro non ti chiedono i documenti, ma l’impressione è che se fossimo coreani del nord se ne sarebbero accorti.

Attendere, prego

Siamo in un ristorante sudcoreano perché la gentile consorte ha scoperto che oltre a Samsung, Lg e alla nazionale di calcio più antipatica di tutti i tempi (peggiore è solo la Germania di “Fuga per la vittoria”, ma quello era un film) la Corea del Sud è terra di serie televisive melense e canzoni che in confronto i Take That sembrano De Andrè. E quindi, esploriamone la cucina.

Ma è la festeggiata, con ignobile ritardo a dire il vero, decide lei. Appena ti siedi scopri che al centro del tavolo c’è una griglia. Diciamolo subito, l’unica vera ragione per spendere il triplo di quanto spenderesti in un cinese o in un indiano, è che qui ti portano la carne tagliata fine e tu te la cuoci. Lo so che il primo pensiero del braccino corto è, come, 13 euro per pancetta e manzo e devo pure cucinarmeli?

Non è obbligatorio però, cavolo, è divertente. È un viaggio nel tempo: come riuscire a mangiare di nascosto, piccolo birbante, mentre tua madre cucinava e ti teneva alla larga dai fornelli.

Solo che stavolta non devi nasconderti. In fondo nella trasformazione giocosa e benestante di un passato di miserie c’è tutto il senso di questa cultura lontana. O almeno credo, visto che non ascolterò mai K- Pop e figuriamoci se guardo le loro soap opera.

Spassoso anche mangiare nella coppa di pietra bollente. Visto che odio la salsa di soia, mi sono divertito a farla gocciolare e bruciare sadicamente in fondo al piatto. Basta stare attenti a non fare la fine della soia.

Ti forniscono bacchette di ferro perché qui non si butta niente, altro che bacchette usa e getta. O forse perché temono che qualche cinquantenne provi a vedere se nella griglia prendono fuoco (sarebbe magnifico!)

Voto negativo per le bevande: la birra giapponese è fatta a Roma dalla Peroni, la soda coreana non c’era e i loro succhi di frutta hanno il sapore del brodetto dolciastro in cui sono confezionate le pesche sciroppate.

Probabilmente buono il loro liquore a giudicare dall’agilità con cui la festeggiata l’ha fatto sparire con la scusa che tu devi guidare.

Impeccabile e veloce il servizio, d’altronde la Corea del Sud è una specie di grande, unica Milano, produci, consuma, crepa.

E te lo ricordano in cassa: o conto unico o parti uguali, che non abbiamo tempo da perdere noi, terún.

Autista, indicami la strada

Di solito quando qualcuno per strada mi chiede indicazioni, fidandosi di un essere umano piuttosto che dell’intelligenza artificiale, rispondo volentieri. Almeno se sono in grado, ovviamente, altrimenti ammetto onestamente i miei limiti.

Lo stesso faccio sull’autobus. Se però gli sventurati viaggiatori si rivolgono agli autisti, mi ritiro in disparte e osservo la scena: chi sono infatti io per contraddire un dipendente formato e preparato sulla gestione del pubblico?

Certi giorni, devo ammettere, lo spettacolo è impagabile.

Una coppia di ragazzi, alla fermata, si avvicina in via Mezzofanti alla porta anteriore, attende che si apra, e domanda: questo autobus va in via San Donato? La risposta è sì, anzi è l’unico autobus della zona che ti porta lì. Non attraversa via San Donato, ma ti conduce a pochi passi dall’incrocio da cui puoi proseguire o cambiare linea.
Io almeno avrei risposto così. L’autista scuote il capo deciso, i ragazzi si allontanano e si guardano intorno disorientati, se l’ha detto l’autista, ci saremo sbagliati noi.

Una signora si avvicina, deve andare in Regione, ha un appuntamento ma non è sicura sulla fermata. Ora, piccola nota per chi non conosce Bologna: non vedere gli uffici della Regione è complicato. Un pugno di torri che svettano in mezzo a una distesa di palazzi alti un terzo, li vedi. Li vedi anche a chilometri di distanza, anzi possono servire ad orientarti. Ma la signora evidentemente ha bisogno di essere rassicurata. Glielo dico io, afferma il condottiero.

Bravo, penso, magari non gli piacciono i giovani, ma questa l’aiuta. L’autobus si ferma proprio davanti agli uffici e spesso si ferma anche per una sosta di qualche minuto, non sarà difficile.

Ma arrivati nei pressi di via Della Repubblica, cioè almeno tre fermate prima, la signora chiede: adesso gira a destra? In effetti quello sarebbe il percorso tradizionale.
Però non può girare a destra perché ci sono i lavori, girerà all’incrocio successivo quella dopo, cambia poco. L’uomo sospira, fa segno di no, alza il braccio indicando avanti verso il futuro incerto, i disagi dell’avvenire, l’eternità.
La signora dell’appuntamento è presa dal panico, allora è meglio che io scenda subito, sostiene ad alta voce, tiene stretta la borsa, si volta con una piroetta, corre verso le porte al centro e scende.
Tre fermate prima. Sipario.

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, specie se le indicazioni ve le dà l’autista TPER.

Amatevi e godetevi il viaggio

Sarebbe bello se, nel momento del dolore più acuto per una perdita imprevista, ci fosse qualcuno che ti dicesse: non preoccuparti del resto, ci penso io. Cura le tue ferite dell’anima, che se non disinfettate diventano purulente come le altre.

Una specie di assistenza post funebre che ti accompagni negli adempimenti successivi.

Che io sappia tutto ciò non esiste, anche perché la burocrazia in tanti casi non ammette deleghe: sei tu che devi firmare, tu che devi muoverti tra marche da bollo, dichiarazioni e fotocopie dei documenti del tuo caro, tu devi chiedere, tu devi agire. Sei tu che devi rispondere all’operatrice telefonica per dire che si, il numero di cellulare vuoi disattivarlo subito anche se hai pagato fino a fine mese, perché tanto lo sai che a quel numero non ti risponderà più.

Sei tu che devi esibire l’estratto dell’atto di morte a destra e manca come se non bastasse la tua faccia a dimostrare quello che stai passando.

Il momento per me più difficile di questi giorni, tuttavia, non è legato alla tradizionale sceneggiatura funebre. La camera ardente, i fiori, i messaggi, le telefonate, fanno parte di un percorso che ti aspetti.

Il momento più difficile è stato quando l’addetta delle Ferrovie dello Stato (peraltro con molto garbo e tatto) mi ha chiesto di tagliare la tessera di viaggio di mio padre e mandargli una foto dopo.

Per papà sono esistiti fondamentalmente quattro universi: la famiglia, la sua comunità di amici, l’arte e la ferrovia. Tagliare quella tessera è stato per me come sancire l’addio: se non c’è più il ferroviere in pensione, non c’è più Tonino, non c’è più papà.

E comunque l’ho fatto, mi consola sapere che quando verrà il mio momento basterà non pagare più la tassa dell’ordine per annullare il mio tesserino da giornalista.

Adesso però, basta malinconie. La vita è come un treno, c’è chi sale e chi scende.

Celebrerò il ricordo di papà canticchiando una delle canzoni che intonava accompagnandoci al mare, quando l’autoradio non esisteva.

“Azzurro
Il pomeriggio è troppo azzurro
E lungo per me
Mi accorgo
Di non avere più risorse
Senza di te
E allora
Io quasi quasi prendo il treno
E vengo, vengo da te
Il treno dei desideri
Nei miei pensieri all’incontrario va”.

Amatevi e godetevi il viaggio perché non si sa quando scenderemo.

Ciao papà

Papà questa mattina ci ha lasciato.

Per ricordarlo ho preso tre foto.

La prima è quella che lui stesso aveva scelto per il suo profilo di WhatsApp. Una foto di anni fa, accanto come sempre alla mamma.

Fu scattata durante una mia presentazione. Papà è sempre stato in prima fila a sostenermi. Cercherò sempre il suo sguardo e il suo sorriso tra le prime sedie, anche se non sarà lo stesso.

La seconda è di questa estate, c’è il suo inconfondibile sorriso, aperto, affettuoso, sincero. Quello con cui spero stia bussando alle porte del Paradiso.

Antonio Caputo

La terza è uno dei suoi quadri che amo di più, quello di Statte con la neve, forse perché per me è un ricordo di infanzia. Da più di trent’anni infatti non vedo Statte con la neve.

Papà amava Statte più di quanto io non abbia mai compreso. Era nei suoi dipinti, nei suoi affetti, nelle sue storie.

Aveva provato, nemmeno ventenne, a cercare fortuna nella grande città, all’Alfa Romeo. Ma come un albero non può germogliare lontano dalle sue radici, lui aveva sempre bisogno di tornare a Statte. Provò anche a vivere a Modugno (avrei potuto nascere barese, brrrr….) ma niente, lui era di Statte e qui aveva bisogno di tornare. Le sue radici gli permettevano al massimo di stare via qualche settimana, per venirci ad trovare a Bologna, ma poi la nostalgia di casa pervadeva tutto.

Papà sapeva di non potere vivere lontano da Statte, ma ciò nonostante ha permesso a noi suoi figli di cercare un percorso familiare e professionale altrove.

Non riesco a immaginare amore più grande di chi lascia andare chi ama sapendo di non poterlo seguire.

Grazie papà per tutto quello che hai fatto per me.

Buon viaggio, hai sempre avuto fretta di partire per non arrivare tardi, stavolta avresti anche potuto prenderti un po’ di tempo ma ormai è andata. Ormai sei andato.

PS Nel 1993 presi la tua auto per andare al cinema e parcheggiando ruppi un fanale. Con la complicità della mamma lo feci sostituire il giorno dopo senza dirtelo. L’hai sempre saputo, lo so, ma hai sempre fatto finta di niente per non mettermi in imbarazzo.

Grazie.

Spero di essere un papà alla tua altezza, anche se sarà difficile.

Mi mancherai, mancherai a tutti, mancherai a Statte almeno quanto lei mancava a te.

Ciao papà.

Università di Bologna dalla A alla Z. Ieri, oggi e domani

Alcuni giorni fa sono stato invitato dal professor Mario Rivelli, meglio noto come Otto Gabos,  il nome con cui firma romanzi e fumetti, a un appuntamento piuttosto originale. Di fronte alla sede dell’Accademia, in quella che adesso si chiama piazzetta Roberto Raviola, è stato creata da un artista una installazione, o scultura, che richiama un podio, o un terrazzino, insomma un luogo da cui parlare, nella tradizione anglosassone degli speaker corner.

E in tanti, accomunati dai nostri trascorsi di studenti universitari a Bologna, abbiamo inaugurato quest’angolo del parlatore raccontando la nostra esperienza, con un occhio rivolto al passato e un altro invece che si sforza di focalizzare le prospettive future con proposte e idee per piazza Verdi, il quartiere universitario, l’Università in generale.

Ho dato il mio piccolo contributo senza prepararmi un discorso scritto, ma giusto una traccia. Ecco quello che credo di aver detto, ma non ne sarei troppo sicuro. 


Quando mi hanno invitato a parlare di passato e presente della cittadella universitaria di Bologna ho subito pensato che avrei potuto parlare per dieci ore almeno. Poi però nella lettera di invito ho guardato meglio le regole di ingaggio e mi sono accorto che erano proibite volgarità o apologia di reato, quindi alla fine dieci minuti mi basteranno. Per mettere in ordine un enorme flusso di pensieri che mi attraversa quando penso a Bologna e alla sua università, ho pensato all’ordine italiano per eccellenza. Quello che ci solleva dalla responsabilità di scegliere: l’ordine alfabetico. Ecco dunque i miei pensieri dalla a alla zeta.

A.A.A.
Cominciavano così gli annunci sui giornali, proprio per risultare i primi nell’ordine alfabetico. Io uso la tripla AAA non come eccellente votazione delle agenzie di rating, ma come sigla di Affissioni Abusive di Annunci. La prima volta che arrivavi a Bologna (per me fu il 1994), se chiedevi informazioni su appartamenti in alloggio, la risposta era sempre la stessa: annunci in piazza Verdi. Che all’epoca era completamente ricoperta di carta, e chi oggi parla di degrado finge di non ricordarsi i quintali di carta su bacheche, colonne, dentro le cabine del telefono o sui portoni dei palazzi. Carta sostituita continuamente, perché la caccia all’appartamento era quotidiana, in un’epoca in cui “digitale” era solo l’orologio che ti svegliava con la radio. C’era chi per attrarre l’attenzione pubblicava la foto di una bella attrice, seguita da “difficilmente vedrai lei, anche perché il posto è in una doppia con un fuorisede che a casa non torna MAI, ma il prezzo è buono”, c’era chi anziché prendere una strisciolina di carta con il numero di telefono, strappava via tutto il foglio per ostacolare la concorrenza.

A proposito di quelle striscioline, mi viene in mente un’espressione ormai sconosciuta: ore pasti
Negli anni Novanta si telefonava nelle ore pasti, cioè indicativamente tra le 13 e le 14 e tra le 20 e le 21, semplicemente perché i telefoni erano solo fissi. Non eravamo reperibili in qualunque momento in qualunque luogo. Non sono un nostalgico, però quel messaggio “ore pasti” devo dire la verità, un po’ mi manca.

Burella

Latte con i biscotti al mattino, burella a pranzo, spaghetti con il tonno a cena. La dieta dello studente fuorisede era molto semplice e poco variegata. Certo, accedendo alle mense universitarie si poteva variare, ma per il resto la burella del 25 ha caratterizzato tanti pasti negli anni della mia giovinezza. Il 25, per chi non è di Bologna, è il 25 di via Zamboni, un immobile che si affaccia su piazza Verdi e che trent’anni fa ospitava un bar che offriva diverse bevande, dessert, ma fondamentalmente burelle. Oggi non si trovano più, le avrà bandite l’OMS. La burella era una specie di focaccia rotonda, piuttosto piatta, morbida e – nome omen – burrosa. Credo che il colesterolo che ho ancora in circola dipenda da quei pasti, ma insomma, la burella costava poco, mille, duemila lire forse, era alla portata delle tasche di tutti. Non so se lo stesso si possa dire dei locali sorti ovunque per vendere frullati bio, insalatone (che oggi si chiamano poke), trancetti di pizza mignon.

Crocevia

Piazza Verdi per me è sempre stata un crocevia. Non un banale incrocio, ma un’area di movimento, di spostamento, in cui confluiscono diverse strade che qui rallentano, prendono fiato e ripartono. Non è un’agorà come piazza Maggiore, non ha la teatralità di piazza Santo Stefano, con le sette chiese sullo sfondo e palazzi memorabili a farle da quinte. Per capirla, bisogna accetterà che la vitalità di questo luogo le impedisce di essere uguale a se stessa. Non è un luogo di panchine e monumenti, piazza Verdi, è un luogo di incontro, anche tra culture diverse. Gli amministratori non potranno mai domare questa sua essenza, semmai assecondarla.

Destino o destinazione?

Mi affascinano le parole che,  pur partendo da un’origine comune, assumono poi significati fondamentalmente differenti. È il caso di destino e destinazione, che provengono entrambe dalla parola greca ìstemi, sto. Per me e per tanti altri Bologna è stata un destino, cioè è entrata con forza nella mia esistenza appropriandosene, stravolgendola. Oggi vedo che per tanti ragazzi è più che altro una destinazione, cioè una meta da raggiungere che però può rivelarsi solo la tappa di un cammino che poi li porterà altrove. Ecco, sei io fossi un amministratore cercherei di domandarmi cosa fa questa città per entrare nel destino dei tanti fuorisede che la attraversano, accolti talvolta soprattutto con l’obiettivo di spogliarli della paghetta di mamma e papà e mandarli via quando non servono più.

Eco

Difficile parlare della mia esperienza universitaria senza citare il professor Umberto Eco, del quale ho seguito due corsi e qualche seminario. In questa circostanza non voglio però vantarmi di questi trascorsi, quanto raccontare un aneddoto. Era il 15 settembre 1994, ero a Bologna per sostenere l’esame per accedere a Scienze della Comunicazione, in viale Berti Pichat. C’erano più di quattromila pretendenti per 150 posti: allora Scienze della Comunicazione era un corso di laurea innovativo proposto in cinque o sei sedi in tutta Italia, che si fregiavano di eccellenze tra i docenti. Se oggi parliamo di scienze delle merendine è perché l’avidità commerciale delle università l’ha trasformata in un corso in cui si può imparare di tutto, e quindi fondamentalmente niente. Ad ogni modo. Io ero uno studente meridionale al NORD. Nella mia vaga idea di NORD tutto ciò che stava al di sopra di Roma, fosse Helsinki o San Giovanni in Persiceto, era ammantato di un’aura di perfezione, puntualità, efficienza teutonica. E Bologna era al NORD. Ebbene, quella mattina Eco si avvicinò a me e a un gruppo di altri ragazzi, chiedendo: sapete se è qui che si tiene il test per accedere a Comunicazione? Io risposi timidamente di sì.
Un momento storico.
L’unica volta nella mia esistenza in cui ho saputo qualcosa che Eco non sapeva.
Il professore si avviò verso l’entrata, io pensai che Bologna era NORD, ma non così NORD in fondo, e per la prima volta pensai che avrebbe anche potuto diventare casa mia.

Fumo, fumo, fumo, bici, autoradio

Chi oggi si lamenta del degrado a Bologna in piazza Verdi forse non ricorda o finge di non ricordare il mercato pubblico di bici rubate che l’ha caratterizzata negli anni Novanta. Non si vendeva un prodotto, attenzione, ma un servizio: i tossici del tempo avevano capito tutto di marketing. Tu chiedevi una bici, loro ti mostravano quello che avevi, se non eri soddisfatto si allontanavano con la loro sacca contenente pinze e tenaglie, e dieci minuti dopo tornavano con la “tua” nuova bici. Per non parlare del fumo. Al tempo avevo una condizione tricologica più rigogliosa: capelli lunghi fino alle spalle, spettinati, un po’ metallaro un po’ figlio dei fiori. Insomma, a me il fumo non lo offrivano, il fumo lo chiedevano. Ce l’hai il fumo? No che non ce l’ho, non spaccio. E dai, dammi un po’ di fumo, che fai, tiri sul prezzo? Mi serve un po’ di erba, non fare il bastardo.
Ogni tanto qualcuno diversificava e offriva anche autoradio. Con esiti mediocri a dire il vero, visto che non avevamo i soldi per una bici, figurarsi per una automobile.

Grazie

Si ringrazia alla fine, è vero, ma avendo optato per questa tecnica alfabetica, devo farlo adesso. Meglio, così non lo dimentico. Grazie a voi, grazie a questa splendida città che ci ha fatti crescere. Il sentimento della riconoscenza non dovrebbe mai essere sottovalutato.

Halloween

Qualche tempo fa un amico mi fece notare come negli anni Settanta, quelli più caldi da un punto di vista sociale e politico, uno degli slogan più in uso tra i giovani era “Arresta il sistema”. Oggi arrestare il sistema vuol dire molto più prosaicamente spegnere il computer. 
Cosa c’entra tutto quello con la festa del 31 ottobre? C’entra perché tempo fa ho visto un volantino di un centro sociale che promuoveva appunto una festa di Halloween. Trent’anni fa Halloween semplicemente non esisteva, quello era il periodo delle feste delle matricole. Se anche i giovani più “ribelli” oggi festeggiano una festa tipicamente americana, figlia di un sistema mercantile che gioca sulle paure, vuole dire che il sistema ha vinto. Altro che combattere il capitalismo e l’individualismo, oggi combattiamo contro Freddy e Jason.

Insieme

Il futuro della città universitaria – che ormai è una galassia di cittadelle universitarie, se si considerano i satelliti disseminati, da Ozzano a Viale del Risorgimento, da Lame al Tecnopolo CNR – non può essere deciso solo dai vertici universitari, né da quelli amministrativi. Non può rispondere alle esigenze dei commercianti che amano il movimento, né a quello dei residenti che vorrebbero dormire. A tal proposito, dopo le undici di sera a Bologna si dorme bene praticamente ovunque, dalla periferia ai colli, dai palazzoni popolari alle villette più esclusive. Chi frequenta un po’ la città nelle ore notturne lo conosce bene quel silenzio ovattato, interrotto giusto dalla marmitta di qualche motorino che consegna pizze fuori orari. Poi ci sono le piazze dove ci si incontra per far tardi. Ma è davvero necessario zittire anche loro? Davvero un’unica cappa di silenzio è l’unico orizzonte che pensiamo per questa città? Non sarebbe forse più semplice che i residenti che vogliono legittimamente dormire si trasferissero a vivere nel 95% delle case tranquille invece che zittire l’ultimo 5%? (ndr la parte in corsivo non l’ho pronunciata, sebbene l’avessi predisposta. La ragione è semplice: prima di me ha parlato una professoressa che vive in centro che ha chiesto di porre fine ai rumori notturni. Ho vigliaccamente deciso allora di soprassedere.

Largo Respighi, Mense e Mangiatoia

Qui facciamo il salto triplo proponendo addirittura tre parole, che però sono legate. Ai miei tempi gli studenti mangiavano in mensa o al 25. Certo che c’erano i bar, ma al limite ci andavi per bere. Non che non offrissero niente di buono, è che erano cari per le possibilità di uno studente fuori sede. In Largo Respighi c’erano agenzie di viaggio, negozi, cartolerie. Oggi ci sono solo ristoranti. Tutto il centro è ormai una enorme mangiatoia, si mangia dalla mattina a notte fonda, ho visto gente addentare la pasta asciutta alle cinque del pomeriggio. Non esprimo giudizi, è una delle immediate conseguenze dell’apertura al turismo. Però non dimentichiamo che i turisti fanno altro, oltre a mangiare dalla mattina alla sera.

Non si fanno fotocopie

Durante gli anni universitari ho passato più tempo in copisteria che all’interno di qualunque altro locale pubblico, anche perché soldi per ristoranti e bar erano pochi e l’abbigliamento lo compravamo “giù” dove il costo della vita era minore.  

Fronte retro, bianco e nero o (raramente) a colori, riduzione da A3 ad A4, due pagine per foglio. La competenza che si acquisisce in quegli anni è sorprendente e, ammettiamolo, ti accompagna negli anni dove prima o poi in ufficio una fotocopia devi farla.

In copisteria prevalentemente si fotocopiavano appunti e dispense ma anche, ammettiamolo, libri. Credo che il reato sia ormai prescritto. Anche perché a dire la verità la maggior parte dei libri fotocopiati erano ormai fuori catalogo, faticosamente presi in prestito dalla biblioteca.  Vedo che il numero delle copisterie è calato: ci sono ancora, ma non sono onnipresenti. Può darsi che oggi gli studenti si documentino maggiormente online. Può darsi che abbiano più soldi e comprino tutto in libreria. Non voglio nemmeno pensare che persino loro, oggi, leggano meno.

Occasioni

Direttamente legata alla precedente, c’era la disperata ricerca di occasioni, cioè libri in sconto, usati, di terza mano, apocrifi. Ricordo bene che gli studenti di medicina erano i più attivi in questo ambito, appropriarsi di uno dei tomi sui quali studiavano poteva generare faide sanguinarie. 
C’era in particolare un negozio nella zona universitaria gestito da due fratelli: erano identici, tranne che uno era alto e magro, l’altro basso e paffutello. Sembravano usciti da un esperimento di genetica: prendiamo due gemelli e modifichiamo giusto due geni. Vediamo che ne esce, vi va?
Ebbene, nel loro negozio tra settembre e novembre si vivevano scene da Wall Street, ma non quella attuale fatta di computer e connessioni, no quella dei film anni Ottanta in cui si urlava, gesticolava, si facevano segni.  L’arrivo di un nuovo testo usato generava scene parossistiche con una folla che spesso occupava i marciapiedi fuori dal negozio perché dentro non c’era spazio a sufficienza. 

Oggi la libreria non c’è più, c’è un bar taglieri e aperitivi di cui si sentiva la mancanza.

Piazza Scaravilli

Ai miei tempi si diceva che chi attraversava piazza Scaravilli, anziché percorrere il giro lungo sotto i portici, non si laureava. Oggi l’arredo urbano è meno spoglio, più accogliente, ho visto che addirittura ci sono delle panchine. Meglio così, io non ho mai creduto nella superstizione, infatti piazza Scaravilli l’ho attraversata tante volte. 
Dopo essermi laureato.

Q&R, Quesiti e Risposte

I computer sono noiosi, sanno dare solo risposte, diceva Picasso. Figuriamoci adesso che si spacciano anche per intelligenti. Le domande sul futuro dell’Università e della zona universitaria dobbiamo farcele noi, essere umani.  Mettendo da parte i “si è sempre fatto così” e anche le nostalgie di cinquantenni che ricordano quanto era bello il mondo trent’anni prima, solo perché trent’anni prima avevano vent’anni. L’ho già scritto, il quartiere universitario deve essere convivenza. Però bisogna dire basta alla dittatura generazionale di quella fascia d’età, compresa tra i quaranta e i sessant’anni, che di solito è all’apice della propria carriera e rifiuta di fare spazio a chi viene dopo. I ragazzi hanno bisogno di spazi. Di incontrarsi, parlare, vivere, anche se questo è rumoroso.  Così nessuno più vivrà in centro? Perché, quanta gente credete che viva a Down Town a New York o al Quartiere Gotico di Barcellona? E dai, muovetevi. Il silenzio notturno di Baricella o Vergato aspetta solo voi.

Santa Cecilia

Cos’ha il quartiere universitario di Bologna che non potranno mai avere i campus delle giovani metropoli del resto del mondo? Cultura. Proprio così. A pochi passi da piazza Verdi c’è l’Oratorio di Santa Cecilia, che qualcuno ha definito la Cappella di Sistina di Bologna. Forse un po’ troppo, mai generazioni di artisti, scrittori, ma anche biologi e ingegneri si sono ispirati e fatti trasportare dalla bellezza di quelle mura.
Trasferite pure le vostre aule universitarie in periferia in asettici scatoloni ignifughi e antisismici. Allontanate gli studenti dal centro, sono così fastidiosi. Quando poi scoprirete che hanno deciso di andare a vivere altrove, non lamentatevi,

Teatro Comunale 

Il Teatro Comunale non potrebbe vivere senza piazza Verdi e la piazza perderebbe la sua identità senza il Comunale. Certo però più che una convivenza, in tanti momenti sembra una coabitazione forzata. Possibile sia così difficile aprire le porte del Comunale agli studenti? E poi, davvero il Teatro di tanto in tanto non può fare uno sforzo e ospitare qualche sonorità differente? Perché la musica che piace ai giovani deve essere sempre relegata ai palazzetti dello sport?

Ultime Valutazioni

Non so se quello che ho scritto sarà di qualche interesse per qualcuno, o si ridurrà a uno sterile esercizio di stile. Il bello di Bologna in fondo è quella sua irriducibile tendenza anarchica che sfugge a qualunque pianificazione e impostazione dall’alto. Se militarizzate piazza Verdi i giovani si sposteranno in piazza Santo Stefano, e poi in piazza San Francesco. Ascoltiamoli, questi giovani, e non negli stucchevoli recinti delle assemblee studentesche. Ecco, se c’è una cosa che i miei coetanei dovrebbero riscoprire, è l’ascolto. Abbiamo passato pomeriggi ad ascoltare musica nei negozi Ricordi e Virgin, spazi perduti per sempre, non sappiamo ascoltare i nostri figli?

Zavorra

E a voi ragazzi, dico una sola cosa. Siete cresciuti in  un mondo che faticosamente si liberava dei pesi ideologici di schieramenti contrapposti che vedevano nell’altro un nemico. Il rischio però è che a quelle ideologie se ne sostituiscano altre, peggiori; quella del denaro facile, del successo come indicatore della felicità personale, della popolarità che sostituisce il popolo. Non fatevi appesantire da queste idee mercantilistiche. Ricordatevi che è solo liberandovi da questi pensieri confezionati, da questa Zavorra, che potrete prendere il volo.
Buon viaggio.