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Dietro la porta colorata

Questo messaggio è rivolto a chi sa già che diventerà padre. O a chi vorrebbe diventarlo, un giorno. Ma soprattutto a chi è nel dubbio e si domanda, con tutto quello che ci succede intorno, se ne vale la pena, se ne sarà capace, se è pronto.

Ebbene, pronto no, non lo sei. Non lo sarai mai. Non lo è nessuno, perché non ci si può preparare ad essere travolti da un treno di esperienze, sentimenti e responsabilità che prima si potevano appena immaginare. Se sarai capace, lo scoprirai. Intanto però posso dirti cosa significa per me. E non lo farò con argomentazioni psicologiche, etiche o storiche. Per quelle ci sono i libri di persone molto più preparate di me.

Lo farò con un’immagine. L’immagine di una porta, di solito colorata e festosa. Dietro quella porta c’è il tuo bimbo, che disegna, colora, si picchia e si scambia liquidi biologici infetti con altri bimbi. Che sia il nido o la scuola materna, poco cambia. Quando busserai a quella porta, sentirai, tutte le volte, come la prima volta, una sensazione che le parole possono provare a descrivere, a fatica, tramite accostamenti o similitudini, ma che in sé racchiude l’essenza della paternità.

Perché aperta quella porta, tra tante testine vocianti (a meno che tu non abbia fatto di nuovo tardi, mannaggia, e allora di testina ce ne sarà una sola, e pure incazzata), ce ne sarà una a cui tieni particolarmente. E quando la maestra farà segno, quella testina si rivolgerà verso di te, ti riconoscerà, sorriderà, e ti correrà incontro a braccia aperte.

Vale la pena? Fosse solo per quel momento, caro mio, si, ne vale la pena. Perché nel primo passo che farà ci sono i libri che avresti potuto leggere negli ultimi anni, e sono lì sul comodino. Nel secondo passo ci sono le cene con gli amici che ti sei perso. Nel terzo passo ci sono i chili che hai preso perché non ti alleni più, il quarto raccoglie tutti i film che hai visto e che si fermano a qualche anno fa, nel sesto le partite di calcetto a cui non hai partecipato, nel settimo passo ci sono le occasioni di carriera a cui hai rinunciato. Per essere lì, in quel momento, per allargare le braccia e ringraziare il cielo che i passi sono otto altrimenti chissà a quante altre cose avresti dovuto rinunciare.

La paternità, secondo me, per me è tutta lì, in quell’abbraccio che ti aspetta dietro quella porta. E guarda che ci vuole davvero tanta forza, ma non per accoglierlo, quell’abbraccio, ma per rinunciarci, come magari in certi momenti hai pensato di fare tu.

Befane pelle e ossa

Avrete visto anche voi i trailer del secondo episodio cinematografico dedicato a Bridget Jones. Il primo era molto divertente, il secondo non mi attrae particolarmente, a giudicare dagli spezzoni sa di minestra riscaldata. Guardando appunto questi spezzoni, e poi le interviste alla protagonista Renée Zellweger, sono rimasto sbigottito. Il tormentone era più o meno sempre lo stesso: l’attrice, per adeguarsi al personaggio, ha dovuto ingrassare ci 15 chili, diventare cicciottella, eccettera eccetera, ma dopo la dieta è tornata in forma smagliante. A parte l’invidia nei confronti di chi riesce a gestire così bene il suo peso corporeo, sono rimasto sbigottito perché, secondo me, secondo i miei canoni di bellezza superati, arcaici, maschilisti e triviali, la Zellweger stava molto meglio prima, con i 15 chili di più. Aveva un aria più allegra, più salubre, più gioviale, e poi, diciamolo, anche delle curve più pimpanti. Era più rassicurante, materna, morbida. E poi, cicciottella, ma che cavolo dite, era appena un po’ pienotta. Volete fare il paragone con quella ragazzina striminzita, barcollante, ossutarinsecchita e tutta smagliature che si è presentata alle anteprime del film? Sicuramente oltre al dimagrimento l’aria triste era legata a qualcos’altro (credo sia in crisi sentimentale, ma non sono ferrato nel gossip), ma insomma, mi piaceva di più prima. Smettiamola con questi modelli di donne manichino, a chi piacciono?