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Passa a ritirare Hera

Passa a ritirare Hera. ll foglietto scritto a mano è il biglietto da visita per il Caronte che passerà a ritirare il dannato abbandonato sul marciapiede. 

 C’è il malinconico divano, ancora morbido e confortevole ma segnato in più punti e dalla pelle squarciata sul bracciolo, là dove si impigliò il bracciale della nonna, o dove il piccolo provò il coltellino svizzero dello zio. Oppure dove – perché no? – la focosa padrona di casa spinse in preda alla passione le manette del suo succube stallone.

C’è l’immancabile televisore con il tubo catodico, quella specie di imbuto dietro lo schermo che ha imperato nelle nostre vite per decenni finendo per decidere sull’arredamento, la disposizione dei mobili, l’impianto elettrico talvolta. E poi diciamocelo una volta per tutte, erano scomodi e ingombranti, non avevano la risoluzione che ci permette di ammirare il brufolo dell’annunciatrice sfuggito al fard, ma si potevano guardare da ogni punto della stanza, mentre certi schermi piatti di oggi trasformano il conduttore nel grande puffo se solo sposti di qualche grado l’angolo di visuale.

Ci sono quelle tristi librerie così divertenti da portare in casa quando sono ordinatamente separate in mensole e chiodini, come enormi sorprese dell’ovetto Kinder, che si mostrano tenacemente restie a lasciare l’appartamento una volta che vi ci sono insediate. I segni di violenza efferata di cui evidenziano le tracce non sono in questo caso frutto di anni di vita movimentata. Nemmeno la femme fatale  di cui sopra potrebbe inventarsi un siparietto erotico coinvolgendo una pudica Billy in compensato. No, quelle ammaccature sono evidenti episodi di frustrazione, scaturiti nel tentativo drammatico di traferire la libreria in una tromba delle scale che pare essersi improvvisamente ristretta.

Se fossi un ricercatore di sociologia studierei la spazzatura, i rifiuti, perché un’attenta analisi della nostra comunità fatta di consumatori prima che cittadini può partire da lì. Siamo passati in un secolo o anche meno dall’essere contadini che si scaldavano bruciando erba e foglie, perché la legna era troppo preziosa, a impiegati che buttano via armadi e salotti dopo una decina d’anni per ravvivare gli ambienti. Se i bambini del secolo scorso si costruivano i giocattoli con le scatole di latta di conserve o  acciughe sott’olio, quelli di oggi pretendono un tablet con un processore più potente ogni due anni per gli ultimi aggiornamenti di Among Us o Minecraft.

Tanto poi passa l’omino di Hera e, molto cattolicamente, lava via i nostri peccati,

L’inserimento

Immagine tratta da picjumbo
Immagine tratta da picjumbo

La parola inserimento, fino a qualche anno fa, per me era collegata soprattuto al centrocampista che si apre un varco nella difesa avversaria e chiama la palla per puntare al gol. Oppure mi faceva venire in mente un distributore di tagliandi per la sosta e le monetine da inserire.
Ai tempi del liceo si diceva fosse protetto da San Serit chi cercava di farsi spazio, anche piuttosto aggressivamente, all’interno di una conversazione, di un gruppo di amici, di una comitiva.
Oggi non è più così.
Oggi per me l’inserimento è quelle lunga, dolorosa e faticosa gimkana che ogni genitore deve affrontare prima che si aprano le porte del paradiso, con su scritto “Asilo nido a tempo pieno”. Sì perché l’inserimento è quella procedura per cui, per dare modo al piccolo di ambientarsi, si fa in modo che l’ingresso sia graduale. Un giorno, due, tre, penserete voi. Illusi. L’inserimento dura settimane, a volte mesi. Si comincia con un’ora, con la mamma, poi un’ora e mezza, poi due ore da soli, poi due ore e trantacinque, e via andare questo stillicido di orari impossibili (dalle 17 alle 18,30, dalle 9,35 alle 12, fino all’ora di pranzo ma non oltre…).
Per carità, nessuno mette in dubbio che l’ingresso non debba essere traumatico. Ma un ingresso così lento ed esasperante fa venire il sospetto maligno e infondato che il trauma vogliano evitarselo soprattutto le educatrici, che dopo due mesi di ferie non sopporterebbero di ritrovarsi i bambini tutti insieme.
Non lo so, è un mestiere delicato, sicuramente hanno ragione loro. Ma allora perché non concederci tutti un po’ di inserimento? Al rientro a settembre, per esempio, dovremmo aprire l’ufficio relazioni con il pubblico gradualmente: prima un’oretta, ma senza dipendenti, così, solo per far ambientare i cittadini, per fargli conoscere gli spazi. Poi due ore, tre ore, accettando però solo i cittadini che sono stati già in ufficio gli anni scorsi; i nuovi non possono entrare fino a ottobre inoltrato. E poi, se il cittadino dà un po’ in escandescenze (sapeste…) si telefona ad un parente e si invita a venirselo a riprendere.
Secondo me sarebbe un’ottima idea; e sia chiaro che lo faccio solo nell’interesse psico-attitudinale dei cittadini e per evitare traumi che potrebbero interferire con il loro sviluppo emotivo e cognitivo. E a fine giugno chiudiamo l’ufficio. I cittadini che insistono per ricevere i servizi possono rivolgersi sempre rivolgersi ad un campo estivo.
L’idea mi piace. Preparo un piano da sottoporre alla giunta.