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La saracinesca che non si rialza

macelleriaOggi ho visto un cartello affisso su una saracinesca non molto distante da casa mia. La macelleria cessa l’attività, e ringrazia i clienti che l’hanno accompagnata per 64 anni. Fino al giorno prima, aggiungerei io, perché la macelleria di clienti ne aveva tanti e più che un di un tramonto malinconico, come per certe salumerie che non riescono a reggere la concorrenza e si svuotano lentamente, si è trattato di un epilogo brusco. Ovviamente non ne conosco le ragioni, e nemmeno ho voglia di intraprendere un’analisi come se ne leggono tante in giro, e che vorrebbero convincerci che è meglio così. La grande distribuzione, rispetto al negozio di quartiere, ottimizza i costi e le risorse, perché è più facilmente raggiungibile da fornitori e clienti, offre orari di accesso più ampi (sino alla follia dei supermercati aperti tutta la notte), permette maggiore scelta, favorisce la concorrenza, eccetera eccetera. Per fortuna oggi le donne lavorano più frequentemente di trent’anni fa, e quindi le famiglie preferiscono la spesa settimanale.

Ora, io credo che questi discorsi possono valere sulla vendita tout-court, ma non su negozi che contemplano anche un servizio. In altre parole, posso capire che tu mi dica che la vendita di un chilo di zucchero sia più efficiente in un ipermercato. Ma il taglio della carne, la sua scelta, la sua lavorazione, richiede competenze e professionalità: un po’ come la capacità di scelta e consiglio di un libro, che i vecchi librai avevano e che le difficilmente le recensioni online sostituiranno. Però il danno sul tessuto sociale rimane. Nessuna scheda raccogli punti conoscerà il cliente come li conosceva quel macellaio. E soprattutto questo non è un articolo scritto con la testa, è un articolo scritto con il cuore.

Il cuore di chi da bambino, a sei o sette anni, veniva mandato dalla mamma alla salumeria sotto casa, una di quelle con il bancone con i formaggi, la macchina per tagliare gli affettati sul retro, un po’ di frutta nelle cassette e i detersivi nell’angolo a destra, accanto ai biscotti. Per non parlare dell’espositore che conteneva le patatine fritte con le sorprese dentro, poste strategicamente alla mia altezza, sulla parete laterale. C’era di tutto, in quei posti, e io potevo comprare un chilo di fagiolini ma solo se sono quelli buoni “senza filo”, oppure un pacco di fette biscottate, o un litro di latte “della centrale” (beati anni in cui esistevano le centrali del latte, prima dell’invasione del marketing). E certe volte capitava che nel percorso di una trentina di metri mi dimenticassi qualcosa o peggio ancora pasticciassi con i ricordi (non ho mai voluto scrivermi la lista della spesa, quella è stata una fregatura arrivata vent’anni dopo) per cui chiedessi per esempio un chilo di sedano, che l’orecchio attento del salumiere mi invitava a verificare prima con mamma. E capitava ovviamente anche di andare a comprare il bagno schiuma alla “Casa del detersivo” (all’eucalipto: negli anni ottanta le famiglie per bene avevano tutte il bagno schiuma verde all’eucalipto), oppure due bottiglie di birra alla vendita all’ingrosso (con il vuoto a rendere, per cui gli restituivi le bottiglie scolate, altro che campane verdi). E andavo anche alla pescheria a chiedere se aveva degli avanzi per il gatto, oppure in macelleria per il macinato per le polpette e due fettine di carne però tenere, eh, che quelle dell’altra volta erano dure come suole (il commento lo aggiungeva mia madre, io facevo solo da ambasciatore). Se rinascessi oggi, non ritroverei quei negozi vicino casa in Puglia: a parte la pescheria che sopravvive, gli altri non ci sono più. E non ce ne sono più tanti negozi nemmeno qui a Bologna, dove mi raccontano che per queste strade una volta la mattina era tutto un via vai di persone, buongiorno signora le ho tenuto da parte il latte, oggi ho una mortadella profumata buonissima, guardate queste mele che bellezza. Sarà anche un bene per il circuito economico, che tutto ciò non ci sia più. Però non so dove mandare mia figlia per farle fare due passi sotto casa, e questo mi rattrista. Perché l’ho scritto, questo non è un articolo scritto con la testa, è un articolo scritto con il cuore, e certe volte il cuore si rabbuia senza avvisarci.

La colpa è sempre del Comune

Mancano poche ore alle agognate vacanze. Devo chiudere un paio di pratiche, inviare qualche e-mail, preparare tutto per il rientro. E devo farlo in fretta. Una collega mi chiama. Ha dei problemi con una password. In quei casi, la tentazione di rispondere con un “leggiti il manuale”, o “chiama l’assistenza” o “adesso non ho tempo” è forte. Però decido per un giorno di dismettere l’abito da burbero e faccio il gentile, vado nel suo ufficio, sistemo il problema che è relativamente semplice, la collega mi saluta sorridente, nel mio piccolo le ho risolto la giornata. È bastato così poco.
Quando alcuni anni fa cominciai a lavorare a Monzuno, proprio quella collega con lo stesso sorriso affettuoso, di fronte alle proteste a volta immotivate dei cittadini, mi ricordò che “I den semper la colpa alla C’muna” (è sempre colpa del Comune).
Una frase che ho portato con me e che porterò ancora oggi che quella collega non potrà più ricordarmela.
Cara Maria, quando scherzavamo dicendo che non saremmo mai andati in pensione, non pensavo certo che saresti stata di parola. Mi consola solo saperti vicina alle persone cui hai voluto più bene e che tanto ti mancavano.
Non sarà certo un’odiosa password o un sistema informatico complicato a impedirti l’accesso dove andrai ora. E sono contento di essere stato gentile con te l’ultima volta che ci siamo visti.

Siate sempre gentili con gli altri, se ci albeririuscite. Perché non è detto che ci sia sempre una possibilità per rimediare.
Ciao Maria. Danno sempre la colpa al Comune.
Ma io e te sappiamo che non è vero…