Babel

Lento come una vecchia tartaruga che si sgranchisce le gambe, pesante come una pizza con uovo tonno e melanzane fritte, insopportabile come il conoscente che ti parla di gruppi afro-jazz-funky sconosciuti e di guarda sbarrando gli occhi quando affermi di non avere idea di chi diavolo stia parlando.
MI riferisco ad un un film, lento, pesante e insopportabile: Babel. Un film che è piaciuto tanto ai critici, e che infatti ha vinto a Cannes. Ma i critici di mestiere guardano film. Finito questo ne vedono un altro. Loro non hanno l’angosciante consapevolezza di aver sprecato due ore e mezza della nostra breve volatile vita aspettando una cacchio di ambulanza che non arriva mai in uno sperduto villaggio del Marocco.
Per carità, capisco che ai critici sia piaciuto. Già sento le loro vocì: osserva il lento movimento della macchina che accompagna il distaccamento dell’uomo e ne evidenzia lo stato confusionale. Apprezza il cromatismo così freddo e blu in alcuni momenti e così intensamento rosso e avvolgente in altri. Apprezza la fotografia che ritaglia i personaggi come se fossero sagome su uno sfondo che non gli appartiene. Cogli i riferimenti colti e incrociati che sottolineano i parallelismi tra storie di identità lontane e pure così intrinsecamente legate. E via discorrendo. BALLE.
Mi piace il cinema d’autore, un film può anche essere lento, senza però stritolare, maciullare e compirmere fino allo spasimo i testicoli dello spettatore. Ti sto dedicando due ore e mezza di vita, regista d’autore dei miei stivali, meritateli, invece di indulgere su un panorama desertificato come lo stato d’animo di un io distante che piace tanto ai critici ma a me mi fa cadere le braccia a terra.
E non solo quelle.