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La scatola di cartone

Sotto il bancone del negozio c’erano dei grossi scatoloni che contenevano alcune carpette. Dopo aver ascoltato distrattamente il tuo nome, l’aiutante del fotografo si sporgeva pigramente e faceva scorrere le dita fra quei plichi, prima di prodursi in un laconico: non sono pronte, torna domani.

Chi non ha mai avuto la fortuna di portare a sviluppare un rullino non può sapere di cosa sto parlando. Non può cogliere l’emozione che si provava ricevendo quel tesoro prezioso, l’ansia di dare un’occhiata rientrando a casa, vedere cos’era stato delle nostre meravigliose fotografie, se i prodotti della nostra immaginazione si erano trasformati in immagini o erano rimasti sospesi nel limbo delle foto mal riuscite, quelle che lasciavano solo un ricordo sfocato e buio di sé.

La mia generazione è cresciuta imparando da subito a dover gestire le attese. Le attese di venti o trenta minuti perché si caricasse un videogioco, quelle perché il nastro in autoradio arrivasse in fondo prima di poterlo girare, le attese di diversi giorni per ricevere finalmente quelle maledette fotografie sfocate, con la zia con gli occhi chiusi e la testa del cugino spilungone tagliata dall’inquadratura.

E però tutte quelle delusioni sono servite a qualcosa. Abbiamo imparato a meditare prima di quel click. Ci siamo chiesti se davvero quella fotografia poteva avere senso, se sarebbe interessata a qualcuno. Abbiamo selezionato, e oggi, in una scatola di cartone in fondo all’armadio del soggiorno, possiamo godere il risultato di quelle scelte. Abbiamo una ventina di foto della festa per la Prima Comunione o della Cresima e anche meno per quella del compleanno (con un rullino si facevano almeno tre feste minori come i compleanni o le gite, oppure una maggiore come i sacramenti o le gite fuori regione). Sono lì a testimonianza di quel che è stato. Cosa accadrà invece dei nostri ricordi? Delle 150 foto scattate controluce per una passeggiata sui canali di Cesenatico, ce n’è una degna di essere tramandata? Fare fotografie costa poco, dite? Certo. Ma che ne sarà di quelle schedine di memoria? Qualcuno riuscirà a fare andare quei vostri hard-disk con migliaia di foto delle vostre simpatiche tazze con il latte nel cappuccino che prende forme insolite, comprensibili solo a voi? Se vincerete il nobel, forse qualcuno si prenderà la briga di scavare tra la vostra spazzatura digitale.

In caso contrario, di voi rimarranno le scatole nell’armadio del soggiorno: qualcosa dell’infanzia rimarrà, per quello che è venuto dopo pazienza.

La schedina fra le dita

Gli appassionati di calcio oggi seguono le partite di campionato praticamente dal venerdì al lunedì, persino all’ora di pranzo, con le giornate libere occupate da manifestazioni internazionali. Cari ragazzi miei che vi appassionate a questo sport come a me capitò più di trent’anni fa, non è sempre stato così. Quello che voi assaggiate è un vino talmente annacquato da risultare insipido, e mi domando come facciate a non esserne stufi (io per esempio lo sono).
C’era una volta la schedina: un gioco che con poche lire permetteva di sfidare la fortuna cercando di indovinare i risultati: la schedina fra le dita può cambiare la tua vita, cantava il mitico Toto Cutugno.

La schedina c’è ancora, almeno credo, ma è tutto il corredo intorno ad essere svanito. Intanto perché le partite si giocavano tutte in contemporanea, dalle 14,30 (orario spostato in avanti l’estate). Quindi in quei novanta minuti potevi sapere se avevi vinto o no, senza dover aspettare tre giorni. Poi perché la schedina era un rito collettivo, quello che manca alla società attuale parcellizzata tra mini schermi personali e contenuti ipertrofici h24, come dicono quelli che ne sanno. Andavamo allo stadio tutti insieme, dal mio indimenticabile “Erasmo Jacovone” di Taranto a San Siro, dall’Olimpico al Renzo Barbera. Poi tutti insieme rientravamo in auto sperando di fare in tempo per novantesimo minuto, per poi ritrovarci di fronte alla domenica sportiva, che faceva sì rivedere i goal, ma da angolazioni sghembe dietro la porta e con primi piani sul terzino che facevano tanto televisione di qualità.

E io ancora me lo ricordo quel maledetto undici, un numero maledetto come il cinque e mezzo per i liceali o il ventinove per gli universitari, un sogno svanito in pochi  attimi: il mio tredici che resisteva sino a pochi minuti allo scadere, poi due gol che ti facevano crollare dal mito del successo alla mediocrità di uno dei tanti che non ce la fa. Erano di solito le partite minori a rovinarti la festa, un pareggio casalingo della Triestina o peggio ancora una vittoria inattesa del Campobasso in C2 (e no, all’epoca la C2 non era una utilitaria francese). Non ricordo quanti undici ho collezionato, non tantissimi direi, ma abbastanza da farmi ancora ricordare la delusione.

Delusioni o gioie che derivavano dal nostro scandire il tempo tutti insieme, il dibattito la domenica sera dietro la parrocchia o ancora il lunedì mattina sull’autobus che ci portava a scuola. Perché noi non avevamo il supporto della tecnologia, ma eravamo parecchio social, eccome se lo eravamo.

I ragazzi del terzo millennio

giovani_oggiCari ragazzi del terzo millennio che andate in gita pensando di godere finalmente di un po’ di libertà, non vi invidio. Non vi invidio perché i vostri genitori possono chiamarvi in qualunque momento e chiedervi come va, com’è il tempo, se avete mangiato e se la maglia della salute vi sta troppo troppo stretta. E se non rispondete entro pochi minuti,  sarà il vostro amico a dirvi scocciato ti prego richiamala sennò manda in paranoia anche la mia.

Non vi invidio perché noi la mamma la sentivamo solo la sera, dopo una fila estenuante in coda al telefono a gettoni, e per quanto carico potesse essere il sacchetto di monetine dorate di cui eravamo forniti, prima o poi la linea cadeva. Se sapevamo giocarci bene le nostre carte, inoltre, in fila potevamo fare incontri interessanti, e magari scambiare due parole con la biondina della 2A.

Cari ragazzi del terzo millennio che andate in gita e volete raccontare in breve com’è andata, non vi invidio. Non vi invidio perché dalle vostre foto sui social chi è rimasto a casa avrà un freddo reportage del palazzo ducale e magari si accorgerà anche che il tempo è nuvoloso. Con quelle centinaia di foto ad altissima risoluzione, con filtri che le rendono tutte ugualmente anonime, non potrete arricchire il racconto di sfumature e, perché no, gonfiare anche un po’ l’entusiamo per le vostre scoperte. Al limite potere essere fotoreporter, insomma, non scrittori in tour. E non regalerete quel brivido all’amica che riceve a casa la vostra cartolina, scritta da voi in piedi in una tabaccheria affollata con la penna tremolante. A dire il vero la cartolina volendo potete ancora inviarla: fatelo, se ci tenete a lei.

Cari ragazzi del terzo millennio, non so nemmeno se ci andrete, in gita. Quel maledetto gruppo whatsapp dei vostri genitori infatti ha fatto litigare i rappresentanti di classe con il preside, il preside con gli insegnanti, gli insegnanti con i genitori. Perché i miei genitori gli altri li incontravano due volte l’anno, il bruto alcolizzato non c’era mai e la pettegola del paese non aveva il coraggio di palesare le sue malelingue davanti a tutti. Adesso il bruto è il gestore del gruppo whatsapp e la pettegola pubblica un contenuto ogni dieci minuti, fate un po’ voi.

Ogni epoca rimpiange il passato remoto, lo diceva anche Sant’Agostino, semplicemente perché non l’ha conosciuto. Sono d’accordo, anche se il passato prossimo io me lo ricordo bene e non era poi così male.
Cari ragazzi, in ogni caso, godetevi questi anni. A quelli dopo di voi probabilmente toccherà un microchip sottopelle dotato di gps e gruppo di continuità. Finiranno per invidiarvi.

La saracinesca che non si rialza

macelleriaOggi ho visto un cartello affisso su una saracinesca non molto distante da casa mia. La macelleria cessa l’attività, e ringrazia i clienti che l’hanno accompagnata per 64 anni. Fino al giorno prima, aggiungerei io, perché la macelleria di clienti ne aveva tanti e più che un di un tramonto malinconico, come per certe salumerie che non riescono a reggere la concorrenza e si svuotano lentamente, si è trattato di un epilogo brusco. Ovviamente non ne conosco le ragioni, e nemmeno ho voglia di intraprendere un’analisi come se ne leggono tante in giro, e che vorrebbero convincerci che è meglio così. La grande distribuzione, rispetto al negozio di quartiere, ottimizza i costi e le risorse, perché è più facilmente raggiungibile da fornitori e clienti, offre orari di accesso più ampi (sino alla follia dei supermercati aperti tutta la notte), permette maggiore scelta, favorisce la concorrenza, eccetera eccetera. Per fortuna oggi le donne lavorano più frequentemente di trent’anni fa, e quindi le famiglie preferiscono la spesa settimanale.

Ora, io credo che questi discorsi possono valere sulla vendita tout-court, ma non su negozi che contemplano anche un servizio. In altre parole, posso capire che tu mi dica che la vendita di un chilo di zucchero sia più efficiente in un ipermercato. Ma il taglio della carne, la sua scelta, la sua lavorazione, richiede competenze e professionalità: un po’ come la capacità di scelta e consiglio di un libro, che i vecchi librai avevano e che le difficilmente le recensioni online sostituiranno. Però il danno sul tessuto sociale rimane. Nessuna scheda raccogli punti conoscerà il cliente come li conosceva quel macellaio. E soprattutto questo non è un articolo scritto con la testa, è un articolo scritto con il cuore.

Il cuore di chi da bambino, a sei o sette anni, veniva mandato dalla mamma alla salumeria sotto casa, una di quelle con il bancone con i formaggi, la macchina per tagliare gli affettati sul retro, un po’ di frutta nelle cassette e i detersivi nell’angolo a destra, accanto ai biscotti. Per non parlare dell’espositore che conteneva le patatine fritte con le sorprese dentro, poste strategicamente alla mia altezza, sulla parete laterale. C’era di tutto, in quei posti, e io potevo comprare un chilo di fagiolini ma solo se sono quelli buoni “senza filo”, oppure un pacco di fette biscottate, o un litro di latte “della centrale” (beati anni in cui esistevano le centrali del latte, prima dell’invasione del marketing). E certe volte capitava che nel percorso di una trentina di metri mi dimenticassi qualcosa o peggio ancora pasticciassi con i ricordi (non ho mai voluto scrivermi la lista della spesa, quella è stata una fregatura arrivata vent’anni dopo) per cui chiedessi per esempio un chilo di sedano, che l’orecchio attento del salumiere mi invitava a verificare prima con mamma. E capitava ovviamente anche di andare a comprare il bagno schiuma alla “Casa del detersivo” (all’eucalipto: negli anni ottanta le famiglie per bene avevano tutte il bagno schiuma verde all’eucalipto), oppure due bottiglie di birra alla vendita all’ingrosso (con il vuoto a rendere, per cui gli restituivi le bottiglie scolate, altro che campane verdi). E andavo anche alla pescheria a chiedere se aveva degli avanzi per il gatto, oppure in macelleria per il macinato per le polpette e due fettine di carne però tenere, eh, che quelle dell’altra volta erano dure come suole (il commento lo aggiungeva mia madre, io facevo solo da ambasciatore). Se rinascessi oggi, non ritroverei quei negozi vicino casa in Puglia: a parte la pescheria che sopravvive, gli altri non ci sono più. E non ce ne sono più tanti negozi nemmeno qui a Bologna, dove mi raccontano che per queste strade una volta la mattina era tutto un via vai di persone, buongiorno signora le ho tenuto da parte il latte, oggi ho una mortadella profumata buonissima, guardate queste mele che bellezza. Sarà anche un bene per il circuito economico, che tutto ciò non ci sia più. Però non so dove mandare mia figlia per farle fare due passi sotto casa, e questo mi rattrista. Perché l’ho scritto, questo non è un articolo scritto con la testa, è un articolo scritto con il cuore, e certe volte il cuore si rabbuia senza avvisarci.

C’era una volta la videoteca

videotecaA proposito di oggetti e ambienti che i nostri figli non conosceranno mai, oggi voglio parlare della videoteca. La videoteca è l’ambiente più anni ottanta che mi venga in mente, raccontata anche in tanti film e telefilm (il primo che mi viene in mente è Clerks).
La prima volta che entrai in una videoteca avevo più o meno dodici anni. Era una stanza non troppo grande, vuota, con un bancone dietro al quale sedeva una persona con il lavoro più bello del mondo. E sulle pareti… Sulle pareti tutte quelle copertine di videocassette che riproducevano decine di film diversi, in larga parte film d’azione americani e commedie italiane. Da qualche parte in giro ce n’è ancora qualcuna, non so, di sicuro sembrano passati secoli, sono passati una trentina d’anni. I ragazzi di oggi sono abituati ad avere a disposizione decine di canali dedicati, film on demand, bauli pieni di dvd. L’abbondanza dell’offerta culturale a loro disposizione è forse paragonabile all’abbondanza alimentare di cui abbiamo goduto noi rispetto ai nostri genitori. Ma così come noi non abbiamo mai forse assaporato davvero il gusto della fetta di torta della domenica, abituati ad avere la dispensa piena di biscotti,allo stesso modo a loro mancherà quel girovagare tra copertine alla ricerca del film che convincesse tutti e tre. Sì perché un nostro compagno di classe fu il primo ad avere in casa un videoregistratore, allora in tre andavamo a scegliere un film da vedere a casa sua. Ovviamente quando avevamo trovato un accordo e chiedevamo il film quello era già fuori, ed era fuori anche la copia che la persona con il lavoro più bello del mondo aveva fatto. Quella piccola azione illegale non era niente in confronto al mercato di film pirata che sarebbe fiorito di lì a poco: film ripresi direttamente in sala, con colori inesistenti in natura (mi capitò poche volte, meglio un film di qualche anno prima che almeno si poteva vedere che non quell’osceno simulacro di film rubato). Ogni tanto però la persona con il lavoro più bello del mondo nemmeno ce lo diceva che era una copia (era bravo a dissimulare) e lo capivamo perché il protagonista aveva un colorito verde acqua e parlava con nonchalance ad una donna arancione. Orribili esperienze che per fortuna i dvd, i blueray e adesso i film online hanno risparmiato alle nuove generazioni. Generazioni che non proveranno mai la terribile onta di dover pagare la multa per non aver riavvolto il nastro (succedeva anche questo).
Una decina dopo arrivò il dvd, e con esso una definizione decente, e molti di quelle persone persero il loro bellissimo lavoro. Si perché il dvd ti veniva distribuito da una specie di bancomat dal quale sceglievi il film dopo aver inserito i soldi. Vedo già la faccia dei quarantenni al di là del monitor che annuiscono. Per carità in centro c’erano dei negozi di Block Buster con i film esposti, e le patatine, e i videogiochi, e tutta quella merce che ti fa impazzire a ventotto anni. Ma in periferia, quei posti meravigliosi non c’erano. C’erano gli sportelli automatici. La videoteca non aveva più quel fascino dell’osservazione delle pareti, alla ricerca dell’ultimo film in fondo alla fila. C’era quel monitor, la tua schedina con il codice… E la riconsegna in giornata. Cioè, in nottata, perché se riconsegnavi il dvd dopo averlo visto risparmiavi sul prezzo. E quante passeggiata nella notte bolognese ho fatto per riconsegnare i dvd dopo averli visti, con il freddo, la pioggia e qualche volta la neve. E meno male che non c’era la multa se non lo riavvolgevi.

C’era una volta l’audiocassetta

Sarà che ho superato i 5000 post e oltre dieci anni in compagnia di questo blog, e ritrovare lo smalto dei primi tempi è difficile. Sarà che superati i 40 la tendenza alla nostalgia si accentua. Sarà che mia figlia ha trovato una cassetta audio e mi ha chiesto: cos’è? Insomma, ho deciso di aprire una nuova rubrica in questo blog, che chiamerò “C’era una volta”. E non voglio dedicarla certo all’analisi storica (io? ma quando mai) e nemmeno ad un dibattito e signora mia si stava meglio quando si stava peggio.
Semplicemente, voglio dare spazio a tutto ciò che è scomparso dalla nostra vita negli ultimi decenni e che prima o poi mia figlia (o i vostri) potrebbe scoprire per poi domandarvi: cos’è? Cos’era?
Voglio cominciare questa rubrica proprio con l’audiocassetta. Con quel meraviglioso pezzetto di plastica che conteneva una o due ore di audio (ma ce n’erano anche da 30 minuti, non ho mai capito perché). Che non ti permetteva di saltare una traccia o riascoltarne un’altra, se non al prezzo di un noiosissimo riavvolgi nastro. Che attenzione, non era un optional sempre incluso: la prima autoradio di mio padre (un mattone pesante e ingombrante da portarsi sempre dietro: con l’avvento del frontalino sono scomparsi anche i borselli da uomo, domandatevi perché) per esempio non ce l’aveva. E se un lato era un po’ più lungo dell’altro occorreva attendere qualche minuto in silenzio prima di girare il nastro oppure sacrificare la prima canzone del lato B. Oppure ricorrere alla matita del praticone, o alle penne Staedler, le mie preferite quando si trattava di riavvolgere il nastro.
Si perché, cari miei minorenni alla lettura, c’era il lato B, audiocassettae i produttori lo sapevano bene e c’era una certa abilità nel distribuire le tracce tra le prime 5 o 6 e le seconde, con l’apertura che di solito era la title track e la penultima del lato B che immancabilmente doveva scaldare il cuore.
Certo, la musica c’è ancora, direte voi. Sì. Però il cd prima e i vari file fruiti da chiavette, schede oppure streaming semmai hanno sostituito il disco. Non l’audiocassetta. E il motivo è semplice: l’audiocassetta non solo permetteva di ascoltare, ma permetteva di registrare. Era lì tutta la magia. Non eravamo fruitori passivi, ma in qualche modo produttori. Quando la pirateria era solo quella del Mar dei Caraibi, io registravo il festival di Sanremo con un registratore appoggiato sotto il televisore, intimando l’assoluto silenzio agli astanti, e imprecando tutte le volte che Pippo Baudo interveniva in anticipo prima che il brano sfumasse. Per non parlare di tutti i radiogiornali che ho registrato, mentre mio fratello raccontava storie improvvisate solo per il gusto di riascoltare la sua voce (ed era capace di andare avanti per ore: deve aver esaurito tutte le parole trent’anni fa, considerando com’è taciturno adesso). E poi, vogliamo parlare della compilation? La raccolta di brani romantici metallari per far breccia nel cuore della compagna di classe, con Never Say Goodbye di Bon Hovi, Amazing degli Aerosmith e Still Loving You degli Scorpions? Se ripenso ai miei tredici anni, ripenso alle compilation. Alla magia di quell’impianto Pioneer doppia traccia, che permetteva di trasferire un brano da una cassetta all’altra, con quella transumanza poetica dell’analogico che nel creare una copia perdeva sempre un po’ dell’originale per strada, fino ad avere traccia fantasma copia di copia di copia in cui recuperare la musica diventava davvero un lavoro di fantasia.
E poi la compilation ci costringeva a scegliere. Avevamo spazio per dieci, forse quindici canzoni, non di più. E con la paghetta dell’epoca non è che potessimo regalare una o più compilation ad ogni ragazza che non ci stava (io per esempio mi sarei indebitato paurosamente). Oggi in un’oretta puoi copiarti un terabyte di musica. Ma non c’è più il disegno di quel preadolescente innamorato che sperava che i capelli di cotonati di Jon riuscissero dove i suoi brufoli avevano fallito.