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Va’ là va là, vieni qui, e altri tranelli per il sudista ingenuo

Una delle prime difficoltà che il sudista trasferito in Emilia deve affrontare riguarda la corretta interpretazione di alcune strutture lessicali. Per carità, non parliamo dei veri e propri problemi di lingua che un protosudista, capace magari di esprimersi solo in dialetto, poteva incontrare il secolo scorso. Si tratta semmai di piccole sfumature, artifici grammaticali che possono mettere a disagio. Sappiamo tutti che il tiro è il pulsante per aprire il cancello e il rusco è l’immondizia, sono la seconda e la terza nozione che apprende una matricola universitaria appena giunta in città (la prima è che addentare la pizza di Altero senza aver prima aspettato qualche minuto provoca ustioni di terzo grado a labbra, palato, esofago e bocca dello stomaco).

Anche i meno esperti possono dare sfoggio della loro integrazione rispondendo “altro!” al salumiere che domanda “altro?”, con vezzoso francesismo, e pazienza se il salumiere è di Battipaglia e vi prende per scemi. Qualcuno ancora può spaventarsi al telefono udendo di amici che spiegano di essersi rifatti il bulbo, ma niente trapianti di cornea, si tratta semplicemente di un passaggio dal parrucchiere.

Sugli avverbi di luogo, tuttavia, qualche perplessità può sorgere. Come tradurre infatti “Dal di lì, lui là è rimasto qua“?Dov’è esattamente, lui, sta qua? Veniva da lì? E che faceva là allora? Cosa è successo? Agli emiliano-romagnoli piace confondere le coordinate spaziali: “va là, va là, vieni qui che ti faccio vedere” capite che può essere un’espressione che genera un certo imbarazzo. Il fatto è che quello che conta non sono tanto le parole, ma il tono con cui sono espresse, e per aiutarvi dovreste farvi leggere questo articolo da un indigeno. Che potrebbe per esempio sintetizzare un “esprimi chiaramente il tuo dissenso su questo argomento, se davvero nei hai il coraggio” con un meraviglioso: “di’ mo‘”. Oppure sostituire un prolisso “vedi un po’tu quali conclusioni trarre a proposito” intonando un “fa’ te”.
Direi che come introduzione basta, bona lè.

Però se vi offrono una cicles, non rispondete che preferite andare a piedi. Trattasi di giungomma.

La pupù degli angeli

Nei ricordi del sudista al nord la neve è un ricordo sbiadito. Certo che l’ha già vista. L’ha vista tre, quatto volte. Le immagini che permeano la memoria sono quasi sempre festose e allegre: giocare a palle di neve nel cortile dietro casa, il pupazzo di neve che comincia a sciogliersi prima di arrivare alla testa, la città silenziosa popolata da persone stupefatte che guardano esterrefatte intorno a sé. Non che ciò si possa generalizzare a tutto il meridione, ovviamente; ma in un paese a una decina di chilometri dal mare per giunta surriscaldato artificialmente dal più grande produttore mondiale di inquinamento, la neve è un’evenienza singolare. Una neve leggera.

Arrivati al nord, improvvisamente, la festa finisce. Intanto perché il sudista si rende conto che qui non c’è la sospensione automatica della vita civile, con allegata chiusura di scuole, uffici, negozi. Qui la gente si ostina a uscire, lavorare, muoversi. Avevo poco più di vent’anni quando vidi sul serio la prima nevicata, quella che supera i quaranta centimetri insomma, quella che sul serio mette a nudo le tue carenze. Perché sulle prime di rendi conto di non avere scarpe adeguate, e compri degli stivali. Poi però capisci che sono i piedi a essere inadeguati, sono loro, che dopo il primo stupore, si sono resi conto che qualcosa è cambiato nelle tue abitudini, e non gli piace per niente. Ero uno studente universitario all’epoca, non che avessi questi obblighi cocenti. Avrei potuto restarmene al chiuso a studiare. Però volevo vivere quello strano spettacolo di una città che vive, fa shopping e beve aperitivi nonostante la neve, una neve sostanziosa.

E con gli anni, ho conosciuto anche la neve pesante. Quella che cominci a misurare in metri. Quella dei paesi oltre i 600 metri di altitudine che si dividono in due, gli indigeni che prendono la pala e cominciano a spalare, quelli venuti da fuori che prendono il telefono e cominciano a chiamare il sindaco perché venga a spalare. Non c’è traccia di festa, in questa neve, perché hai voglia a ripetere che è la tua scorta d’acqua per l’inverno, la verità è che le catene ai pneumatici e i pantaloni fradici toccano a te, l’acqua irriconoscente scende a valle dove i cittadini della città nemmeno sanno che ha cominciato a nevicare. Per il sudista questa neve non è simpatica per niente. Alle mie figlie piccole ho detto che è la pupù degli angeli. Perché quando ci metti otto ore con i mezzi pubblici per fare trenta chilometri, capisci che se ti si palesasse di fronte il pupazzo di neve di quando eri bambino, lo decapiteresti a testate. E ti faresti un bel bernoccolo, perché da queste parti anziché sciogliersi la neve diventa in fretta un pezzo di ghiaccio.
La buona notizia, per il sudista, è che se trova la forza di salire ancora, oltre i mille metri, la neve tornerà a essere una festa. Perché vorrà dire stazioni sciistiche aperte, turisti, denaro. Una neve massiccia come l’oro, benvenuta e invocata. Sempre che qualcuno riesca a convincere il sudista a raggiungere certe altitudini dove non crescono salvia e rosmarino e dove cercare un’orata al forno può diventare complicato.

Il clacson del sudista

volantePur rappresentando una funzione di serie su tutti gli autoveicoli, la funzione del clacson varia decisamente a seconda della latitudine in cui questo utilissimo strumento viene utilizzato. Uno dei principali ostacoli per l’integrazione del sudista è proprio legata alla comprensione che questo importante strumento di comunicazione, nelle nebbiose regioni padane, non assolve a tanti usi per i quali invece è così popolare al mezzogiorno.

Per esempio, non si usa per salutare gli amici che camminano sui marciapiedi e che prontamente rispondono al saluto del tipico doppio colpetto di clacson. Difficile comprendere quale sia la ragione per cui i padani non approfittino di questa opportunità fornita loro dalla tecnologia, ma tant’è. Probabilmente nella nebbia non sono in grado di riconoscere gli amici. Per questo motivo non si può usare il clacson, con un colpo più lungo e deciso stavolta, per richiamare l’attenzione di un amico che non si vede da tanto tempo, e che dalla segnalazione comprenderà che l’auto sta per accostarsi per una chiacchierata lampo.

Non si usa il clacson nemmeno in coda; si sa infatti quanto i sudisti amino protestare contro il traffico, i lavori in corso, la crisi economica, la disoccupazione e quel cornuto dell’autista dell’autobus strombazzando allegramente e continuamente. Operazione di nessun costrutto, che non cambia le cose, ma il sudista a cui ciò sia fatto notare potrebbe rispondere, con il disincanto tipico di queste regioni: ecco, bravo, suonare il clacson non serve a niente, non cambia le cose. Perché votare forse cambia qualcosa? Perché i partiti di destra e sinistra che si sono susseguiti al governo hanno forse modificato in meglio la nostra situazione? Almeno suonare è divertente.

In compenso nelle fredde terre del nord si è diffusa l’abitudine di suonare nervosamente se l’auto che sta davanti non scatta prontamente al semaforo verde; atteggiamento incomprensibile per il sudista che lo trova anche un po’ maleducato visto che si sa che i semafori sono dei consigli, poi sta all’autista decidere se è il caso di seguirli no. Provate a partire a scheggia con il verde in certe soleggiate località meridionali senza aver prima controllato che non stia passando qualcuno con il rosso, e farete esperienza del più rapido dei cambi di corsia, ritrovandovi direttamente in un’altra affolata corsia, quella del nosocomio cittadino.

Siamo alla frutta. O a dolce?

pranzo_servitoUno dei campi di battaglia in cui il sudista al nord si confronta (e si scontra) più frequentemente con gli indigeni padani è senz’altro la tavola. Sono tanti i motivi di dibattito, da rifiuto del meridionale di utilizzare olio che non venga dalla tanica dell’amico di papà, alla difficoltà del padano nel capire il concetto di “pasta con le patate”. Non ce la fa, l’uomo della nebbia, proprio non ce la fa. L’abbinamento carboidrato+carboidrato scardina i principi salutistici del nordista, pronto a giustificare un lipide+lipide+lipide in nome della tradizione, ma assolutamente incapace di cogliere la grandezza delle patate come condimento della pasta asciutta.

Ma il tema che oggi voglio affrontare è un altro, e riguarda la conclusione del pranzo. Si chiude con il dolce, come vorrebbe il sudista, o con la frutta, come sostenuto dalle popolazioni del grande freddo? Il nordista, come accade sovente, cerca la risposta tra i suoi libri  – nordisti –  e subito in merito cita il galateo che prevede che si serva prima il dolce. D’altronde Giovanni Della Casa era fiorentino. A parte il fatto che se fosse per il galateo dovremmo pranzare con due forchette, due coltelli, qualche molletta per le verdure e svariati cucchiai: praticamente occorrerebbe prevedere una lavastoviglie a disposizione per ogni commensale. Ma poi, qualcuno di voi sbuccia la mela con forchetta e coltello, come vuole il galateo? O prende le ciliegie con un cucchiaino, facendo attenzione a lasciar scivolare il nocciolo nel cucchiaino stesso prima di posarlo nel piatto? E allora, non tirate fuori il galateo solo per la storia del dolce, suvvia.

Da un punto di vista filologico, molto più notevole è semmai la posizione dell’indimenticabile “Il pranzo è servito”, che, a dire il vero, si concludeva con il dolce. Anche in questo caso, tuttavia, il sudista ha un’arma con cui rispondere: qualcuno di voi ha mai visto, ad un matrimonio, una macedonia nuziale? Persino il più dozzinale dei matrimoni nordisti, di quelli modelli tavola calda con antipasto frugale di mortadella e parmigiano, un solo primo (al limite un bis, ma nello stesso piatto: che scempio), un solo secondo (e non è mai il pesce), contorno e acqua naturale (succede anche questo, ve lo assicuro, succede), dicevo, nemmeno uno di quei matrimoni nordisti con pranzetto di durata inferiore alle tre ore (praticamente una merenda, per il sudista) si chiude con la frutta. E qualcuno ha mai soffiato le candeline sull’ananas? E dai.
La festa si chiude con il dolce. Prima del caffé e dell’eventuale liquorino. Se il pranzo è una festa, non si può concludere con un mandarino.

Si, lo so, il detto popolare dice “siamo alla frutta”, per indicare che abbiamo toccato il fondo. Ma è ovvio: chi è alla frutta è messo male, perché ha già capito che il dolce non è previsto dal menù.

 

La festa patronale

Festa patronale a Statte
La festa della Madonna dle Rosario a Statte, foto di Vito, tratta da http://rete.comuni-italiani.it/foto/2008/52477

Dopo Natale e appena dopo Pasqua, nelle graduatorie degli eventi importanti per il sudista, c’è senz’altro la festa patronale. Appuntamento di gran lunga più importante di altre feste quali la festa della Liberazione del 25 aprile, la Festa dei Lavoratori del Primo Maggio o del Ferragosto.

Si perché la festa patronale vuol dire luci che per qualche giorno trasformano il centro storico in una piccola Times Square, vuol dire Luna Park e mercatino, vuol dire cassa armonica con la banda del paese vicino e palco per il concertone che può portare alla ribalta artisti che Sanremo non vuole più, ma che fanno ancora la loro discreta figura.
E se finora ho fatto riferimento al profano, anche per il sacro il sudista non è meno attento, con le lunghe giornate di trekking sotto forma di processione di santi, madonne e sacri cuori, con “l’apparato” che addobba a festa la chiesa, con la messa in pompa magna, sindaco e opposizione tra i banchi e le navate per una volta gremite.

Ebbene, il sudista scoprirà ben presto che tutto ciò nelle nebbiose valli padane non esiste. Specie nelle grandi città, la festa patronale è invisibile. Niente addobbi. Niente luci. Niente strade chiuse per la processione. Se c’è, la processione, è un giretto veloce introno al duomo, altro che mitiche maratone con la statua trasportata in giro per la provincia. Niente luna park. Certo i più devoti sanno benissimo che da un punto di vista liturgico ci sono tutti i momenti di preghiera e spiritualità che si possano desiderare, ma insomma, senza ceci, lupini e cassa armonica, non è la stessa cosa.
Che fare, allora?
Molti sudisti organizzano le ferie in modo tale da essere presenti presso la diocesi natia nel momento topico; e se sono fortunati queste feste si tengono a luglio e agosto. Gli altri si convertono al buddismo, che ha una Danza del dragone niente male in occasione del capo d’anno cinese che si tiene a febbraio; oppure vagano per i piccoli paesi che, anche al di là del Rubicone, continuano a difendere una festa patronale dignitosa.
Con le luminarie (certo il consumo di watt è cinque, seimila volte più contenuto che nei centri minori pugliesi), le bande musicali (alle quali per motivi ignoti tuttavia non si concede il lusso della cassa armonica), i cantanti in declino, le processioni (senza statue, però, che tanto nella nebbia non si vedrebbero). In alcuni casi c’è persino un accenno di luna park.

C’è ancora speranza.
Soprattutto se i sudista riuscirà a farsi coinvolgere nel comitato organizzatore importando gli addobbi per la chiesa, le luminarie, la cassa armonica,  e spiegando ai parroci che una processione che non duri almeno due o tre ore non è degna di un paese civile.

La festa di compleanno nordista

Icompleannol vero rito d’iniziazione attraverso il quale il sudista al nord potrà verificare il suo grado di integrazione alle latitudini padane è inequivocabilmente rappresentato dalle feste di compleanno. Sono tanti i sudisti che non superano la prova e si rinchiudono per sempre nelle loro stanze, a osservare con gli occhi lucidi il poster del golfo di Sorrento mentre scuotono la palla di vetro con la neve sui trulli.
Il sudista, invitato ad una festa di compleanno, ragiona con il senso pratico legato a centinaia d’anni di negoziazioni con il conquistatore straniero. Io ci metto il regalo, loro ci mettono le cibarie. Lo scambio è di solito equo, perché con insolita tenacia ragioneristica il sudista calcola un preventivo delle spese che il festeggiato potrà sostenere, lo divide per il numero degli invitati che sospetta saranno presenti, e sulla base del risultato investe nel regalo.
Il compleanno di un amico per il sudista insomma è come un investimento in borsa, in cui, come insegna la teoria economica, un ruolo essenziale giocano le informazioni (dove andremo? Quanti saremo?) e l’esperienza (se va come l’anno scorso, allora come minimo devo regalargli un dvd, ma uno serio, non di quelli che danno con le riviste in edicola).
Non sempre va bene: può capitare che gli invitati siano molti, molti di più del previsto, e quindi non basterà sgomitare al buffet per recuperare la cifra inopportunamente spesa; può capitare che invece il posto sia magnifico e il cibo eccellente, e allora il sudista si sentirà mortificato del misero spargi essenze riciclato che ha portato dopo averlo incartato con i ritagli dei pacchi di Natale.
Tutto ciò, in un compleanno nordista, non vale. Intanto il sudista si rende conto immediatamente di venire invitato con sospetta frequenza e apertura: ti invita il collega del piano superiore che hai incrociato una volta alla fotocopiatrice, ti invita il vicino di cyclette in palestra, ti invita il fratello del vicino di casa conosciuto durante un’assemblea di condominio.
Altro campanello d’allarme per il sudista, che nella sua ingenuità di visitatore straniero non coglie, è che i nordisti in questi casi sfoggiano un curioso senso di condivisione, e anziché fare ognuno un regalo, ne fanno uno unico, di solito mettendo a testa un euro e 45 centesimi, due euro e dieci. Il sudista non ci sta, non vuole sfigurare, mi invitano fuori a cena, come minimo il mio regalo deve valere una quarantina di euro, sostiene. Capirà presto, l’illuso, il tranello che gli stanno giocando, in quel drammatico evento iniziatico di cui dicevamo all’inizio: alle feste di compleanno nordiste l’invitato non solo porta il regalo, ma paga pure. Vi invitano, fate il regalo, pagate.
Il nordista aperto, conviviale e socievole infatti invita cinquanta amici in un ristorante molto elegante dove cucinano il pesce migliore della città, baci e abbracci per tutti, e poi alla fine in coda a pagare ognuno per sé, o peggio ancora alla romana, con il sudista che per educazione si è trattenuto mentre il collega varesino di fronte ha finito sei piatti di scampi innaffiati con il vino più costoso della lista. Il festeggiato, è vero, qualche volta porta la torta, bontà sua.
Chi sopravvive ai primi due o tre compleanni, impara immediatamente a comportarsi con l’eleganza e il saper vivere nordista: mi dispiace, ho già un impegno (e non ho intenzione di pagarti la festa, bastardo), che peccato, sono fuori per lavoro (e comunque se devo andare fuori il ristorante me lo scelgo io), che disdetta, mi sono messo a dieta e il giovedì devo mangiare solo verdura lessa (me la ricordo, sai, quella ciambella sbriciolata che ci hai propinato l’anno scorso, e io che ho messo pure dieci euro per il regalo!). Ovviamente ciò che ho scritto tra parentesi il sudista lo pensa ma non lo dice. O forse si.