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La periferia dell’impero

Non sono uno di quei telespettatori snob che guarda solo serie televisive americane ad altissimo budget. Anzi, a volte i soldi e i grandi interpreti non bastano a coprire sceneggiature incerte, come nel caso del mediocre Obi-Wan Kenobi dell’universo Star Wars (come ci si può appassionare a una storia se si sa già quello che accadrà dopo?) oppure come per Secret Invasion, dove uno dei personaggi più carismatici dell’Universo Marvel, Nick Fury, viene coinvolto in un thriller cupo in cui a un certo punto, però, senza spiegoni online non si capisce davvero più nulla, tanti sono i salti nella trama, non tutti logici.

Al contrario, mi piacciono le serie tivù italiane, ho amato molto il Commissario Montalbano, attendo con ansia le nuove puntate di Rocco Schiavone e Imma Tataranni, trovo simpatico il protagonista di Macari, per una volta un giornalista e non il solito poliziotto sciupafemmine. Poi però mi imbatto in serie tivù di un livello qualitativo così discutibile da domandarmi se, come per il mitico Tano Boccia che girava usando i set dei peplum americani durante le pause pranzo, non le realizzino con gli scarti di altre produzioni. Le ultime due che ho guardato riguardano le mie due città del cuore, Bologna e Taranto, e in entrambi i casi lo sforzo per arrivare all’ultima puntata è stato davvero poderoso. Ho dovuto davvero insistere, convincermi che avevo tutte le capacità e il talento per andare fino in fondo senza dormire.

Si tratta di “Vivere non è un gioco da ragazzi” e di “Sei donne – Il mistero di Leila”.

I problemi che ho riscontrato sono simili, per cui comincio a pensare che ci sia un difetto nella progettazione di questi prodotti. Ma vediamo di procedere con ordine. Gli attori sono di prima qualità: Stefano Fresi e Claudio Bisio per Bologna, Maya Sansa e Isabella Ferrari per Taranto. E qui signori miei mi si alza il sopracciglio: ma davvero non ci sono attori bolognesi o tarantini in grado di rendere un po’ più credibile l’ambientazione? Una città non è fatta solo di palazzi e scenari. È fatta di persone e linguaggi. Nella prima fiction se non altro Stefano Fresi ci prova a parlare con un accento emiliano, nel secondo caso l’unica pugliese è la vittima che appare sì e no in tre scene. Passi che un poliziotto possa essere siciliano come nel caso di Alessio Vassallo, passi anche che il magistrato protagonista interpretato da Maya Sansa abbia vissuto a lungo a Roma (c’è un vago tentativo di giustificazione in merito nella sceneggiatura), ma perché suo figlio nato e cresciuto a Taranto è un romano de’ Roma, come per altro suo marito? E quanti veronesi – come un altro personaggio chiave – sono immigrati a Taranto, mannaggia alla miseria? Insomma, da questo punto di vista ci sono grosse carenze soprattutto nello sceneggiato tarantino: il casting segue scelte che ovviamente non sono quelle della verosimiglianza, ma delle capacità degli agenti di piazzare i loro clienti, ‘anvedi aho’!

Un mio rimpianto professore del liceo, Silvio Immune, trent’anni fa ci diceva che a causa della televisione avremmo tutti detto “So’ tarantino de Taranto”. Quanto aveva ragione.

L’altro aspetto comune è che ci sono diversi esterni, e questo va bene, ma sempre negli stessi duecento metri di città. Bologna è una città che offre una infinità di angoli cinematograficamente interessanti, nello sceneggiato tutto avviene sotto un portico del quartiere Barca, davanti a una villa sui colli e in via Zamboni. Per non parlare del mio amato Appennino: Monte Acuto Ragazza, borgo del Comune di Grizzana Morandi in cui sono ambientate alcune scene, meriterebbe una fotografia ricca e attenta. Invece vediamo a mala pena un albero, che avrebbe potuto tranquillamente essere un albero di qualunque colle di qualunque zona del mondo. Un albero.

Così come a Taranto tutto avviene sul lungomare, davanti alla Prefettura e in uno scorcio della città vecchia. Nessuno ha mai fatto jogging su quel lungomare, nessuno. Il marciapiedi è stretto, la strada molto trafficata, se scivoli e ti mettono sotto recuperano il tuo cadavere a San Vito.  Direte: va bene, ma di questo te ne accorgi tu perché conosci della città. Anche Montalbano usciva di casa a Puntasecca, girava l’angolo per andare a prendere l’auto parcheggiata a Donna Lucata a 18 km e e si ritrovava alla fermata della corriera a Ragusa, che è a 30 km. Ma quella era una città, Marinella, immaginaria. Taranto c’è. Dirò di più: non tutti a Taranto hanno la casa e l’ufficio con vista sul mare. Pensa un po’ tu.

La risposta in questi casi credo sia semplice: bisogna ottimizzare i costi e ridurre il numero di set è un buon modo per farlo. Capisco. Ma un po’ di fantasia a sopperire i mezzi limitati non guasterebbe, dai. Muovetela quella macchina da presa, ogni tanto, osate con le luci, ho visto fotografare per le carte di identità con maggiore brio.

E veniamo al più grave dei difetti che caratterizza entrambi questi prodotti: l’enorme, insostenibile, massiccia noia che li caratterizza. La storia in entrambi i casi c’è: Fabio Bonifacci è un signor scrittore e uno dei migliori sceneggiatori che abbiamo in Italia, ma sembra che la regia si sia divertita ad allungare, slabbrare, diluire la vicenda bolognese che avrebbe potuto essere trascritta in un film di due ore e invece ne dura sei. Stessa sorte per il povero lavoro di Ivan Cotroneo che ha una idea che potrebbe appassionare, quella di raccontare le vicende di 6 donne che si intrecciano, ma è più annacquato di una Coca-Cola alla spina del McDonald’s. Primi piani, primi piani, primi piani. Sospiri. Primi piani. Maya Sansa che riesce a mantenere la stessa espressione per sei ore di girato, anche se qualche volte stringe gli occhi per far vedere quanto è cattiva o batte le palpebre lentamente quando il regista grida “più pensosa”. Il giovane protagonista della serie bolognese, poi, ha due espressioni come Clint Eastwood di Sergio Leone, con il cappello e senza. Solo che non ha nemmeno il cappello.

Abbiate pietà dello spettatore. Fateli muovere ogni tanto, questi attori. Sono film, anche se scritti per la televisione, non fotoromanzi con l’aggiunta dell’audio. Non voglio una sparatoria alla Quentin Tarantino, non voglio effetti speciali che non possiamo permetterci. Vorrei solo un po’ di mestiere, mica grandi spese, solo del ritmo per dare un po’ di pepe alla storia (quanto ci manca un Umberto Lenzi, oggi).

Bologna e Taranto meritano di meglio. Non siamo periferia dell’impero, non più.

Sanremo 2023: le mie pagelle

Anche Sanremo 2023 è andato via. Il mio parere sulla musica posso condividerlo al bar con gli amici, ma credo non abbia alcun valore intrinseco, è una opinione come un’altra. Non parliamo poi ci commentare l’interpretazione o peggio ancora il look dei cantanti (ma chi? Io?).
Qualcosa di sensato però penso di poterlo dire sui testi, visto che con le parole bene o male ci lavoro da più di vent’anni. Nessuna canzone mi ha fatto gridare al miracolo ma qua e là qualche perla c’è, a volerla cercare.

Sali, canto dell’anima. Anna Oxa

Canzone con echi millenaristici, qualche paragone facile “Libera l’anima come rondini la sera”, un’invocazione che non si capisce dove andrà a parare. Anche le storie new age avrebbero bisogno di una trama per stare in piedi. 5

Mare di guai. Ariete

L’amore lesbico si chiama così grazie a una straordinaria poetessa e all’isola in cui nacque. Qui però poesia ce n’è poca, “la notte è solo un giorno che riposa”, siamo più dalle parti della posta del cuore di Cioè. “Non voglio più perderti nel chiaro di luna”, figuriamo nelle notti di luna nuova. 5+.

Un bel viaggio. Articolo 31

Anche morire giovani non puoi più perché, adesso c’hai la family e dipende da te” è uno devi versi più efficaci di tutto il festival. L’autobiografismo a cinquant’anni è un po’ prematuro, e anche questo brano arranca, ma lo stile per il calembour un po’ triviale c’è sempre (“siamo stati due coglioni infatti funzioniamo in coppia”). Quanto avrebbero da imparare i giovani sedicenti rapper!  7.

Splash. Colapesce Dimartino

Finalmente un testo che non ha paura delle parole: il vento che arpeggia una ringhiera, io lavoro per non stare con te, “Ma che mare ma che mare, come stronzi galleggiare, per non sentire il peso delle aspettative”. Efficace, variopinto, divertente. Anche il titolo funziona. 8

Non mi va. Colla zio

I rapper dovrebbero essere agevolati nell’uso della lingua, libera da solfeggi e ritmiche che ingabbiano, ma se il massimo che riesci a produrre è che “non ho fame finché sei sfinita, minchia, ma che sesso mi fai, ma che sesso mi fai” allora bisogna proprio che tu legga di più, anche perché del mare si può dire tutto, ma che indirizzi alla savana proprio no. 4

L’addio. Coma_Cose

Curiosamente tornano in questa canzone le ringhiere, la delusione delle aspettative, il raccontarsi. La qualità c’è, è un po’ altalenante, “in viaggio su respiri più leggeri, chissà se piloti o passeggeri” funziona, altri passaggi convincono di meno “ce ne andremo via come uno stormo che con l’autunno poi farà ritorno”, però la chiusa è la migliore. Una frase è perfetta se sta bene stampata su una maglietta, e io uno t-shirt con scritto “L’addio non è una possibilità” la comprerei. 8

Due. Elodie

“Che rumore fa Il silenzio alla fine di tutte le nostre telefonate interrotte”? Compitino professionale, pulito, con una chiusura azzeccata “Per me le cose sono due, lacrime mie o lacrime tue”, c’è un po’ di svogliatezza, se scrivi che un amore appena nato è già finito male ma che rifaresti gli stessi errori è ovvio che il tuo pubblico di riferimento non va oltre la terza pagina di un romanzo, ed è un peccato. 6+

Quando ti manca il fiato. Gianluca Grignani

Premetto: la melodia non mi convince e il modo di cantare non mi piace affatto. Ma questo è il miglior testo di Sanremo 2023. L’unico che racconta bene una storia, seppure negli spazi esigui di qualche verso. Siamo ancora sui terreni scivolosi dell’autobiografia (questo Sanremo passerà alla storia come quello delle canzoni selfie”). “Ma no che non sto male, ma quando accadrà, tu verrai o no al mio funerale”? In questo passaggio c’è un romanzo compiuto con attori, sentimenti, vicende. Peccato solo per quei coltelli che cadono dal cielo e fanno sanguinare anche l’uomo più duro, un brutto scivolone stilistico senza la quale la canzone sarebbe stata da 10 e invece 9.

Mostro. Gianmaria,

No tu non sembri un mostro ma il tuo testo è mostruosamente piatto, senza uno spunto, senza un’invenzione, senza uno scatto originale. “Ti ho lasciato sopra il letto un mio libro, così sai che tornerò”. Se l’avessi prima letto, quel libro, oggi forse conosceresti due o tre aggettivi in più. 4

Giorgia

Buona la chiusura, “Ricordo le ultime parole, quelle dette male, maledette”, ma è l’unico passaggio che si ricordi. Per il resto è una lunga lista di immagini già viste: la mia pelle è un foglio bianco e ci scrivo su, il cielo che crolla e io non ragiono più. Tutto corretto, tutto dimenticabile in fretta. 6

I Cugini di Campagna. Lettera 22

C’è la terribile rima fiore-amore, c’è in assoluto il peggior ritornello di Sanremo, non lasciarmi solo, non lasciarmi qui. Caspita, chi l’ha scritta, Baudelaire? Ma in fondo le figure utilizzate nella strofa non sono malvagie, c’è mestiere e poche pretese. “Credo, credo anch’io, che non puoi darmi il mondo, se non guardi il mondo come lo guardo anch’io” è il massimo che si può chiedere loro, ma d’altronde non ci aspettavamo De Andrè. 5,5

Lazza. Cenere

“Pezzi di vetro”, “Nel buio balli da sola”,” Vorrei che andassi via, lontana da me, ma sei la terapia “. Tra citazioni consapevoli o meno, anche in questo caso da un rapper ci si aspettava qualcosa di più di un’agghiacciante “sei bella come Venere”. A tratti sembra uno di quei testi generati al computer copiando qua e là. “Ormai nemmeno facciamo l’amore, direi piuttosto che facciamo l’odio” è una frase da premiare se non altro per l’uso del condizionale. Poco altro. 5,5

LDA. Se poi domani

“E mi manca disegnare con lei sulla spiaggia due iniziali in un cuore di sabbia”: basterebbe questa frase devastante a meritare un 3 incondizionato. In realtà il testo in questione cerca addirittura qualche vezzo poetico, come quel grazioso “tu che disegni i silenzi a matita” e tutti quei riferimenti all’insonnia che fanno poeta maledetto. Però se ti presenti a una ragazza con un “Ti prego ascoltami” “Oh oh dammi le mani” lei sarà una bugia ma tu sei una lagna. 4

Leo Gassman. Terzo cuore

L’idea del terzo cuore funziona. Eravamo abituati a becere terze gambe, invece l’immagine su cui è costruita la canzone è una delle più interessanti. Non si capisce bene cosa c’entrino le strade di Parigi, il trasformare le sfide in sfighe fa un po’ alzare il sopracciglio del critico, ma insomma, rispetto al livello medio, qui la sufficienza è raggiunta a piene mani. Certo, se non ci riducesse sempre a zerbini dell’amante che ci respinge sarebbe meglio: “Non mi importa di avere ragione se poi resto sempre da solo, meglio avere torto con te”… 6,5

Vivo. Levante.

Ritornello indovinato, si sposa con la melodia senza essere piatto, un paio di passaggi memorabili “Bacio rime, bacio bene, ti bacio dopo”, ma anche “Addio a tutti i “dovrei”, a tutti i “se poi”, a tutti i miei “perché?”: semplice ed efficace. Manca forse il guizzo che rende una canzone memorabile, e lei ne sarebbe capace. 6,5

Il bene nel male. Madame

Ecco un’altra canzone che ha il coraggio di raccontare una storia – il rapporto tra cliente e prostituta che si ritrovano sentimentalmente coinvolti –  che vada oltre il “ti prego torna con me”. Alcuni passaggi raggiungono elevati livelli di drammaticità “Amore, tu sei, sei l’errore più cattivo che ho commesso nella vita” non è una frase da Bacio Perugina. Ogni tanto si fa un po’ troppo saccente “L’amore è solamente di chi prova amore, non è di chi lo riceve” , ma resta un testo che si distingue per profondità. Bravi. 7

Duemila minuti. Mara Sattei

I temi sono quelli cari ai giovani d’oggi: l’amore e la violenza, il dolore esibito (i lividi), la dannazione nel vizio (i fiumi d’alcol), l’amore che amore non è. Però il tutto sa di una messa in scena studiata ad arte, manca il sentimento, manca l’emozione.  Sarebbe stato più appagante se la vittima di questa storia alla fine mandasse a spendere questo farabutto, invece scopriamo che è lui che è scappato. Pure. 6-

Due vite. Marco Mengoni

Il caffè col limone contro l’hangover sinceramente non l’avevo mai sentito e probabilmente sarà l’unica cosa che ricorderò di questa canzone rapidamente destinata all’oblio. Va bene usare delle allegorie, ma servirebbe anche un senso: cosa vuol dire che siamo un libro aperto in una casa vuota? E perché mai la luna dovrebbe esplodere? Va bene la megalomania, ma davvero si può dire “Siamo i soli svegli in tutto l’universo” senza scadere nel ridicolo involontario? 5

Lasciami. Modà

Lo spunto sarebbe anche interessante: trattare la depressione come se fosse una donna, e lasciarla, e riscoprire la vita senza di lei. Peccato però che dal testo non si capisca. È come una barzelletta che devi spiegare, come un finale giallo che nessuno ha previsto. La povertà lessicale non aiuta, anche la chiusura lascia interdetti, anziché l’entusiasmo per il ritorno alla vita sembra quasi emergere la nostalgia per le ore più buie. Boh. 4

Supereroi. Mr Rain

Se questa fosse una classe del liceo, controllerei il compito del compagno di banco. Perché la canzone è in bilico tra la citazione colta e il plagio furbesco. «Siamo angeli con un’ala soltanto e riusciremo a volare solo restando l’uno accanto all’altro” infatti è una frase di Luciano De Crescenzo ripresa da don Tonino Bello (o forse è vero il contrario), e anche qua e là il testo ricorda altro. Ma siccome anche copiare è un’arte, il ragazzo merita un 6+.

Polvere. Olly

Si chiama “Polvere” una straordinaria canzone di Enrico Ruggeri, struggente e tecnicamente perfetta. Ahimè qui voliamo molto più basso, quasi rasoterra. L’esordio fa tremare i polsi: “Innamorato come i ciechi con gli odori, come i muti coi rumori”. Dopo va pure peggio: “Vedo Dio mentre pittura, che sorride perché sa che se fa una sbavatura poi non la cancellerà”. Il padreterno forse sarà di buonumore, noi meno. Piano americano, e sfioro il tavolo con una mano… Ah, saper scrivere. Ritorni quando avrà studiato, Olly. 4

Furore. Paola e Chiara

“In questa notte di sole, furore, furore”. Certo non ci aspettavamo Steinbeck, ma in confronto anche Fedez sembra Steinbeck. Testo estremamente esile, senza pretese, senza acume, senza brio, completamente al servizio della musica (e anche quella…). “Ballare, ancora ballare, come se fosse l’ultima, se fosse l’ultima canzone”. Hai visto mai. 4

Made in Italy. Rosa Chemical

Ecco la dimostrazione che anche un brano di musica leggera senza troppe pretese può essere scritto bene, con sagacia, ironia, gusto del tratteggio satirico. Riferimenti pop “Io voglio morire da italiano, io voglio una vita come Vasco, stringere la mano a Celentano”, oscenità più o meno palesi “Ti voglio nuda col calzino bianco”, persino riferimenti colti “L’uomo vitruviano, io sono il tuo Leonardo”. A proposito di frasi a effetto, qui vince a mani basse “da due passiamo a tre, più siamo e meglio è”. Peccato solo per il ritornello, quel Made in Italy ripetuto non aggiunge molto ed è forse l’unico neo di una composizione riuscita. 7-

Cause perse. Sethu

Ecco, io questi giovani che scrivono “Ma qua fuori è una guerra” vorrei mandarli davvero a vedere cos’è la guerra, prima di parlare a vanvera dei loro “Sogni troppo grandi per queste tasche”. Concentrato di cliché di certo trap contemporaneo, c’è la voglia di successo, c’è la tristezza perché niente cambia col tempo, il compiangersi, l’autolesionismo “Brucio questi anni come se non li avessi, come siga spente sui polsi”. Il tutto però dà l’impressione di essere autentico come una banconota da 3 euro. La peggiore canzone del festival, e con un certo distacco anche. 3–

Egoista. Shari

Un’altra canzone fluida in cui si amano donne, uomini, purché entrino dentro i jeans. Ma nessuno fa più sesso in frescolana? “Solo qualcuno d’amare per poi fargli del male”. Anche in questo caso l’ottimismo e l’entusiasmo sono travolgenti “Dal divano osservavo in silenzio la vita crollarmi davanti” ma se non l’altro l’autore si rende conto che forse questi comportamenti, se non psicopatici, sono perlomeno egoisti. “Mentre stappo sta birra che sa di the” però è una frase che da sola vale quasi la sufficienza. 6

Tango. Tananai

Qui torna il problema visto già con i Modà: se vuoi fare il testo impegnato, abbi il coraggio di andare fino in fondo. Io, per esempio, ho dovuto leggerlo sui giornali che era una canzone dedicata a una coppia di amanti nell’Ucraina attuale. Bella l’idea, anche se alcuni passaggi sono da shock anafilattico lessicale, come il terribile “Eravamo da me, abbiamo messo i Police, era bello finché ha bussato la police”, altri balbettano nei luoghi comuni “Non c’è un amore senza una ragazza che pianga”: in questo Sanremo a dire la verità i piagnoni sono tutti maschi. Più coraggio, dai. 6-

Alba. Ultimo

Forse la canzone emblema della scrittura contemporanea: lirismo facile (l’alba, la rima lividi e brividi, il camminare senza meta), nessuna evidente sbavatura ma nessun guizzo. Quale frase di Ultimo scrivereste voi sul diario se foste un adolescente? Io mi troverei sinceramente in imbarazzo, ma forse perché sul mio diario di sedicenne c’erano De Gregori e Baglioni e forse sì, sono io che chiedo troppo. 6

Stupido. Will

Siamo dolori che canterò e so che se torni non basterò” è un ritornello intelligente e accurato, poi da standing ovation l’ammissione “E divento pure un po’ banale, come dirti che se non ci sei non so che fare”. Finalmente uno che sa di non essere un poeta ma almeno lo ammette. Mi sarei risparmiato quel terribile “ruberò le lacrime che ti porta via il vento” da fotoromanzo rosa, ma insomma, il compito è svolto con profitto. 7–

 

Noiosa da morire. Recensione della fiction di Rai Uno con Cristiana Capotondi

Amo particolarmente le serie televisive, soprattutto quelle brevi: capolavori di scrittura come Modern Love, dall’impatto visivo notevole come The Loop, spassose e irriverenti come Good Omens, persino dai risvolti insospettabilmente profondi come The Good Place (viste tutte su Prime Video). Per non parlare dei classici come la Signora in Giallo o delle indimenticabili situation comedy come Friends, How I met your mother, The Big Bang Theory. Se il format era già vincente di per sé, perché per esempio con una miniserie si può raccontare un romanzo in maniera più rispettosa che in un film, perché la durata è più flessibile,  oggi con le tv via streaming il successo è diventato dirompente. Penso, per citarne solo alcune, a Stranger Things, Arsenio Lupin, La Regina di Scacchi e Black Mirror di Netflix. Senza contare che la Marvel edizione Disney userà sempre di più questo strumento, come ha già fatto con Wanda Vision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier.

Questa lunga e fondamentalmente inutile premessa (ma il blog è lo spazio delle inutili divagazioni che non mi posso permettere né da addetto stampa né da romanziere) serve solo ad attestare che le serie mi piacciono, ma soprattutto mi piace parlare di quelle riuscite male. Perché tanto le stroncature sono un genere che i giornali non possono permettersi più (chi lo sente poi l’editore), al massimo se qualcosa non ti piace non ne scrivi.  E invece io ne voglio scrivere eccome.

La stroncatura di oggi è dedicata alla fiction (chissà perché usiamo questo termine inglese che gli inglesi non usano) “Bella da morire” di Rai Uno. Perché ho cominciato a guardarla? Perché noi italiani con le serie balbettiamo un po’, per carenze di risorse e di scrittura, scivoliamo troppo spesso nella sciatteria. Non siamo capaci per esempio di scrivere serie comiche (e dire che nel cinema invece è un genere in cui eccelliamo),  i tentativi di situation comedy sono tutti facilmente dimenticabili. Lasciamo perdere poi il fantasy o la fantascienza, lo storico è spesso limitato ad agiografie di santi religiosi e laici. Nel poliziesco, però, abbiamo una certa competenza. Anche perché gli sceneggiatori possono saccheggiare da una letteratura piuttosto ricca e variegata: facile citare Andrea Camilleri con il suo immortale Montalbano, ma anche l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli è da anni un cult. Tra gli ultimi arrivi l’Imma Tataranni di Mariolina Venezia e l’Alligatore di Massimo Carlotto. Poi capita però che qualcuno scriva storie originali per la tivù. Insomma, dopo aver visto un bel film del regista, Andrea Molaioli, che si era fatto apprezzare per le atmosfere da thriller nordico de “La ragazza del lago“, ho voluto provare.

Ed è arrivato il patatrac.

Bella da morire” è una serie in otto puntate basata su un soggetto che avrebbe potuto reggere al massimo un lungometraggio di un’ora e mezza, due al massimo. C’è un omicidio, le indagini, un paio di false piste, il colpo di scena. Però mamma Rai ci tiene a fare un prodotto “educational” contro la violenza sulle donne, e allora dacci dentro con monologhi moraleggianti, dati e statistiche sul femminicidio snocciolati in dialoghi surreali. E poi tante sottotrame sentimentali, troppe.
Un lago c’è anche qui, e anche una ragazza: peccato però che Cristiana Capotondi, la protagonista, ricordi il primo Clint Eastwood dei western di Sergio Leone, quello che per intenderci aveva solo due espressioni: con il cappello e senza. Solo che nel caso in questione non c’è neanche il cappello, e la protagonista si limita a sbarrare gli occhi tutto il tempo, probabilmente esterrefatta dalle battute che è costretta a recitare. Intorno a lei altri attori che abbiamo amato in altre serie: la Buffa e Gambero di Coliandro (Benedetta Cimatti e Paolo Sassanelli) l’Alligatore (Matteo Martari), persino una bellissima Lucrezia Lante Della Rovere che ha fatto tanto teatro e ci tiene che gli spettatori se ne accorgano.

Siccome i primi piani agli occhioni della poliziotta non bastano a riempire otto episodi, gli sceneggiatori si inventano improbabili sottotrame sentimentali per allungare il brodo. Intanto c’è la banalissima storia della protagonista con l’ispettore bello e tenebroso (con un passato opaco). Non solo: quasi tutti gli altri interpreti meritano una sottotrama: la sorella della protagonista ha la sua  complicata storia di ragazza madre, il padre ha problemi con il vicino, il procuratore capo (pure lei!) non sa scegliere tra amante e marito, il medico legale soffre per un amore impossibile. Per non parlare della famiglia della vittima. Il povero regista cerca di arrabattarsi con lunghe inquadrature del suo amato lago, aiutato da una buona fotografia, la disperazione lo porta persino a infilarci un paio di scene di sesso passionali quanto una puntata delle previsioni del tempo, ma alla fine sembra stufo anche lui.

C’è addirittura chi minaccia una seconda serie. Con la prima ho raggiunto il bonus noia per i prossimi dieci anni, non ci ricascherò. Cari sceneggiatori italiani, ce l’avete Netflix e Prime Video? Ecco, dateci un’occhiata. Imparare da chi è più bravo è segno di intelligenza.

Eurovision 2021, cronache immaginarie

  1. L’idea dei conduttori matrioska mi piace molto. La bionda a destra li contiene tutti
  2. È bello vedere che in Albania hanno risolto i problemi di denutrizione
  3. La cantante israeliana canta “Set me free”. LEI.
  4. Il gruppo belga ha preso molto sul serio il tema del distanziamento. Bravi.
  5. Io battute sui russi, mi dispiace, non ne faccio, che non si sa mai. Avanti un altro
  6. A Malta fanno storie per accogliere gli immigrati, ma quando li accolgono non gli fanno mancare niente
  7. Io mi sa che voto per le Occhi di gatto serbe. Pazienza se la canzone non mi piace.
  8. Il Regno Unito si presenta con due enormi tromboni sul palco, chiaro riferimento alle lunghe trattative con la UE per la Brexit.
  9. Non so perché quest’anno molti maschi cantano come faccio io quando al buio becco lo spigolo del tavolino
  10. Ogni volta che la ballerina tedesca vestita da mano abbassa il braccio scatta l’incidente diplomatico.
  11. “Discoteque” è già il ballo di gruppo dell’estate, tra l’Alligalli e “Con una man en mi cintura”
  12. Spero che alla fine del programma ci rassicureranno sull’evoluzione della gastroenterite del ballerino del Suriname
  13. Non so voi, ma io in vacanza in Ucraina non ci vado.
  14. Povero Pillon, qui in casa il dibattito verte sul dubbio se il cantante svedese sia maschio, femmina o di diverse sfumature.
  15. Che poi sti sanmarinesi, per non pagare le tasse devi avere il sangue blu da dieci generazioni, per cantare all’Eurovision va bene anche una nata a Bulagna da genitore eritrei (per altro brava).
  16. La sottile linea rossa che unisce Gigliola Cinquetti, Totò Cutugno e i Maneskin

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Cavalieri di Castelcorvo, la recensione: apri tutto, Biascica!

Sono un grande tifoso del cinema italiano. Non appassionato, non estimatore, ma tifoso: nel senso che davvero faccio il tifo per gli italiani e sono contento quando hanno successo. Il tifo non è figlio di competenza, conoscenza o valutazione razionale, ha più a che fare con la fede, ed è proprio questo il mio sentimento nei confronti delle produzioni italiane. Io spero sempre che abbiano successo, anche perché generano ricchezza culturale e non solo, danno lavoro, ricordano al mondo che esistiamo anche noi e non solo i produttori hollywoodiani.
E però.
Però il tifo porta spesso a delusioni (parlo io che da oltre trent’anni seguo il Taranto), il tifoso deluso, ahimè, sa essere crudele.

Questa premessa credo fosse necessaria per comprendere il mio stato d’animo di fronte a “I cavalieri di Castelcorvo“, prima serie Disney prodotta in Italia per la sua piattaforma. Non un documentario, non una commedia, non insomma quei prodotti in cui abbiamo un certo saper fare, ma addirittura una serie fantasy per bambini. Sono un tifoso, l’ho detto, e per cui anticipo subito: guardate questa serie. Abbiamo bisogno di riscoprire prodotti seriali italiani, bisogna che Disney si convinca che vale la pena farne. Se proprio non ce la fate, avviatela e poi andate in un’altra stanza a guardare Netflix.

Scherzi a parte, se avete bambini tra i 3 e i 10 anni, tra una puntata di Peppa Pig e la saga di Poco-Yo, potranno divertirsi. Lasciateli stare invece se sono un po’ più grandi, gli adolescenti sono spietati e la distruggerebbero. E ne avrebbero i motivi, come spiegherò nel corso di questa recensione, che ho deciso di dividere in parti, partendo da quelle più riuscite a quelle meno.

Ambientazione: 10. W l’Italia!
Niente da fare, su questo fronte non ci batte nessuno. Torre Alfina, il paese dove è stata girata la serie, è un posto bellissimo, e si vede, come anche Formello e i dintorni. Probabilmente è l’unico punto sul quale la serie vince sulla concorrenza straniera, sono un po’ mesto a dirlo, ma la buona notizia è che in Italia di posti così ce ne sono tanti che aspettano solo di essere valorizzati

Effetti speciali 8. Si fa quel che si può
Mia figlia ha più volte ripetuto che la sigla è la cosa più bella della serie (e so quello che state pensando, chissà da chi avrà preso). Anche le animazioni del gioco da tavolo sono carine. Per il resto, gli effetti sono usati con morigeratezza, ma insomma, non è un male. Se non hai Carlo Rambaldi, non improvvisare.

Soggetto: 7. Minestrone digeribile, ma a senso unico
La storia dei cavalieri di Castelcorvo richiede una forte sospensione della credulità negli spettatori più smaliziati, ma abbiamo già detto che non sono loro il pubblico di riferimento. Quattro bambini si trovano alle prese con un gioco enigmatico, una porta misteriosa e due anziane misteriose. Man mano che gli episodi si snodano acquisiranno sempre maggiori informazioni fino alla risoluzione dell’enigma. Una favoletta semplice, ma tutto sommato funziona. Gli autori attingono a piene mani dai classici del genere, da Narnia (la porta) a Jumanjii (il gioco da tavolo) dai Goonies (le dinamiche tra il gruppo di bambini), fino al più recente Strangers Thing (l’Altrove, le bici, i bulli). E potrei andare avanti. Il problema però è che se c’è una trama principale, non c’è traccia di sottotrame. Non sappiamo nulla dei genitori dei bambini, che fanno pochissime comparsate ininfluenti. La zia è poco più che un cartonato, sappiamo che vorrebbe innovare il bed & breakfast, ma il suo personaggio non ha alcuna psicologia. Qui la storia del pubblico non fa presa, se c’è qualcosa che ci hanno insegnato Disney, Pixar, Dreamworks e compagnia bella è che un programma per bambini non necessariamente è un programma “solo” per bambini. Persino in Peppa Pig i personaggi comprimari hanno maggiore spessore, e questo, come vedremo, ha effetto anche sul resto delle scelte produttive.

Casting: 4. Chi vuol fare l’attore alzi la mano. Tu, tu e tu.
Siccome i protagonisti sono tutti minorenni, non mi sembra il caso riportare i commenti che a volte ho gridato contro lo schermo a corollario della loro interpretazione. Diciamo che le ragazzine se la cavano, e anche Matteo, che interpreta il personaggio tante volte visto sullo schermo dello “sfigato” schernito e solitario che però ha un cuore grande, nella maggior parte delle scene esce a testa alta. Per gli altri, consiglio tanta, tanta, tanta scuola di recitazione. Oppure fare altro, studiare, andare in bici, giocare a calcio. Al limite andare al cinema, non farlo, che non è il caso di ripetersi. Il livello è davvero da recita parrocchiale, anche se ne ho viste di interpretate con più pathos. Hanno le stesse espressioni di emoticon: sorridente, triste, sorpreso. Basito. Ma la colpa non può essere dei bambini, ma di chi li ha scelti, e soprattutto di chi li ha diretti. Il vero dramma del casting però non è legato agli attori principali, e nemmeno ai comprimari (pochi e senza particolare spessore, come anticipato). Il guaio, e qui anticipo quella che potrebbe essere una chiave di lettura di tutta la serie, il budget limitato, è che mancano le comparse! Castelcorvo è un paese letteralmente deserto che neanche Bologna a Ferragosto. Sembra un cupo presagio del lock-down da cui sono esclusi solo una decina di interpreti. Pur essendo la storia ambientata in estate (due dei bambini sono “cittadini” in vacanza, ma il tema delle diverse culture è accennato sommariamente, purtroppo), non c’è mai nessuno per strada. Io lo capisco che non hai soldi per gli effetti speciali, ma cavolo, possibile che in 15 episodi le comparse saranno 3 in tutto? Passi il bosco e l’Altrove, ma una piazzetta non può essere perennemente deserta. Spero che su questo i produttori riflettano. Possiamo accettare che una porta conduca in un’altra dimensione, ma che in un paese estivo non ci siano né auto né pedoni, né negozi, né lavori pubblici né umarell che guardano i lavori pubblici no, a meno che non sia un film distopico post-nucleare.

Sceneggiatura: 4
I testi purtroppo sono così così. Non ci sono battute di spirito che si ricordino, e dire che il pubblico di bambini ha dimostrato da tempo di avere senso dell’umorismo e di apprezzarlo. Nulla anche sul fronte delle frasi di impatto, quelle americanate insomma alla “se io posso cambiare, e voi potete cambiare, allora tutto il mondo può cambiare”. Non solo, gli spiegoni abbondano, quasi che la serie voglia tranquillizzare il nonno con l’Alzehimer che la segue con il nipote. Per non parlare delle frasi pseudo-performative, in cui i ragazzi anticipano quello che faranno “dobbiamo andare nell’altrove e trovare il modo di liberare il fratello di Betta!”, caso mai che qualcuno non lo avesse già capito.

Fotografia: 3. Apri tutto, Biascica!
Questo purtroppo è il tasto più dolente. In Castelcorvo tutto succede in piena luce. Gli interni stile Ikea sono illuminati tipo mobilificio, fari ovunque. Le scene all’esterno sono tutte girate alle dieci del mattino di giorni sereni o giù di lì. Mai un tramonto, mai un’ombra che dia profondità a un viso, e dire che sei in un centro medievale! Non dico una scena con la pioggia, che pure in un fantasy ci starebbe, costa troppo, ma cavolo, devi proprio smarmellare sempre tutto? E l’inquadratura? Qui non è questione di soldi. Usare un grandangolo ogni tanto non costa nulla. Dare profondità di campo, nemmeno. In alcuni momenti le scene sembrano girate con quegli smartphone che mettono sempre tutto perfettamente a fuoco. Mai un controcampo, mai una soggettiva. Quando si vuole denigrare una fotografia piatta si dice che è televisiva. Ma magari! Qui siamo ai livelli degli spot degli stabilimenti balneari sui siti degli hotel per famiglia. In confronto anche lo spot del Mulino Bianco sempre girato da Storaro. Forza ragazzi, forza! Io faccio il tifo per voi ma voi una volta muovetela sta cinepresa.

Regia: 5. Metti il pilota automatico e andiamo a farci un panino, va.
Il collegamento in questo caso al passaggio precedente è evidente. Ora, io non credo che il regista di questo programma volesse davvero realizzare un prodotto così piatto: temo sia stata semmai una scelta produttiva. Perciò ai produttori dico: osate di più! Senza scadere nello sperimentale spinto, una carrellata, una panoramica ogni tanto ci può stare. I bambini sono abituati a prodotti sofisticati. Purtroppo di tutto ciò non c’è traccia. Ogni episodio ci tocca l’inquadratura del paese dal drone tipo Sereno Variabile, e va bene, ma perché poi questo drone non lo usate più? Perché non far seguire i ragazzi dall’alto durante una scena di inseguimento? Perché non osare una soggettiva in volo del corvo, uno dei protagonisti più espressivi della serie? Non occorre imitare Quarantino, basta puntare a Joe Dante.

E insomma, eccoci alla fine. Cari produttori dei Cavalieri di castelcorvo, riprovateci. Con un po’ più di coraggio magari. I nostri bambini hanno compreso benissimo le intricatissime vicende del Marvel Universe, comprendono anche una serie in cui non si spiega tutto ogni quattro minuti. E fate fare al regista il suo lavoro, ci sono impianti di videosorveglianza che dimostrano più fantasia.

Se la pandemia fosse arrivata 30 anni fa

Il mondo è sconvolto da una pandemia, un virus partito dalla Cina nel giro di pochi mesi mette in ginocchio l’umanità. Si lo so questa l’avete letta, probabilmente un milione di volte. Ma se invece del 2020 fosse stato, non so, il 1990? Ve lo immaginate un lock-down nel 1990?

Scuole chiuse, si procede con la didattica a distanza. Ma signori miei, Internet è roba per pochi universitari smanettoni e il world wide web nemmeno esiste. Quindi, si fa con quel che c’è. La Rai mette a disposizione Rai 3 per le lezioni a distanza, che tanto i comunisti sono sempre stati fissati con la scuola. La stessa lezione per un bambino di seconda elementare che studia le addizioni e un liceale che prepara la maturità pare un po’ complicato, il corpo docente si ribella, questa non è scuola, vogliamo più soldi.

Allora un paio d’ore per classe, basterà lo stesso insegnante per tutta Italia, il corpo docente potrà starsene a casa retribuito a correggere i compiti che riceverà che posta. Proteste dei sindacati, non tutti i docenti dispongono  di buchetta delle lettere, questa  non è scuola, vogliamo più soldi.

Fininvest mette a disposizione Italia 1, una edizione per la scuola di Bim Bum Bam dedicata alla didattica con appena un solo spot ogni 15 minuti. Sidney Rome insegna educazione fisica, Mike Bongiorno cultura generale e Lino Banfi matematica che tanto non la capisce nessuno ma almeno così ci si diverte un po’. Proteste dei docenti, questa non è scuola, vogliamo più… ma insomma allora le riapriamo le scuole e chi lo piglia lo piglia, no no no la didattica televisiva a distanza va benissimo, poi l’abbiamo sempre detto che il pupazzo Uan è quanto di più corrispondente ci sia ad una didattica inclusiva che si faccia carico delle differenze cognitive con un approccio multidisciplinare.

Per gli universitari si ricorre alle lezioni alla radio, che fa più intellettuale, sempre che si trovi una frequenza che non è già stata occupata da Radio Maria,  gli esami si consegnano per posta, con percentuali di promossi degni della Scuola Radio Elettra.

E il telelavoro? Dopo aver fatto scorte di penne, matite, quaderni e gomme, gli impiegati di tutto il mondo si accingono a scrivere a mano ordini, fatture, ricevute. Uno per ufficio riceve una macchina da scrivere e copia anche per tutti gli altri i documenti importanti che gli vengono dettati.  Il tutto ovviamente è supportato da migliaia di invii postali, con lettere che fanno avanti e indietro tra i colleghi di ufficio che collaborano molto anche al telefono, ma occhio alle interurbane che costano.

Sul fronte degli acquisti, gli strumenti non mancano: si può telefonare all’emporio sotto casa che ha tutto, oppure ricorrere a Postal Market e Vestro: entro un paio di mesi la merce arriva a casa perché si usa la testa e ogni pacco che ti arriva è una festa.

L’unica buona nota è che sarebbe stata annullata Italia 90 e rinviata al 1991: avremmo perso lo stesso ma forse avremmo finito qualche strada in più.