Archivi categoria: Tivvù

Sanremo 2024: le pagelle ai testi

Anche quest’anno mi accingo alla mia analisi critica di Sanremo, che però trascura completamente le melodie, gli arrangiamenti e l’esecuzione, per i quali non ho alcuna competenza che mi consenta di esprimere un giudizio che valga la pena condividere. Mi concentro sull’uso delle parole, alle quali, dopo tanti anni di scrittura, ho cominciato ad affezionarmi.

“Fino a qui”. Alessandra Amoroso

Ci si sono messi in dieci per scrivere la storia tragica di un suicidio, con un testo non particolarmente originale ed evidentemente al servizio della melodia.

È vero che la vicenda è ambientata in piena notte, ma un freddo cane a Roma può sentirlo solo una salentina. Come se non bastasse poi arriva anche il vento e il temporale. Mettiamo che sia tutta una metafora, però buttarsi giù da un grattacielo sarebbe stato più credibile da Milano.  Per scrivere questa canzone senza infamia e senza lode ne bastavano un paio di autori.

Voto 6

“Vai”. Alfa

Canzoncina innocua piena di buoni propositi e voglia di vivere, peccato per quell’espressione usurata, “il cielo sarà il limite”, traduzione italiana di una frase idiomatica anglosassone molto usata sia nella musica che nella pubblicità. A un certo punto si cita addirittura Icaro, considerando il livello medio questo ragazzo è praticamente un intellettuale. Speriamo in futuro legga qualcosa di più rispetto ai Baci Perugina e alle citazioni sul muro alla fermata del tram.

Voto 6

“La noia”. Angelina Mango

Una canzone dedicata alla noia che finisce per adagiarsi su questo sentire, visto che i concetti chiave sono ripetuti più volte. Carino l’uso di termini stranieri con tono sarcastico quali business e princess, per non parlare della cumbia della noia del ritornello. Oltre tutto la frase  “Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa” è molto efficace, peccato solo per quelle notti bruciate che puzzano tanto di frase fatta.

Voto 6,5

“Sinceramente” – Annalisa

Innamorarsi e soffrire per uno che spegne sigarette sul velluto blu è francamente un po’ troppo, persino per una canzoncina orecchiabile scritta per le radio commerciali. Per fortuna la tizia della storia non si sogna di tagliarsi le vene per questo campione però piange, caspita se piange. La storia finisce con “sinceramente tua”. Per lo meno noi speriamo finisca perché soffrire per uno così pesante, ragazze mie, non è proprio il caso.

Voto 6,5

“La rabbia non ti basta” – BigMama

Canzone impegnata ma non troppo, nel senso che si parla di bullismo: “È facile distruggere i più fragili, colpire e poi affondare chi è solo, copri le lacrime segreti da tenere, non farti scoprire, lo sai che a casa non devono sapere, cosa dovrai dire”, però l’impressione è che le manchi il coraggio di fare un passo avanti, di denunciare, di non nascondersi dietro una prosa priva di intuizioni e immagini efficaci. Insomma, ottime intenzioni, esiti così così. La rabbia non ti basta, infatti servirebbe anche un po’ di inventiva.

Voto 5

Governo punk” – Bnkr44

“Scrivo dentro un garage, la mia testa è un collage” è una frase che grida vendetta, una rima che da sola meriterebbe un tre in pagella. Dicono di ascoltare i Queen e i Blur, ci provano anche a essere spiritosi “in provincia la nebbia è la stessa dal 2003”, ma poi scivolano di nuovo in un paio di passaggi da dimenticare in fretta, come quel lavarsi i denti con il gin o quell’anno che verrà me ne vado un anno al mare. Anche citare richiede rispetto, quando si scrive maluccio. Riprovateci, e magari andatevelo a studiare davvero, il punk.

Voto 4,5

“Diamanti grezzi” – Clara

Purtroppo anche questo testo fa tombola quando si tratta di individuare i luoghi comuni del pop italiano: c’è il correre a fari spenti, ci sono le ali spezzate dalle ferite, c’è persino la frase a effetto che cercheremo di dimenticare in fretta (“L’amore è una sala slot”: nel senso che è pieno di anziani ludopatici? Chissà, meglio l’amicizia allora).

Il ritornello torna spesso su un concetto: siamo diamanti grezzi, cadono in mille pezzi. Figlia mia, se cadono in mille pezzi non erano diamanti, ma volgari imitazioni. Un po’ come questa canzone acerba.

Voto 5

“Onda alta” – Dargen D’Amico

“Sta arrivando, sta arrivando l’onda alta, stiamo fermi non si parla non si salta”. Il bello della musica leggera è che, quando è scritta bene, disvela un universo in poche strofe. E questa canzone è scritta dannatamente bene. Non tanto per i contenuti, perché affrontare una tematica sociale come l’immigrazione e i morti in mare non è una scelta vincente, se poi non sai portarla a compimento. Invece il brano è un susseguirsi di lampi che illuminano il dramma: siamo più dei salvagenti sulla barca. Cos’altro c’è da aggiungere? Peccato solo che il testo scivoli un po’ nel moralismo quando lascia la burrasca in mare e si sposta nelle nostre città “Come faccio a volere una vita in incognito. Se parlo solo di me? Se basta un titolo a fare odiare un intero popolo?” anche perché non è che si diventa razzisti per un titolo, basta molto meno. “Tutta questa strada per riempire un frigo” è la frase più triste dell’intera manifestazione, altro che ragazzotti che blaterano per un amore finito.

Voto 9

“Ti muovi” – Diodato

Diodato è un artista d’altri tempi, un cantautore che non cerca di stupire con effetti speciali, non azzarda rime o metafore fuori contesto. Il risultato finale però sa di compitino senza troppa passione sull’ennesima storia d’amore finita male. Si può fare di meglio, su, se esiste una parte che crede ancora sia possibile tanto vale farla emergere, no?

Voto 6 +

“Apnea” – Emma

“Se avessi un telecomando non ti cambierei mai”.  L’essenza del pop è tutta qui, sentimenti condivisi, immagini efficaci. La storia è sempre la stessa, la relazione è in bilico per colpa di lei, lui però ha occhi che uccidono e le toglie il rispiro (ah, il bello e impossibile torna sempre). Si incontrano per i corridoi, lei gli chiede se si ferma tutto il week-end e se vuole fare tutto con lei. Insomma, non un inno all’indipendenza femminile e all’autodeterminazione, ma si sa, quando lui ha occhi che uccidono…

Voto 5,5

“Mariposa” – Fiorella Mannoia

Casualmente passiamo dalla donna infoiata che brama di donarsi carnalmente a un tizio fighissimo di Emma, a un’autentica poesia che ci riappacifica con l’universo femminile. La canzone si ispira alla vicenda delle sorelle Mirabal assassinate dal regime di Trujillo della Repubblica Dominicana il 25 novembre 1960. Tecnicamente perfetta, certo la struttura aiuta, ma questa è una canzone che spero verrò ricordata fra trent’anni quando si parlerà di questo festival. “Sono la strega in cima al coro, una farfalla che imbraccia il fucile”. Imparate, ragazzotti che pensano che basti parlare di periferie e bullismo per essere impegnati!

Voto 10

“Il cielo non ci vuole” – Fred De Palma –

Sparami adesso sparami ora, ma tu promettimi che staremo bene anche all’inferno, il cielo non ci vuole, pieni di rimpianti fino all’overdose”.

Sono contro la violenza e non voglio mandare nessuno all’inferno, ma certo se queste canzoni sparissero non avrei alcun rimpianto, visto che l’unica overdose è quella di luoghi comuni e frasi trite.

Voto 4

“Tutto qui” – Gazzelle

Si può vivere bene senza l’ennesima storia d’amore che finisce a Roma Nord? Certo che sì, ma ormai la canzone è stata scritta, tanto vale dargli un’occhiata. Autocommiserazione, rimpianto, filosofeggiare un tanto al chilo (e questa vita non impara mai), ennesimo testo che probabilmente ChatGPT avrebbe scritto meglio, che però si salva in calcio d’angolo grazie a una chiusa efficace: “Vorrei guardare il soffitto con te, stesi sul letto col raffreddore, chiudere gli occhi e vedere com’è”.

Se non altro sappiamo che all’origine di tanta sofferenza c’è un raffreddore, che a Roma Nord, si sa, sono terribili.

Voto 5,5

“I p’ me, tu p’ te” – Geolier

Si può essere banali e sciatti anche usando il dialetto (l’incipit è da horror: siamo due stelle che stanno precipitando…) e Geolier lo dimostra. Non è che tutti possono nascere Pino Daniele, per carità, ma la cultura napoletana merita di più un cielo che piange perché i due pischelli si sono lasciati.

Voto 4

“Casa mia” – Ghali

Quando una canzone diventa un inno durante le manifestazioni senza essere dichiaratamente politica, vuol dire che coglie bene il sentimento contemporaneo. Ghali prosegue nel suo autobiografismo di fuorisede un po’ integrato un po’ no (è più facile però essere immigrati quando si ha il fisico di Ghali, o quello di Mamhood) ma lo fa con pudore, senza eccessi retorici. Il verso “Dal cielo è uguale, lo giuro” è piaciuto anche a monsignor Ravasi, per cui il voto non può che essere abbondantemente positivo, anche perché era ora che qualcuno dicesse che siamo tutti zombie con il telefono in mano,

Voto 8

“Fragili”, Il Tre

Siamo fragili come la neve, tu sei libera come un’isola, e ancora sei la sete nel mio deserto, sei come le fiamme bruciano nell’inferno, lui si sente come un naufrago in mare aperto. Allora, le metafore possono funzionare, i paragoni anche, ma possono insaporire un testo, non essere la portata principale. Nessuno al ristorante ordina un piatto di cannella e fiori di garofano. Sarebbe indigesto, come questa brutta canzone.

Voto 5

“Capolavoro” – Il Volo

Signori, ci siamo. Anche quest’anno rimaniamo senza fiato di fronte all’apoteosi della stramberia, al trionfo dell’immagine agghiacciante, talmente brutta da mettere paura, a quel verso che si fa spazio come un rutto dalla profondità delle viscere: cadi dal cielo come un capolavoro. Ora, dal cielo cadono sovente le defecazioni degli uccelli, maledetti. Talvolta, se si è sfortunati, un vaso, o un pezzo di intonaco. Se va ancora peggio cadono gli aerei, ma quelle sono tragedie. Chi ha mai visto cadere dal cielo un capolavoro? Un dipinto agreste ottocentesco, magari? Un componimento scultoreo che richiamava il Canova? Al limite potrebbe cadere un libro, magari dalla finestra di un bibliotecario distratto, ma chi potrebbe mai paragonare la caduta di un tomo con l’apparizione dell’amata? Il resto del componimento è scialbo e si dimentica in fretta, c’è la prevedibile vela in mare aperto, c’è l’innamorato che va al cinema per sognare l’America o casa della ragazza (e dove mai abita, a Versailles?), ma sono piccoli sprazzi di luce di fronte al bagliore del capolavoro che si schianta al suolo. Straordinario.

Voto 1

“Tu no” – Irama

Di questo testo si ricorderà soprattutto la consapevolezza dei propri limiti: “Bastasse solo una stupida canzone per riuscire a riportarti da me…”. Evidentemente non basta, eppure risponde ai requisiti, pare. Lo stoico interprete non lascerà che la sua donna – che l’ha mollato, come mai? – lo lasci vedere crollare. Cade, ma in fondo dice di meritarselo. Come dargli torto?

Voto 4

“Autodistruttivo” – La Sad

“Nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle” è il massimo che riesce a produrre questa canzone, di nuovo impegno sociale all’acqua di rose, di nuovo esiti che in confronto certi romanzi Harmony erano Leopardi: “E vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino. Affogo in una lacrima perché il mio destino è autodistruttivo”. Il soggetto in questione, il solito maledetto che si ubriaca nel bar trafitto dal dolore, sostiene di aver imparato come si sopravvive là fuori molto più dagli errori che dai suoi professori. Considerando la povertà lessicale e le immagini da diario di terza media, noi suggeriremmo un ripensamento e un ritorno dai professori, che da imparare c’è ancora tanto.

Voto 5

“Pazza” – Loredana Berté

“Sono sempre la ragazza che per poco già s’incazza”. Già l’apertura fa capire che qui siamo di fronte a un testo scritto da chi sa scrivere. Il ritornello è uno dei migliori, nella sua semplicità arriva dritto al punto senza inutili orpelli: “Non ho bisogno di chi mi perdona io, faccio da sola, da sola, e sono pazza di me. Sì perché mi sono odiata abbastanza”. A volte basta un verso per scrivere un’autobiografia: “Prima ti dicono basta sei pazza e poi, poi ti fanno santa”. Conciso e nitido. Peccato solo per quel cuore spremuto come un dentifricio, una immagine che ci saremmo risparmiati e che fa perdere qualche punto a uno dei migliori testi di quest’anno.

Voto 7,5

Tuta gold” – Mahmood

“Mi hanno fatto bene le offese, quando fuori dalle medie le ho prese e ho pianto, dicevi ritornatene al tuo paese, lo sai che non porto rancore”. Essere menati da ragazzini apre le porte di Sanremo, questo ormai è evidente. Accenni al bullismo a parte, il testo ricorre un po’ troppo a termini inglesi gergali di cui oggettivamente non si sente l’esigenza, però l’immagine maranza di cinque cellulari in una tuta dorata, da sola, mette a tacere una decina di canzoncine insulse.

Voto 6,5

“Spettacolare” – Maninni

Ecco un testo scritto con molto mestiere, che in perfetta tradizione sanremese non dice niente, ma lo dice bene, “C’è chi cerca soltanto diamanti, o la formula giusta per la felicità, ma siamo spesso tutti troppo distratti, o troppo convinti per riconoscerla”. Concetto banalotto ma espresso con termini adeguati e senza il ricorso a figure di significato logore. Meno bene quel “Tutto il mondo è una gabbia di specchi, una partita a scacchi con la verità” che osa un lirismo di cui non si sentiva il bisogno. Non so se qualche adolescente ricopierà questo testo del diario di scuola come facevo io con quelli di De Gregori, ma se lo fa ha la mia approvazione. Confrontato con il deserto intorno, avercene di oasi di italiano corretto come questo.

Voto 7

“Due altalene” – Mr.Rain

Il titolo è probabilmente il migliore di questa edizione. Dietro l’immagine di due altalene c’è già una storia. Peccato che però poi gli autori, anziché rimanere su un piano evocativo, si prodighino nel tentativo di spiegare questa immagine “Sospesi in aria come due altalene, quante volte ci siamo trovati sul fondo”.  Detto questo, la canzone è una spettacolare sequenza di quadri bruttarelli, con un uso della lingua anonimo e il solito ricorso al dolore in prima persona che dovrebbe rendere più simpatico il protagonista. Puoi urlare quanto vuoi, ma “Griderò, griderò il tuo nome fino a perdere la voce” non si può sentire, altroché. “In mezzo al temporale abbiamo unito i nostri lividi come due oceani indivisibili”. Ma perché? A chi può venire in mente di ospitare nella stessa frase lividi e oceani? La geografia torna anche nella frase “Anche un’alba diventa un tramonto a seconda di dove ti trovi nel mondo” ma almeno c’è la correttezza scientifica. Insomma, con una bella ripulita avrebbe potuto essere un bel testo, così è un guazzabuglio talmente saporito da risultare poco digeribile.

Voto 5

“Ricominciamo tutto” – Negramaro

“E chi se ne fotte di tutti quei sogni, di una canzone o uno stupido testo?! Io, qui, ti aspetto!”. Ecco, un passaggio così da solo merita un bel voto, perché tra citazioni più o meno esplicite di Battisti e uso semplice ma efficace del lessico colloquiale “Quanto tempo ti manca per esser pronta? Io sono sotto che ti aspetto, così ti porto al mare” questo lavoro dà l’impressione di non prendersi troppo sul serio. Sono solo canzonette, cantava Bennato, i Negramaro lo sanno, e sanno scriverne di buone. Una serenata di chi si gode l’attesa dell’incontro senza frignare come certi cantantucoli piagnoni già citati. Bravi, ma cio sono ottimi sinonimi per “fottere” e “chi se ne frega”.

Voto 7

“Pazzo di te” – Renga Nek 

Renga ha cantato canzoni meravigliose, però gliele scriveva Omar Pedrini. Quando si è messo in testa di fare il cantautore ha prodotto qualcosa di grazioso o poco più, ma non è questo il caso. Magari c’entra anche Nek, ma “L’amore è nobile, è  fatto di un metallo indistruttibile ma è così fragile” è troppo anche per questa coppia in evidente crisi di andropausa. “Amarsi è semplice, ma ingovernabile, indispensabile”: una canzone scritta con un rimario, come tanti se ne trovano in rete: parole che finiscono con “ile”. Eccole, scrivi. Non manca neanche il mantello di cielo, evviva. Però qualche punto il duo lo recupera con la frase  “L’amore è un giudice, è un miserabile, lo trovi in tasca ma non lo puoi spendere” . L’amore come una moneta fuoricorso è un tratto discutibile ma almeno originale che salva questa canzone dall’oblio.

Voto 5,5

“Ma non tutta la vita” – Ricchi e Poveri

“Anche la più bella rosa diventa appassita. Va bene, ti aspetto, ma non tutta la vita”. Cosa gli dici a due che ti mettono in piazza una rima così nel ritornello, peraltro molto orecchiabile? Che ci sarebbe molto da imparare da questi autori che disegnano il dialogo tra due amanti: si conoscono bene, giocano, scherzano, si provocano a vicenda, ogni tanto filosofeggiano “Lo sanno tutti che, il tempo vola via neanche te ne accorgi, che giorno siamo oggi” ma senza esagerare. Indipendentemente dall’età anagrafica dei cantanti e dalla demenza senile incipiente, si capisce che è un pezzo pensato per una coppia diversamente giovane che non sopporta la confusione del sabato, si perde di vista (non metaforicamente), poi decide di ballare perché di tempo non ne è rimasto tanto: ti giri un momento e la notte è finita.

Voto 7

“Finiscimi” – Sangiovanni

Non sono un perbenista che si scandalizza facilmente, ma le parolacce in una canzone, proprio per la loro portata, devono avere un senso preciso. Qui non ce l’hanno e diventano insipido turpiloquio. Brutta canzone che fa a pugni anche con la costruzione della frase “Ti ho scritto mille lettere e non dirti neanche una parola” è da matita blu. La storia di un uomo bugiardo  che tratta male una donna e poi scrive per chiedere scusa già è irritante di per sé, se poi è infarcita di giustificazioni “Io non so come si controllano le emozioni” “A mia discolpa dico che ero perso” allora diventa proprio fastidiosa. Speriamo di sentirla poco.

Voto 3

“L’amore in bocca” – Santi Francesi

Altro che santi, il titolo sembra tratto dall’opera di Rocco Siffredi, e torna nella solita canzone di un amore finito e autodistruttivo (ma cos’è, un festival a tema)? “Ti rivedrò in un quadro, in un ricordo vago, in un porto sicuro, in un mare stanco” potrebbe anche funzionare, ma perché seguire un filo di lana? Si è forse scucito il maglione? Non è strano, è scemo. Anche perché sta piovendo e i protagonisti scivolano sopra i tetti prima di cadere a pezzi.  Se fossero caduti prima di scrivere questa canzone forse sarebbe stato meglio,

Voto 5

“Un ragazzo una ragazza” – The Kolors

“E lo sai, l’amore non si può cantare in una strofa da otto”. Come con i Negramaro e Irama, anche in questo caso si fa apprezzare la consapevolezza dei propri limiti. Che ci sono eccome, perché “Vorrei parlarti ma ho paura di ghiacciare” è una frase che lascia interdetti, magari però i giovani d’oggi parlano così, chissà, spero però che non dicano “E comprerei per te la luna se c’avessi money”. Tutto sommato il racconto, nella sua ovvietà, funziona: un ragazzo incontra una ragazza. È tutto lì. Peccato però per quel verso di oscena bruttezza: la notte poi non passa, la notte se ne va. O passa o pure no, decidetevi. A meno che non aveste dato appuntamento alla notte (Ci vediamo alle due al parcheggio del supermarket?), solo che poi la notte tira il bidone, non passa e se ne va. Ecco, così avrebbe senso. Forza ragazzi, che vi costa riscrivere un verso meglio, per evitare uno scivolone così pacchiano?

Voto 5

Sanremo 2024, la cronaca

Torno trafelato dalla palestra e scopro Ibrahimovic vestito da pan di stelle che fa mostra delle sue gag imperdibili.
Vabbè posso andare tranquillo in doccia

6 febbraio

Vestirsi da punk per proporre una canzone che in confronto “Gelato al cioccolato” era rock’n’roll.
La sad sono veramente sad

Alla fine anche Mengoni ha ceduto alla tentazione di comprarsi una maglia su Temu

Irama porta in scena il dramma che prima o poi abbiamo vissuto tutti nello spogliatoio, quello di scoprire che non hai l’adattatore del phon giusto.

“Da domani ascolterete queste canzoni su tutte le radio”.
Amadeus ricorda il motivo per cui da tempo ascolto solo podcast.

Fino all’ultimo non sapevo se mettere in squadra i Negramaro o i Ricchi e poveri, dopo aver sentito i Men in black du Salentu, sono contento di aver scelto Angela.

Pensare che Sanremo finisce alle due per dare spazio all’esilarante numero di Mengoni dovrebbe far riflettere sulle priorità di questo paese.

2020: “Fai rumore”.
2024: “Ti muovi”.
La trilogia di Diodato si chiuderà nel 2028 con: “Hai rotto le balle, vado a dormire sul divano”

– Ragazzi stasera non ce la faccio a cantare a Sanremo, c’ho judo!
– Dai non preoccuparti, appena finisci sali sul palco col kimono, che vuoi che sia?
(dopo l’esibizione de Il volo)

Alfa c’ha l’acconciatura adatta alla prima comunione con un ciuffo appena accennato, Dargen D’amico e Mahmood hanno quel taglio comodo che poi te li ritocchi da solo senza nemmeno bisogno del parrucchiere, Diodato, Gazzelle e Fred De Palma un caschetto che in confronto San Francesco era un punk.
Irama, il Tre e Mr Rain non si asciugano i capelli per non rovinarli con il phon, Sangiovanni tiene a distanza pure il pettine.
Ragazzi, sarete pure una generazione sostenibile, educata e preoccupata per il futuro, ma non è con il balsamo che combatterete l’allopecia. Bonjovi e Steven Tyler hanno colorato, cotonato, tirato e violentato i loro capelli con strumenti di tortura medievale, e sono ancora lì con la loro zazzera. Godeteveli e osate, finché ci sono, come fanno i La Sad, che quando non avranno più capelli saranno pronti per il reddito di inclusione.
Il più avanti di tutti è Giuliano Spoiler Sangiorgi che anticipa a tutti voi come andrà a finire, prima o poi.

8 febbraio

Prima o poi è capitato a tutti di vedere il papà che dopo aver resistito al gioco aperitivo e aver abilmente evitato il torneo di burraco, viene trascinato in pista durante la baby dance dall’animatore simpaticone e giura mai più, mai più villaggio turistico

“Il tre” non è un nome, è un voto.

Uno lavora (il tastierista), cinque ciondolano senza alcun costrutto.
Altro che governo bunk, iI Bnkr44 hanno tutto per diventare impiegati ministeriali.

Bella è bella, ma questa pelle effetto crescentina di Rose Villain non la capisco.

Dopo John Travolta che balla il ballo del qua qua mi aspetto Russel Crowe che fa scoppiare il palloncino sulla sedia col sedere, mentre Fiorello prende le iscrizioni per l’escursione di domani.

Il balsamo, questo sconosciuto. Sanremo 2024, unti e bisunti

9 febbraio

Renga e Nek mi ricordano quegli amici che si smezzano l’abbonamento di Netflix per risparmiare.
Secondo me dormono pure in doppia, mezza pensione che tanto a pranzo un panino ci basta.

Eurythmics, Gianna Nannini, Venditti.
Illudetevi pure, ma ricordate che domani dovrete tornare a sentire le canzoni del Volo, La Sad e il Tre

Fiorello è cringe.

L’acconciatura spaghettosa si conferma anche stasera. Più che Irama, Iramen.

Finalmente un messaggio ecologico; I santi francesi sul palco riciclando come camicia la tenda smessa del soggiorno. Bravi.

Io quando sento “Sarà perché ti amo” devo cantarla.
È grave dottore?

Ivana Spagna non è più biodegradabile.

Valeva la pena arrivare alle 23 per rivedere Beppe Vessicchio

Se fanno anche il bambolotto di Fiorello e lo mandano a John Travolta sono sicuro che saprà farne buon uso.

Mannaggia Angelina Mango mi ha fatto commuovere, mannaggia.
Purtroppo siamo tutti rondini destinate a volare via.
Mi sa che è ora di andare a dormire.

10 febbraio

Si questa bacheca non si fanno battute su Big Mama.
Ho un impiego e desidero mantenerlo.

“Non vorrei dire niente di sbagliato” è una delle frasi più intelligenti di quest’anno.

Finalmente stasera guardando il loro look e la scioltezza dei movimenti ho capito che Renga e Nek sono uno la guardia del corpo dell’altro.

Sarà per il testo agghiacciante ma anche stasera il Volo più che un total black è un total bleah

Se giocando a calcio vi mettete in barriera e l’attaccante non riesce a evitarvi, poi per un po’ vi assicuro che cantate come Sangiorgi anche voi.

Tutti a criticare le scarpe di John Travolta e nessuno dice nulla di Mahmoud vestito dalla Good Year.

La cosa bella di questa edizione è che Tananai bisogna ascoltarlo una volta sola.

“I santi francesi” riportano sul palco il dramma del secondo inutile, da Mauro Repetto a DJ Jad.

Bolle ha la mia età, e le mie figlie non se ne fanno una ragione.

Per paura che qualcuno si presentasse in camicia nera visti i tempi, a Sanremo quest’anno hanno direttamente abolito le camicie.

Signori, vado a dormire, tanto a occhio e croce domattina mentre farò colazione non avranno ancora proclamato il vincitore

La periferia dell’impero

Non sono uno di quei telespettatori snob che guarda solo serie televisive americane ad altissimo budget. Anzi, a volte i soldi e i grandi interpreti non bastano a coprire sceneggiature incerte, come nel caso del mediocre Obi-Wan Kenobi dell’universo Star Wars (come ci si può appassionare a una storia se si sa già quello che accadrà dopo?) oppure come per Secret Invasion, dove uno dei personaggi più carismatici dell’Universo Marvel, Nick Fury, viene coinvolto in un thriller cupo in cui a un certo punto, però, senza spiegoni online non si capisce davvero più nulla, tanti sono i salti nella trama, non tutti logici.

Al contrario: mi piacciono le serie tivù italiane, ho amato molto il Commissario Montalbano, attendo con ansia le nuove puntate di Rocco Schiavone e Imma Tataranni, trovo simpatico il protagonista di Macari, per una volta un giornalista e non il solito poliziotto sciupafemmine. Poi però mi imbatto in serie tivù di un livello qualitativo così discutibile da domandarmi se, come per il mitico Tano Boccia che girava usando i set dei peplum americani durante le pause pranzo, non le realizzino con gli scarti di altre produzioni. Le ultime due che ho guardato riguardano le mie due città del cuore, Bologna e Taranto, e in entrambi i casi lo sforzo per arrivare all’ultima puntata è stato davvero poderoso. Ho dovuto davvero insistere, convincermi che avevo tutte le capacità e il talento per andare fino in fondo senza dormire.

Si tratta di “Vivere non è un gioco da ragazzi” e di “Sei donne – Il mistero di Leila”.

I problemi che ho riscontrato sono simili, per cui comincio a pensare che ci sia un difetto nella progettazione di questi prodotti. Ma vediamo di procedere con ordine. Gli attori sono di prima qualità: Stefano Fresi e Claudio Bisio per Bologna, Maya Sansa e Isabella Ferrari per Taranto. E qui signori miei mi si alza il sopracciglio: ma davvero non ci sono attori bolognesi o tarantini in grado di rendere un po’ più credibile l’ambientazione? Una città non è fatta solo di palazzi e scenari. È fatta di persone e linguaggi. Nella prima fiction se non altro Stefano Fresi ci prova a parlare con un accento emiliano, nel secondo caso l’unica pugliese è la vittima che appare sì e no in tre scene. Passi che un poliziotto possa essere siciliano come nel caso di Alessio Vassallo, passi anche che il magistrato protagonista interpretato da Maya Sansa abbia vissuto a lungo a Roma (c’è un vago tentativo di giustificazione in merito nella sceneggiatura), ma perché suo figlio nato e cresciuto a Taranto è un romano de’ Roma, come per altro suo marito? E quanti veronesi – come un altro personaggio chiave – sono immigrati a Taranto, mannaggia alla miseria? Insomma, da questo punto di vista ci sono grosse carenze soprattutto nello sceneggiato tarantino: il casting segue scelte che ovviamente non sono quelle della verosimiglianza, ma delle capacità degli agenti di piazzare i loro clienti, ‘anvedi aho’!

Un mio rimpianto professore del liceo, Silvio Immune, trent’anni fa ci diceva che a causa della televisione avremmo tutti detto “So’ tarantino de Taranto”. Quanto aveva ragione.

L’altro aspetto comune è che ci sono diversi esterni, e questo va bene, ma sempre negli stessi duecento metri di città. Bologna è una città che offre una infinità di angoli cinematograficamente interessanti, nello sceneggiato tutto avviene sotto un portico del quartiere Barca, davanti a una villa sui colli e in via Zamboni. Per non parlare del mio amato Appennino: Monte Acuto Ragazza, borgo del Comune di Grizzana Morandi in cui sono ambientate alcune scene, meriterebbe una fotografia ricca e attenta. Invece vediamo a mala pena un albero, che avrebbe potuto tranquillamente essere un albero di qualunque colle di qualunque zona del mondo. Un albero.

Così come a Taranto tutto avviene sul lungomare, davanti alla Prefettura e in uno scorcio della città vecchia. Nessuno ha mai fatto jogging su quel lungomare, nessuno. Il marciapiedi è stretto, la strada molto trafficata, se scivoli e ti mettono sotto recuperano il tuo cadavere a San Vito.  Direte: va bene, ma di questo te ne accorgi tu perché conosci della città. Anche Montalbano usciva di casa a Puntasecca, girava l’angolo per andare a prendere l’auto parcheggiata a Donna Lucata a 18 km e e si ritrovava alla fermata della corriera a Ragusa, che è a 30 km. Ma quella era una città, Marinella, immaginaria. Taranto c’è. Dirò di più: non tutti a Taranto hanno la casa e l’ufficio con vista sul mare. Pensa un po’ tu.

La risposta in questi casi credo sia semplice: bisogna ottimizzare i costi e ridurre il numero di set è un buon modo per farlo. Capisco. Ma un po’ di fantasia a sopperire i mezzi limitati non guasterebbe, dai. Muovetela quella macchina da presa, ogni tanto, osate con le luci, ho visto fotografare per le carte di identità con maggiore brio.

E veniamo al più grave dei difetti che caratterizza entrambi questi prodotti: l’enorme, insostenibile, massiccia noia che li caratterizza. La storia in entrambi i casi c’è: Fabio Bonifacci è un signor scrittore e uno dei migliori sceneggiatori che abbiamo in Italia, ma sembra che la regia si sia divertita ad allungare, slabbrare, diluire la vicenda bolognese che avrebbe potuto essere trascritta in un film di due ore e invece ne dura sei. Stessa sorte per il povero lavoro di Ivan Cotroneo che ha una idea che potrebbe appassionare, quella di raccontare le vicende di 6 donne che si intrecciano, ma è più annacquato di una Coca-Cola alla spina del McDonald’s. Primi piani, primi piani, primi piani. Sospiri. Primi piani. Maya Sansa che riesce a mantenere la stessa espressione per sei ore di girato, anche se qualche volte stringe gli occhi per far vedere quanto è cattiva o batte le palpebre lentamente quando il regista grida “più pensosa”. Il giovane protagonista della serie bolognese, poi, ha due espressioni come Clint Eastwood di Sergio Leone, con il cappello e senza. Solo che non ha nemmeno il cappello.

Abbiate pietà dello spettatore. Fateli muovere ogni tanto, questi attori. Sono film, anche se scritti per la televisione, non fotoromanzi con l’aggiunta dell’audio. Non voglio una sparatoria alla Quentin Tarantino, non voglio effetti speciali che non possiamo permetterci. Vorrei solo un po’ di mestiere, mica grandi spese, solo del ritmo per dare un po’ di pepe alla storia (quanto ci manca un Umberto Lenzi, oggi).

Bologna e Taranto meritano di meglio. Non siamo periferia dell’impero, non più.

Sanremo 2023: le mie pagelle

Anche Sanremo 2023 è andato via. Il mio parere sulla musica posso condividerlo al bar con gli amici, ma credo non abbia alcun valore intrinseco, è una opinione come un’altra. Non parliamo poi ci commentare l’interpretazione o peggio ancora il look dei cantanti (ma chi? Io?).
Qualcosa di sensato però penso di poterlo dire sui testi, visto che con le parole bene o male ci lavoro da più di vent’anni. Nessuna canzone mi ha fatto gridare al miracolo ma qua e là qualche perla c’è, a volerla cercare.

Sali, canto dell’anima. Anna Oxa

Canzone con echi millenaristici, qualche paragone facile “Libera l’anima come rondini la sera”, un’invocazione che non si capisce dove andrà a parare. Anche le storie new age avrebbero bisogno di una trama per stare in piedi. 5

Mare di guai. Ariete

L’amore lesbico si chiama così grazie a una straordinaria poetessa e all’isola in cui nacque. Qui però poesia ce n’è poca, “la notte è solo un giorno che riposa”, siamo più dalle parti della posta del cuore di Cioè. “Non voglio più perderti nel chiaro di luna”, figuriamo nelle notti di luna nuova. 5+.

Un bel viaggio. Articolo 31

Anche morire giovani non puoi più perché, adesso c’hai la family e dipende da te” è uno devi versi più efficaci di tutto il festival. L’autobiografismo a cinquant’anni è un po’ prematuro, e anche questo brano arranca, ma lo stile per il calembour un po’ triviale c’è sempre (“siamo stati due coglioni infatti funzioniamo in coppia”). Quanto avrebbero da imparare i giovani sedicenti rapper!  7.

Splash. Colapesce Dimartino

Finalmente un testo che non ha paura delle parole: il vento che arpeggia una ringhiera, io lavoro per non stare con te, “Ma che mare ma che mare, come stronzi galleggiare, per non sentire il peso delle aspettative”. Efficace, variopinto, divertente. Anche il titolo funziona. 8

Non mi va. Colla zio

I rapper dovrebbero essere agevolati nell’uso della lingua, libera da solfeggi e ritmiche che ingabbiano, ma se il massimo che riesci a produrre è che “non ho fame finché sei sfinita, minchia, ma che sesso mi fai, ma che sesso mi fai” allora bisogna proprio che tu legga di più, anche perché del mare si può dire tutto, ma che indirizzi alla savana proprio no. 4

L’addio. Coma_Cose

Curiosamente tornano in questa canzone le ringhiere, la delusione delle aspettative, il raccontarsi. La qualità c’è, è un po’ altalenante, “in viaggio su respiri più leggeri, chissà se piloti o passeggeri” funziona, altri passaggi convincono di meno “ce ne andremo via come uno stormo che con l’autunno poi farà ritorno”, però la chiusa è la migliore. Una frase è perfetta se sta bene stampata su una maglietta, e io uno t-shirt con scritto “L’addio non è una possibilità” la comprerei. 8

Due. Elodie

“Che rumore fa Il silenzio alla fine di tutte le nostre telefonate interrotte”? Compitino professionale, pulito, con una chiusura azzeccata “Per me le cose sono due, lacrime mie o lacrime tue”, c’è un po’ di svogliatezza, se scrivi che un amore appena nato è già finito male ma che rifaresti gli stessi errori è ovvio che il tuo pubblico di riferimento non va oltre la terza pagina di un romanzo, ed è un peccato. 6+

Quando ti manca il fiato. Gianluca Grignani

Premetto: la melodia non mi convince e il modo di cantare non mi piace affatto. Ma questo è il miglior testo di Sanremo 2023. L’unico che racconta bene una storia, seppure negli spazi esigui di qualche verso. Siamo ancora sui terreni scivolosi dell’autobiografia (questo Sanremo passerà alla storia come quello delle canzoni selfie”). “Ma no che non sto male, ma quando accadrà, tu verrai o no al mio funerale”? In questo passaggio c’è un romanzo compiuto con attori, sentimenti, vicende. Peccato solo per quei coltelli che cadono dal cielo e fanno sanguinare anche l’uomo più duro, un brutto scivolone stilistico senza la quale la canzone sarebbe stata da 10 e invece 9.

Mostro. Gianmaria,

No tu non sembri un mostro ma il tuo testo è mostruosamente piatto, senza uno spunto, senza un’invenzione, senza uno scatto originale. “Ti ho lasciato sopra il letto un mio libro, così sai che tornerò”. Se l’avessi prima letto, quel libro, oggi forse conosceresti due o tre aggettivi in più. 4

Giorgia

Buona la chiusura, “Ricordo le ultime parole, quelle dette male, maledette”, ma è l’unico passaggio che si ricordi. Per il resto è una lunga lista di immagini già viste: la mia pelle è un foglio bianco e ci scrivo su, il cielo che crolla e io non ragiono più. Tutto corretto, tutto dimenticabile in fretta. 6

I Cugini di Campagna. Lettera 22

C’è la terribile rima fiore-amore, c’è in assoluto il peggior ritornello di Sanremo, non lasciarmi solo, non lasciarmi qui. Caspita, chi l’ha scritta, Baudelaire? Ma in fondo le figure utilizzate nella strofa non sono malvagie, c’è mestiere e poche pretese. “Credo, credo anch’io, che non puoi darmi il mondo, se non guardi il mondo come lo guardo anch’io” è il massimo che si può chiedere loro, ma d’altronde non ci aspettavamo De Andrè. 5,5

Lazza. Cenere

“Pezzi di vetro”, “Nel buio balli da sola”,” Vorrei che andassi via, lontana da me, ma sei la terapia “. Tra citazioni consapevoli o meno, anche in questo caso da un rapper ci si aspettava qualcosa di più di un’agghiacciante “sei bella come Venere”. A tratti sembra uno di quei testi generati al computer copiando qua e là. “Ormai nemmeno facciamo l’amore, direi piuttosto che facciamo l’odio” è una frase da premiare se non altro per l’uso del condizionale. Poco altro. 5,5

LDA. Se poi domani

“E mi manca disegnare con lei sulla spiaggia due iniziali in un cuore di sabbia”: basterebbe questa frase devastante a meritare un 3 incondizionato. In realtà il testo in questione cerca addirittura qualche vezzo poetico, come quel grazioso “tu che disegni i silenzi a matita” e tutti quei riferimenti all’insonnia che fanno poeta maledetto. Però se ti presenti a una ragazza con un “Ti prego ascoltami” “Oh oh dammi le mani” lei sarà una bugia ma tu sei una lagna. 4

Leo Gassman. Terzo cuore

L’idea del terzo cuore funziona. Eravamo abituati a becere terze gambe, invece l’immagine su cui è costruita la canzone è una delle più interessanti. Non si capisce bene cosa c’entrino le strade di Parigi, il trasformare le sfide in sfighe fa un po’ alzare il sopracciglio del critico, ma insomma, rispetto al livello medio, qui la sufficienza è raggiunta a piene mani. Certo, se non ci riducesse sempre a zerbini dell’amante che ci respinge sarebbe meglio: “Non mi importa di avere ragione se poi resto sempre da solo, meglio avere torto con te”… 6,5

Vivo. Levante.

Ritornello indovinato, si sposa con la melodia senza essere piatto, un paio di passaggi memorabili “Bacio rime, bacio bene, ti bacio dopo”, ma anche “Addio a tutti i “dovrei”, a tutti i “se poi”, a tutti i miei “perché?”: semplice ed efficace. Manca forse il guizzo che rende una canzone memorabile, e lei ne sarebbe capace. 6,5

Il bene nel male. Madame

Ecco un’altra canzone che ha il coraggio di raccontare una storia – il rapporto tra cliente e prostituta che si ritrovano sentimentalmente coinvolti –  che vada oltre il “ti prego torna con me”. Alcuni passaggi raggiungono elevati livelli di drammaticità “Amore, tu sei, sei l’errore più cattivo che ho commesso nella vita” non è una frase da Bacio Perugina. Ogni tanto si fa un po’ troppo saccente “L’amore è solamente di chi prova amore, non è di chi lo riceve” , ma resta un testo che si distingue per profondità. Bravi. 7

Duemila minuti. Mara Sattei

I temi sono quelli cari ai giovani d’oggi: l’amore e la violenza, il dolore esibito (i lividi), la dannazione nel vizio (i fiumi d’alcol), l’amore che amore non è. Però il tutto sa di una messa in scena studiata ad arte, manca il sentimento, manca l’emozione.  Sarebbe stato più appagante se la vittima di questa storia alla fine mandasse a spendere questo farabutto, invece scopriamo che è lui che è scappato. Pure. 6-

Due vite. Marco Mengoni

Il caffè col limone contro l’hangover sinceramente non l’avevo mai sentito e probabilmente sarà l’unica cosa che ricorderò di questa canzone rapidamente destinata all’oblio. Va bene usare delle allegorie, ma servirebbe anche un senso: cosa vuol dire che siamo un libro aperto in una casa vuota? E perché mai la luna dovrebbe esplodere? Va bene la megalomania, ma davvero si può dire “Siamo i soli svegli in tutto l’universo” senza scadere nel ridicolo involontario? 5

Lasciami. Modà

Lo spunto sarebbe anche interessante: trattare la depressione come se fosse una donna, e lasciarla, e riscoprire la vita senza di lei. Peccato però che dal testo non si capisca. È come una barzelletta che devi spiegare, come un finale giallo che nessuno ha previsto. La povertà lessicale non aiuta, anche la chiusura lascia interdetti, anziché l’entusiasmo per il ritorno alla vita sembra quasi emergere la nostalgia per le ore più buie. Boh. 4

Supereroi. Mr Rain

Se questa fosse una classe del liceo, controllerei il compito del compagno di banco. Perché la canzone è in bilico tra la citazione colta e il plagio furbesco. «Siamo angeli con un’ala soltanto e riusciremo a volare solo restando l’uno accanto all’altro” infatti è una frase di Luciano De Crescenzo ripresa da don Tonino Bello (o forse è vero il contrario), e anche qua e là il testo ricorda altro. Ma siccome anche copiare è un’arte, il ragazzo merita un 6+.

Polvere. Olly

Si chiama “Polvere” una straordinaria canzone di Enrico Ruggeri, struggente e tecnicamente perfetta. Ahimè qui voliamo molto più basso, quasi rasoterra. L’esordio fa tremare i polsi: “Innamorato come i ciechi con gli odori, come i muti coi rumori”. Dopo va pure peggio: “Vedo Dio mentre pittura, che sorride perché sa che se fa una sbavatura poi non la cancellerà”. Il padreterno forse sarà di buonumore, noi meno. Piano americano, e sfioro il tavolo con una mano… Ah, saper scrivere. Ritorni quando avrà studiato, Olly. 4

Furore. Paola e Chiara

“In questa notte di sole, furore, furore”. Certo non ci aspettavamo Steinbeck, ma in confronto anche Fedez sembra Steinbeck. Testo estremamente esile, senza pretese, senza acume, senza brio, completamente al servizio della musica (e anche quella…). “Ballare, ancora ballare, come se fosse l’ultima, se fosse l’ultima canzone”. Hai visto mai. 4

Made in Italy. Rosa Chemical

Ecco la dimostrazione che anche un brano di musica leggera senza troppe pretese può essere scritto bene, con sagacia, ironia, gusto del tratteggio satirico. Riferimenti pop “Io voglio morire da italiano, io voglio una vita come Vasco, stringere la mano a Celentano”, oscenità più o meno palesi “Ti voglio nuda col calzino bianco”, persino riferimenti colti “L’uomo vitruviano, io sono il tuo Leonardo”. A proposito di frasi a effetto, qui vince a mani basse “da due passiamo a tre, più siamo e meglio è”. Peccato solo per il ritornello, quel Made in Italy ripetuto non aggiunge molto ed è forse l’unico neo di una composizione riuscita. 7-

Cause perse. Sethu

Ecco, io questi giovani che scrivono “Ma qua fuori è una guerra” vorrei mandarli davvero a vedere cos’è la guerra, prima di parlare a vanvera dei loro “Sogni troppo grandi per queste tasche”. Concentrato di cliché di certo trap contemporaneo, c’è la voglia di successo, c’è la tristezza perché niente cambia col tempo, il compiangersi, l’autolesionismo “Brucio questi anni come se non li avessi, come siga spente sui polsi”. Il tutto però dà l’impressione di essere autentico come una banconota da 3 euro. La peggiore canzone del festival, e con un certo distacco anche. 3–

Egoista. Shari

Un’altra canzone fluida in cui si amano donne, uomini, purché entrino dentro i jeans. Ma nessuno fa più sesso in frescolana? “Solo qualcuno d’amare per poi fargli del male”. Anche in questo caso l’ottimismo e l’entusiasmo sono travolgenti “Dal divano osservavo in silenzio la vita crollarmi davanti” ma se non l’altro l’autore si rende conto che forse questi comportamenti, se non psicopatici, sono perlomeno egoisti. “Mentre stappo sta birra che sa di the” però è una frase che da sola vale quasi la sufficienza. 6

Tango. Tananai

Qui torna il problema visto già con i Modà: se vuoi fare il testo impegnato, abbi il coraggio di andare fino in fondo. Io, per esempio, ho dovuto leggerlo sui giornali che era una canzone dedicata a una coppia di amanti nell’Ucraina attuale. Bella l’idea, anche se alcuni passaggi sono da shock anafilattico lessicale, come il terribile “Eravamo da me, abbiamo messo i Police, era bello finché ha bussato la police”, altri balbettano nei luoghi comuni “Non c’è un amore senza una ragazza che pianga”: in questo Sanremo a dire la verità i piagnoni sono tutti maschi. Più coraggio, dai. 6-

Alba. Ultimo

Forse la canzone emblema della scrittura contemporanea: lirismo facile (l’alba, la rima lividi e brividi, il camminare senza meta), nessuna evidente sbavatura ma nessun guizzo. Quale frase di Ultimo scrivereste voi sul diario se foste un adolescente? Io mi troverei sinceramente in imbarazzo, ma forse perché sul mio diario di sedicenne c’erano De Gregori e Baglioni e forse sì, sono io che chiedo troppo. 6

Stupido. Will

Siamo dolori che canterò e so che se torni non basterò” è un ritornello intelligente e accurato, poi da standing ovation l’ammissione “E divento pure un po’ banale, come dirti che se non ci sei non so che fare”. Finalmente uno che sa di non essere un poeta ma almeno lo ammette. Mi sarei risparmiato quel terribile “ruberò le lacrime che ti porta via il vento” da fotoromanzo rosa, ma insomma, il compito è svolto con profitto. 7–

 

Noiosa da morire. Recensione della fiction di Rai Uno con Cristiana Capotondi

Amo particolarmente le serie televisive, soprattutto quelle brevi: capolavori di scrittura come Modern Love, dall’impatto visivo notevole come The Loop, spassose e irriverenti come Good Omens, persino dai risvolti insospettabilmente profondi come The Good Place (viste tutte su Prime Video). Per non parlare dei classici come la Signora in Giallo o delle indimenticabili situation comedy come Friends, How I met your mother, The Big Bang Theory. Se il format era già vincente di per sé, perché per esempio con una miniserie si può raccontare un romanzo in maniera più rispettosa che in un film, perché la durata è più flessibile,  oggi con le tv via streaming il successo è diventato dirompente. Penso, per citarne solo alcune, a Stranger Things, Arsenio Lupin, La Regina di Scacchi e Black Mirror di Netflix. Senza contare che la Marvel edizione Disney userà sempre di più questo strumento, come ha già fatto con Wanda Vision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier.

Questa lunga e fondamentalmente inutile premessa (ma il blog è lo spazio delle inutili divagazioni che non mi posso permettere né da addetto stampa né da romanziere) serve solo ad attestare che le serie mi piacciono, ma soprattutto mi piace parlare di quelle riuscite male. Perché tanto le stroncature sono un genere che i giornali non possono permettersi più (chi lo sente poi l’editore), al massimo se qualcosa non ti piace non ne scrivi.  E invece io ne voglio scrivere eccome.

La stroncatura di oggi è dedicata alla fiction (chissà perché usiamo questo termine inglese che gli inglesi non usano) “Bella da morire” di Rai Uno. Perché ho cominciato a guardarla? Perché noi italiani con le serie balbettiamo un po’, per carenze di risorse e di scrittura, scivoliamo troppo spesso nella sciatteria. Non siamo capaci per esempio di scrivere serie comiche (e dire che nel cinema invece è un genere in cui eccelliamo),  i tentativi di situation comedy sono tutti facilmente dimenticabili. Lasciamo perdere poi il fantasy o la fantascienza, lo storico è spesso limitato ad agiografie di santi religiosi e laici. Nel poliziesco, però, abbiamo una certa competenza. Anche perché gli sceneggiatori possono saccheggiare da una letteratura piuttosto ricca e variegata: facile citare Andrea Camilleri con il suo immortale Montalbano, ma anche l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli è da anni un cult. Tra gli ultimi arrivi l’Imma Tataranni di Mariolina Venezia e l’Alligatore di Massimo Carlotto. Poi capita però che qualcuno scriva storie originali per la tivù. Insomma, dopo aver visto un bel film del regista, Andrea Molaioli, che si era fatto apprezzare per le atmosfere da thriller nordico de “La ragazza del lago“, ho voluto provare.

Ed è arrivato il patatrac.

Bella da morire” è una serie in otto puntate basata su un soggetto che avrebbe potuto reggere al massimo un lungometraggio di un’ora e mezza, due al massimo. C’è un omicidio, le indagini, un paio di false piste, il colpo di scena. Però mamma Rai ci tiene a fare un prodotto “educational” contro la violenza sulle donne, e allora dacci dentro con monologhi moraleggianti, dati e statistiche sul femminicidio snocciolati in dialoghi surreali. E poi tante sottotrame sentimentali, troppe.
Un lago c’è anche qui, e anche una ragazza: peccato però che Cristiana Capotondi, la protagonista, ricordi il primo Clint Eastwood dei western di Sergio Leone, quello che per intenderci aveva solo due espressioni: con il cappello e senza. Solo che nel caso in questione non c’è neanche il cappello, e la protagonista si limita a sbarrare gli occhi tutto il tempo, probabilmente esterrefatta dalle battute che è costretta a recitare. Intorno a lei altri attori che abbiamo amato in altre serie: la Buffa e Gambero di Coliandro (Benedetta Cimatti e Paolo Sassanelli) l’Alligatore (Matteo Martari), persino una bellissima Lucrezia Lante Della Rovere che ha fatto tanto teatro e ci tiene che gli spettatori se ne accorgano.

Siccome i primi piani agli occhioni della poliziotta non bastano a riempire otto episodi, gli sceneggiatori si inventano improbabili sottotrame sentimentali per allungare il brodo. Intanto c’è la banalissima storia della protagonista con l’ispettore bello e tenebroso (con un passato opaco). Non solo: quasi tutti gli altri interpreti meritano una sottotrama: la sorella della protagonista ha la sua  complicata storia di ragazza madre, il padre ha problemi con il vicino, il procuratore capo (pure lei!) non sa scegliere tra amante e marito, il medico legale soffre per un amore impossibile. Per non parlare della famiglia della vittima. Il povero regista cerca di arrabattarsi con lunghe inquadrature del suo amato lago, aiutato da una buona fotografia, la disperazione lo porta persino a infilarci un paio di scene di sesso passionali quanto una puntata delle previsioni del tempo, ma alla fine sembra stufo anche lui.

C’è addirittura chi minaccia una seconda serie. Con la prima ho raggiunto il bonus noia per i prossimi dieci anni, non ci ricascherò. Cari sceneggiatori italiani, ce l’avete Netflix e Prime Video? Ecco, dateci un’occhiata. Imparare da chi è più bravo è segno di intelligenza.

Eurovision 2021, cronache immaginarie

  1. L’idea dei conduttori matrioska mi piace molto. La bionda a destra li contiene tutti
  2. È bello vedere che in Albania hanno risolto i problemi di denutrizione
  3. La cantante israeliana canta “Set me free”. LEI.
  4. Il gruppo belga ha preso molto sul serio il tema del distanziamento. Bravi.
  5. Io battute sui russi, mi dispiace, non ne faccio, che non si sa mai. Avanti un altro
  6. A Malta fanno storie per accogliere gli immigrati, ma quando li accolgono non gli fanno mancare niente
  7. Io mi sa che voto per le Occhi di gatto serbe. Pazienza se la canzone non mi piace.
  8. Il Regno Unito si presenta con due enormi tromboni sul palco, chiaro riferimento alle lunghe trattative con la UE per la Brexit.
  9. Non so perché quest’anno molti maschi cantano come faccio io quando al buio becco lo spigolo del tavolino
  10. Ogni volta che la ballerina tedesca vestita da mano abbassa il braccio scatta l’incidente diplomatico.
  11. “Discoteque” è già il ballo di gruppo dell’estate, tra l’Alligalli e “Con una man en mi cintura”
  12. Spero che alla fine del programma ci rassicureranno sull’evoluzione della gastroenterite del ballerino del Suriname
  13. Non so voi, ma io in vacanza in Ucraina non ci vado.
  14. Povero Pillon, qui in casa il dibattito verte sul dubbio se il cantante svedese sia maschio, femmina o di diverse sfumature.
  15. Che poi sti sanmarinesi, per non pagare le tasse devi avere il sangue blu da dieci generazioni, per cantare all’Eurovision va bene anche una nata a Bulagna da genitore eritrei (per altro brava).
  16. La sottile linea rossa che unisce Gigliola Cinquetti, Totò Cutugno e i Maneskin