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Sanremo 2024: le pagelle ai testi

Anche quest’anno mi accingo alla mia analisi critica di Sanremo, che però trascura completamente le melodie, gli arrangiamenti e l’esecuzione, per i quali non ho alcuna competenza che mi consenta di esprimere un giudizio che valga la pena condividere. Mi concentro sull’uso delle parole, alle quali, dopo tanti anni di scrittura, ho cominciato ad affezionarmi.

“Fino a qui”. Alessandra Amoroso

Ci si sono messi in dieci per scrivere la storia tragica di un suicidio, con un testo non particolarmente originale ed evidentemente al servizio della melodia.

È vero che la vicenda è ambientata in piena notte, ma un freddo cane a Roma può sentirlo solo una salentina. Come se non bastasse poi arriva anche il vento e il temporale. Mettiamo che sia tutta una metafora, però buttarsi giù da un grattacielo sarebbe stato più credibile da Milano.  Per scrivere questa canzone senza infamia e senza lode ne bastavano un paio di autori.

Voto 6

“Vai”. Alfa

Canzoncina innocua piena di buoni propositi e voglia di vivere, peccato per quell’espressione usurata, “il cielo sarà il limite”, traduzione italiana di una frase idiomatica anglosassone molto usata sia nella musica che nella pubblicità. A un certo punto si cita addirittura Icaro, considerando il livello medio questo ragazzo è praticamente un intellettuale. Speriamo in futuro legga qualcosa di più rispetto ai Baci Perugina e alle citazioni sul muro alla fermata del tram.

Voto 6

“La noia”. Angelina Mango

Una canzone dedicata alla noia che finisce per adagiarsi su questo sentire, visto che i concetti chiave sono ripetuti più volte. Carino l’uso di termini stranieri con tono sarcastico quali business e princess, per non parlare della cumbia della noia del ritornello. Oltre tutto la frase  “Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa” è molto efficace, peccato solo per quelle notti bruciate che puzzano tanto di frase fatta.

Voto 6,5

“Sinceramente” – Annalisa

Innamorarsi e soffrire per uno che spegne sigarette sul velluto blu è francamente un po’ troppo, persino per una canzoncina orecchiabile scritta per le radio commerciali. Per fortuna la tizia della storia non si sogna di tagliarsi le vene per questo campione però piange, caspita se piange. La storia finisce con “sinceramente tua”. Per lo meno noi speriamo finisca perché soffrire per uno così pesante, ragazze mie, non è proprio il caso.

Voto 6,5

“La rabbia non ti basta” – BigMama

Canzone impegnata ma non troppo, nel senso che si parla di bullismo: “È facile distruggere i più fragili, colpire e poi affondare chi è solo, copri le lacrime segreti da tenere, non farti scoprire, lo sai che a casa non devono sapere, cosa dovrai dire”, però l’impressione è che le manchi il coraggio di fare un passo avanti, di denunciare, di non nascondersi dietro una prosa priva di intuizioni e immagini efficaci. Insomma, ottime intenzioni, esiti così così. La rabbia non ti basta, infatti servirebbe anche un po’ di inventiva.

Voto 5

Governo punk” – Bnkr44

“Scrivo dentro un garage, la mia testa è un collage” è una frase che grida vendetta, una rima che da sola meriterebbe un tre in pagella. Dicono di ascoltare i Queen e i Blur, ci provano anche a essere spiritosi “in provincia la nebbia è la stessa dal 2003”, ma poi scivolano di nuovo in un paio di passaggi da dimenticare in fretta, come quel lavarsi i denti con il gin o quell’anno che verrà me ne vado un anno al mare. Anche citare richiede rispetto, quando si scrive maluccio. Riprovateci, e magari andatevelo a studiare davvero, il punk.

Voto 4,5

“Diamanti grezzi” – Clara

Purtroppo anche questo testo fa tombola quando si tratta di individuare i luoghi comuni del pop italiano: c’è il correre a fari spenti, ci sono le ali spezzate dalle ferite, c’è persino la frase a effetto che cercheremo di dimenticare in fretta (“L’amore è una sala slot”: nel senso che è pieno di anziani ludopatici? Chissà, meglio l’amicizia allora).

Il ritornello torna spesso su un concetto: siamo diamanti grezzi, cadono in mille pezzi. Figlia mia, se cadono in mille pezzi non erano diamanti, ma volgari imitazioni. Un po’ come questa canzone acerba.

Voto 5

“Onda alta” – Dargen D’Amico

“Sta arrivando, sta arrivando l’onda alta, stiamo fermi non si parla non si salta”. Il bello della musica leggera è che, quando è scritta bene, disvela un universo in poche strofe. E questa canzone è scritta dannatamente bene. Non tanto per i contenuti, perché affrontare una tematica sociale come l’immigrazione e i morti in mare non è una scelta vincente, se poi non sai portarla a compimento. Invece il brano è un susseguirsi di lampi che illuminano il dramma: siamo più dei salvagenti sulla barca. Cos’altro c’è da aggiungere? Peccato solo che il testo scivoli un po’ nel moralismo quando lascia la burrasca in mare e si sposta nelle nostre città “Come faccio a volere una vita in incognito. Se parlo solo di me? Se basta un titolo a fare odiare un intero popolo?” anche perché non è che si diventa razzisti per un titolo, basta molto meno. “Tutta questa strada per riempire un frigo” è la frase più triste dell’intera manifestazione, altro che ragazzotti che blaterano per un amore finito.

Voto 9

“Ti muovi” – Diodato

Diodato è un artista d’altri tempi, un cantautore che non cerca di stupire con effetti speciali, non azzarda rime o metafore fuori contesto. Il risultato finale però sa di compitino senza troppa passione sull’ennesima storia d’amore finita male. Si può fare di meglio, su, se esiste una parte che crede ancora sia possibile tanto vale farla emergere, no?

Voto 6 +

“Apnea” – Emma

“Se avessi un telecomando non ti cambierei mai”.  L’essenza del pop è tutta qui, sentimenti condivisi, immagini efficaci. La storia è sempre la stessa, la relazione è in bilico per colpa di lei, lui però ha occhi che uccidono e le toglie il rispiro (ah, il bello e impossibile torna sempre). Si incontrano per i corridoi, lei gli chiede se si ferma tutto il week-end e se vuole fare tutto con lei. Insomma, non un inno all’indipendenza femminile e all’autodeterminazione, ma si sa, quando lui ha occhi che uccidono…

Voto 5,5

“Mariposa” – Fiorella Mannoia

Casualmente passiamo dalla donna infoiata che brama di donarsi carnalmente a un tizio fighissimo di Emma, a un’autentica poesia che ci riappacifica con l’universo femminile. La canzone si ispira alla vicenda delle sorelle Mirabal assassinate dal regime di Trujillo della Repubblica Dominicana il 25 novembre 1960. Tecnicamente perfetta, certo la struttura aiuta, ma questa è una canzone che spero verrò ricordata fra trent’anni quando si parlerà di questo festival. “Sono la strega in cima al coro, una farfalla che imbraccia il fucile”. Imparate, ragazzotti che pensano che basti parlare di periferie e bullismo per essere impegnati!

Voto 10

“Il cielo non ci vuole” – Fred De Palma –

Sparami adesso sparami ora, ma tu promettimi che staremo bene anche all’inferno, il cielo non ci vuole, pieni di rimpianti fino all’overdose”.

Sono contro la violenza e non voglio mandare nessuno all’inferno, ma certo se queste canzoni sparissero non avrei alcun rimpianto, visto che l’unica overdose è quella di luoghi comuni e frasi trite.

Voto 4

“Tutto qui” – Gazzelle

Si può vivere bene senza l’ennesima storia d’amore che finisce a Roma Nord? Certo che sì, ma ormai la canzone è stata scritta, tanto vale dargli un’occhiata. Autocommiserazione, rimpianto, filosofeggiare un tanto al chilo (e questa vita non impara mai), ennesimo testo che probabilmente ChatGPT avrebbe scritto meglio, che però si salva in calcio d’angolo grazie a una chiusa efficace: “Vorrei guardare il soffitto con te, stesi sul letto col raffreddore, chiudere gli occhi e vedere com’è”.

Se non altro sappiamo che all’origine di tanta sofferenza c’è un raffreddore, che a Roma Nord, si sa, sono terribili.

Voto 5,5

“I p’ me, tu p’ te” – Geolier

Si può essere banali e sciatti anche usando il dialetto (l’incipit è da horror: siamo due stelle che stanno precipitando…) e Geolier lo dimostra. Non è che tutti possono nascere Pino Daniele, per carità, ma la cultura napoletana merita di più un cielo che piange perché i due pischelli si sono lasciati.

Voto 4

“Casa mia” – Ghali

Quando una canzone diventa un inno durante le manifestazioni senza essere dichiaratamente politica, vuol dire che coglie bene il sentimento contemporaneo. Ghali prosegue nel suo autobiografismo di fuorisede un po’ integrato un po’ no (è più facile però essere immigrati quando si ha il fisico di Ghali, o quello di Mamhood) ma lo fa con pudore, senza eccessi retorici. Il verso “Dal cielo è uguale, lo giuro” è piaciuto anche a monsignor Ravasi, per cui il voto non può che essere abbondantemente positivo, anche perché era ora che qualcuno dicesse che siamo tutti zombie con il telefono in mano,

Voto 8

“Fragili”, Il Tre

Siamo fragili come la neve, tu sei libera come un’isola, e ancora sei la sete nel mio deserto, sei come le fiamme bruciano nell’inferno, lui si sente come un naufrago in mare aperto. Allora, le metafore possono funzionare, i paragoni anche, ma possono insaporire un testo, non essere la portata principale. Nessuno al ristorante ordina un piatto di cannella e fiori di garofano. Sarebbe indigesto, come questa brutta canzone.

Voto 5

“Capolavoro” – Il Volo

Signori, ci siamo. Anche quest’anno rimaniamo senza fiato di fronte all’apoteosi della stramberia, al trionfo dell’immagine agghiacciante, talmente brutta da mettere paura, a quel verso che si fa spazio come un rutto dalla profondità delle viscere: cadi dal cielo come un capolavoro. Ora, dal cielo cadono sovente le defecazioni degli uccelli, maledetti. Talvolta, se si è sfortunati, un vaso, o un pezzo di intonaco. Se va ancora peggio cadono gli aerei, ma quelle sono tragedie. Chi ha mai visto cadere dal cielo un capolavoro? Un dipinto agreste ottocentesco, magari? Un componimento scultoreo che richiamava il Canova? Al limite potrebbe cadere un libro, magari dalla finestra di un bibliotecario distratto, ma chi potrebbe mai paragonare la caduta di un tomo con l’apparizione dell’amata? Il resto del componimento è scialbo e si dimentica in fretta, c’è la prevedibile vela in mare aperto, c’è l’innamorato che va al cinema per sognare l’America o casa della ragazza (e dove mai abita, a Versailles?), ma sono piccoli sprazzi di luce di fronte al bagliore del capolavoro che si schianta al suolo. Straordinario.

Voto 1

“Tu no” – Irama

Di questo testo si ricorderà soprattutto la consapevolezza dei propri limiti: “Bastasse solo una stupida canzone per riuscire a riportarti da me…”. Evidentemente non basta, eppure risponde ai requisiti, pare. Lo stoico interprete non lascerà che la sua donna – che l’ha mollato, come mai? – lo lasci vedere crollare. Cade, ma in fondo dice di meritarselo. Come dargli torto?

Voto 4

“Autodistruttivo” – La Sad

“Nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle” è il massimo che riesce a produrre questa canzone, di nuovo impegno sociale all’acqua di rose, di nuovo esiti che in confronto certi romanzi Harmony erano Leopardi: “E vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino. Affogo in una lacrima perché il mio destino è autodistruttivo”. Il soggetto in questione, il solito maledetto che si ubriaca nel bar trafitto dal dolore, sostiene di aver imparato come si sopravvive là fuori molto più dagli errori che dai suoi professori. Considerando la povertà lessicale e le immagini da diario di terza media, noi suggeriremmo un ripensamento e un ritorno dai professori, che da imparare c’è ancora tanto.

Voto 5

“Pazza” – Loredana Berté

“Sono sempre la ragazza che per poco già s’incazza”. Già l’apertura fa capire che qui siamo di fronte a un testo scritto da chi sa scrivere. Il ritornello è uno dei migliori, nella sua semplicità arriva dritto al punto senza inutili orpelli: “Non ho bisogno di chi mi perdona io, faccio da sola, da sola, e sono pazza di me. Sì perché mi sono odiata abbastanza”. A volte basta un verso per scrivere un’autobiografia: “Prima ti dicono basta sei pazza e poi, poi ti fanno santa”. Conciso e nitido. Peccato solo per quel cuore spremuto come un dentifricio, una immagine che ci saremmo risparmiati e che fa perdere qualche punto a uno dei migliori testi di quest’anno.

Voto 7,5

Tuta gold” – Mahmood

“Mi hanno fatto bene le offese, quando fuori dalle medie le ho prese e ho pianto, dicevi ritornatene al tuo paese, lo sai che non porto rancore”. Essere menati da ragazzini apre le porte di Sanremo, questo ormai è evidente. Accenni al bullismo a parte, il testo ricorre un po’ troppo a termini inglesi gergali di cui oggettivamente non si sente l’esigenza, però l’immagine maranza di cinque cellulari in una tuta dorata, da sola, mette a tacere una decina di canzoncine insulse.

Voto 6,5

“Spettacolare” – Maninni

Ecco un testo scritto con molto mestiere, che in perfetta tradizione sanremese non dice niente, ma lo dice bene, “C’è chi cerca soltanto diamanti, o la formula giusta per la felicità, ma siamo spesso tutti troppo distratti, o troppo convinti per riconoscerla”. Concetto banalotto ma espresso con termini adeguati e senza il ricorso a figure di significato logore. Meno bene quel “Tutto il mondo è una gabbia di specchi, una partita a scacchi con la verità” che osa un lirismo di cui non si sentiva il bisogno. Non so se qualche adolescente ricopierà questo testo del diario di scuola come facevo io con quelli di De Gregori, ma se lo fa ha la mia approvazione. Confrontato con il deserto intorno, avercene di oasi di italiano corretto come questo.

Voto 7

“Due altalene” – Mr.Rain

Il titolo è probabilmente il migliore di questa edizione. Dietro l’immagine di due altalene c’è già una storia. Peccato che però poi gli autori, anziché rimanere su un piano evocativo, si prodighino nel tentativo di spiegare questa immagine “Sospesi in aria come due altalene, quante volte ci siamo trovati sul fondo”.  Detto questo, la canzone è una spettacolare sequenza di quadri bruttarelli, con un uso della lingua anonimo e il solito ricorso al dolore in prima persona che dovrebbe rendere più simpatico il protagonista. Puoi urlare quanto vuoi, ma “Griderò, griderò il tuo nome fino a perdere la voce” non si può sentire, altroché. “In mezzo al temporale abbiamo unito i nostri lividi come due oceani indivisibili”. Ma perché? A chi può venire in mente di ospitare nella stessa frase lividi e oceani? La geografia torna anche nella frase “Anche un’alba diventa un tramonto a seconda di dove ti trovi nel mondo” ma almeno c’è la correttezza scientifica. Insomma, con una bella ripulita avrebbe potuto essere un bel testo, così è un guazzabuglio talmente saporito da risultare poco digeribile.

Voto 5

“Ricominciamo tutto” – Negramaro

“E chi se ne fotte di tutti quei sogni, di una canzone o uno stupido testo?! Io, qui, ti aspetto!”. Ecco, un passaggio così da solo merita un bel voto, perché tra citazioni più o meno esplicite di Battisti e uso semplice ma efficace del lessico colloquiale “Quanto tempo ti manca per esser pronta? Io sono sotto che ti aspetto, così ti porto al mare” questo lavoro dà l’impressione di non prendersi troppo sul serio. Sono solo canzonette, cantava Bennato, i Negramaro lo sanno, e sanno scriverne di buone. Una serenata di chi si gode l’attesa dell’incontro senza frignare come certi cantantucoli piagnoni già citati. Bravi, ma cio sono ottimi sinonimi per “fottere” e “chi se ne frega”.

Voto 7

“Pazzo di te” – Renga Nek 

Renga ha cantato canzoni meravigliose, però gliele scriveva Omar Pedrini. Quando si è messo in testa di fare il cantautore ha prodotto qualcosa di grazioso o poco più, ma non è questo il caso. Magari c’entra anche Nek, ma “L’amore è nobile, è  fatto di un metallo indistruttibile ma è così fragile” è troppo anche per questa coppia in evidente crisi di andropausa. “Amarsi è semplice, ma ingovernabile, indispensabile”: una canzone scritta con un rimario, come tanti se ne trovano in rete: parole che finiscono con “ile”. Eccole, scrivi. Non manca neanche il mantello di cielo, evviva. Però qualche punto il duo lo recupera con la frase  “L’amore è un giudice, è un miserabile, lo trovi in tasca ma non lo puoi spendere” . L’amore come una moneta fuoricorso è un tratto discutibile ma almeno originale che salva questa canzone dall’oblio.

Voto 5,5

“Ma non tutta la vita” – Ricchi e Poveri

“Anche la più bella rosa diventa appassita. Va bene, ti aspetto, ma non tutta la vita”. Cosa gli dici a due che ti mettono in piazza una rima così nel ritornello, peraltro molto orecchiabile? Che ci sarebbe molto da imparare da questi autori che disegnano il dialogo tra due amanti: si conoscono bene, giocano, scherzano, si provocano a vicenda, ogni tanto filosofeggiano “Lo sanno tutti che, il tempo vola via neanche te ne accorgi, che giorno siamo oggi” ma senza esagerare. Indipendentemente dall’età anagrafica dei cantanti e dalla demenza senile incipiente, si capisce che è un pezzo pensato per una coppia diversamente giovane che non sopporta la confusione del sabato, si perde di vista (non metaforicamente), poi decide di ballare perché di tempo non ne è rimasto tanto: ti giri un momento e la notte è finita.

Voto 7

“Finiscimi” – Sangiovanni

Non sono un perbenista che si scandalizza facilmente, ma le parolacce in una canzone, proprio per la loro portata, devono avere un senso preciso. Qui non ce l’hanno e diventano insipido turpiloquio. Brutta canzone che fa a pugni anche con la costruzione della frase “Ti ho scritto mille lettere e non dirti neanche una parola” è da matita blu. La storia di un uomo bugiardo  che tratta male una donna e poi scrive per chiedere scusa già è irritante di per sé, se poi è infarcita di giustificazioni “Io non so come si controllano le emozioni” “A mia discolpa dico che ero perso” allora diventa proprio fastidiosa. Speriamo di sentirla poco.

Voto 3

“L’amore in bocca” – Santi Francesi

Altro che santi, il titolo sembra tratto dall’opera di Rocco Siffredi, e torna nella solita canzone di un amore finito e autodistruttivo (ma cos’è, un festival a tema)? “Ti rivedrò in un quadro, in un ricordo vago, in un porto sicuro, in un mare stanco” potrebbe anche funzionare, ma perché seguire un filo di lana? Si è forse scucito il maglione? Non è strano, è scemo. Anche perché sta piovendo e i protagonisti scivolano sopra i tetti prima di cadere a pezzi.  Se fossero caduti prima di scrivere questa canzone forse sarebbe stato meglio,

Voto 5

“Un ragazzo una ragazza” – The Kolors

“E lo sai, l’amore non si può cantare in una strofa da otto”. Come con i Negramaro e Irama, anche in questo caso si fa apprezzare la consapevolezza dei propri limiti. Che ci sono eccome, perché “Vorrei parlarti ma ho paura di ghiacciare” è una frase che lascia interdetti, magari però i giovani d’oggi parlano così, chissà, spero però che non dicano “E comprerei per te la luna se c’avessi money”. Tutto sommato il racconto, nella sua ovvietà, funziona: un ragazzo incontra una ragazza. È tutto lì. Peccato però per quel verso di oscena bruttezza: la notte poi non passa, la notte se ne va. O passa o pure no, decidetevi. A meno che non aveste dato appuntamento alla notte (Ci vediamo alle due al parcheggio del supermarket?), solo che poi la notte tira il bidone, non passa e se ne va. Ecco, così avrebbe senso. Forza ragazzi, che vi costa riscrivere un verso meglio, per evitare uno scivolone così pacchiano?

Voto 5

Sanremo: cantano tutti (e poi patteggiano)

musicaE comunque il colorito di Carlo Conti non esiste in natura. Io c’avevo un Big Jim di quel colore, ma era perché lo lavavo con il sapone da bucato.

Tutti “Je suis Charlie”, tutti liberi e libertini, poi Siani fa una battuta infelice su un bambino sovrappeso (ciccione non si può dire) e apriti Cielo siora Maria dove mai andremo a finire.

Certe nuove proposte sono talmente vecchie che per televotarle serve il piccione viaggiatore.

Ciribiribì Kodak! Ah, no, è Nesli.

Dopo la Premiata Forneria Marconi posso anche andare a dormire

Qualcuno sa come si fa a televotare il tatuaggio più tamarro a Sanremo?

Sanremo: vincono tre giovani che fanno cose che nemmeno due secoli fa. La perfetta sintesi dell’era renziana.

Il festival della nazione italiana

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Oggi non puoi definirti un blogger se non commenti Sanremo, e quindi non ci esimeremo dal farlo, nonostante qualche imbarazzato legato al fatto che ho potuto seguire solo spezzoni delle varie serate, perché il mio status di lavoratore con figlia a carico questo mi offre. Propongo allora una pagellina che fa tanto tecnico e quindi in linea con i tempi.
10 Papaleo. E la smettano quelli che parlano di “sorpresa” o “rilevazione”, Rocco Papaleo è un attore presente in televisione, alla radio e al cinema da tanti anni, ovvio che chi guarda le isole dei famosi, i grandi fratelli e le dirette sulle disgrazie non lo conosceva. Il bello del successo ottenuto, e meritato, da Rocco è che è la dimostrazione che in Italia il talento c’è eccome: basta far fare le cose a chi sa farle. Si prende un  intrattenitore e attore completo, lo si mette sul palco e lui fa il suo mestiere bene. Ovvio che non è la stessa cosa se si pretende che una modella presenti o che un cantante conduca. A ognuno il suo. Ma nel paese dove i figli dei professori insegnano medicina all’università anche se sono laureati in legge, questo è pretendere troppo.

5 Irene Fornaciari. La ragazza è brava e si impegna, ma per fortuna Sanremo non è l’università, un ministero o un’azienda, dove il “figlio di” si piazza sempre e comunque. Non basta una canzone di Van De Sfroos e addirittura Brian May a risollevare le sorti di una prestazione, e di una carriera, che sembra non decollare. Io non so se ha ereditato l’immenso talento del padre, ma se fossi in lei lascerei perdere le grandi collaborazioni con gli amici di papà,  se ha le capacità prima o poi le dimostrerà da sola.

4 Celentano. Celentano oltre ad essere uno straordinario cantante (e l’ha confermato per l’ennesima volta senza nemmeno dover ricorrere ai vecchi successi come fanno in tanti) ha carisma, gestisce bene i tempi teatrali – altro che pause, lui è uno che sa come si tiene il pubblico in sospeso – ha anche un ottimo senso dell’umorismo. Però non è un autore. Affiancato da qualcuno che lo aiuta a scriverei testi, dà il meglio di sé, che si tratti dei vecchi simpatici film firmati da Castellano e Pipolo, fino a successi televisivi recenti (vi ricordate il rock e il lento di Rockpolitick? Dietro c’era Diego Cugia). Altrimenti rischia la catastrofe, come quel Joan Lui in cui mescolava toni apocalittici con battute demenziali. Non è stata una catastrofe, ma un mezzo pasticcio sì, anche perché da uno come lui ci si aspettava qualcosa di più dei luoghi comuni sui preti non parlano del paradiso (senza nemmeno citare le accuse indegne a Famiglia Cristiana e Avvenire). Come ha detto un commentatore televisivo, non puoi inscenare un ambiente beckettiano e poi farlo interpretare a Pupo.

3 le canzoni. Magari qualcuno decente c’era, ma la verità è che ha ragione chi dice che ormai sono solo un contorno. Soliti personaggi da talent, facce note e prive di idee. Anche se chi vorrebbe maggiore spazio per la musica dovrebbe ricordare che il festival della canzone italiana è finito negli anni ottanta, quando durava solo tre giorni, si cantava in playback e Tiziana Rivale vinceva con un plagio di Joe Cocker. Questo è il festival della nazione italiana, quello rinvigorito appunto dai grandi personaggi, che siano Benigni o Celentano conta poco, quello che Fazio, la Ventura, Bonolis e via discorrendo hanno trasformato nell’ultimo varietà della televisione italiana. La musica oggi è altrove, e non ha bisogno di festival.

2 I soliti idioti. Non è stato un gran festival per la comicità, con il turpiloquio di Luca e Paolo che riempiva un vuoto di idee e questa insistente mania dei comici di fare sempre il pistolotto serio (c’è cascato persino Alessandro Siani, l’unico che mi ha strappato una risata con la battuta dei francesi con la puzza sotto il naso perché non hanno il bidé). Ma i solidi idioti non solo sono volgari, non solo sono qualunquisti, non solo solo aggressivi, non solo vanno avanti a tormentoni… il loro dramma è che non fanno ridere. Nemmeno un po’. E questa è una colpa che a un comico non si può perdonare

Canzoni stonate

© (c) & TM 2004 Cartoon Network

Per ragioni familiari sono diventato un esperto commentatore di cartoni animati, e prima o poi potrei realizzare il dizionario “Caputo” dei programmi per piccoli.

Ultimamente ho scoperto il mondo di Cartoon Network (in chiaro visibile anche su Boing, K2 e Frisbee) caratterizzato da tratti fortemente bidimensionali, colori vivaci, umorismo che talvolta strizza l’occhio agli adulti senza scadere nellavolgarità. E’ soprattutto un fustaccio biondo (Johnny Bravo, che però con curioso atteggiamento burocratico mia figlia chiama Bravo Johnny) ad essere diventato protagonista delle mie giornate televisive. In fondo questo genere di cartoni surreali e poco realistici fa la sua più che onesta figura se confrontato con gli effetti 3d e i miliardi di investimento del cinema rivolto ai più piccoli, con un piccolo ma. Un piccolo ma rivolto alle agenzie che curano la versione italiana di questi programmi: non parlerò qui della traduzione (caso scandaloso è “Il mondo di Bo”, di cui però parlerò in un altro post perché non c’entra con Cartoon Network), ma è troppo chiedere un doppiatore intonato?

Le canzoncine che spesso riempiono questi cartoni sono infatti infarcite di stecche clamorose che non si ascoltano. Sarà che il mainstream Disney-Dreamworks ci ha abituati a cantanti professionisti, ma questi tromboni stonati proprio non si sopportano…