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La colpa è sempre del Comune

Mancano poche ore alle agognate vacanze. Devo chiudere un paio di pratiche, inviare qualche e-mail, preparare tutto per il rientro. E devo farlo in fretta. Una collega mi chiama. Ha dei problemi con una password. In quei casi, la tentazione di rispondere con un “leggiti il manuale”, o “chiama l’assistenza” o “adesso non ho tempo” è forte. Però decido per un giorno di dismettere l’abito da burbero e faccio il gentile, vado nel suo ufficio, sistemo il problema che è relativamente semplice, la collega mi saluta sorridente, nel mio piccolo le ho risolto la giornata. È bastato così poco.
Quando alcuni anni fa cominciai a lavorare a Monzuno, proprio quella collega con lo stesso sorriso affettuoso, di fronte alle proteste a volta immotivate dei cittadini, mi ricordò che “I den semper la colpa alla C’muna” (è sempre colpa del Comune).
Una frase che ho portato con me e che porterò ancora oggi che quella collega non potrà più ricordarmela.
Cara Maria, quando scherzavamo dicendo che non saremmo mai andati in pensione, non pensavo certo che saresti stata di parola. Mi consola solo saperti vicina alle persone cui hai voluto più bene e che tanto ti mancavano.
Non sarà certo un’odiosa password o un sistema informatico complicato a impedirti l’accesso dove andrai ora. E sono contento di essere stato gentile con te l’ultima volta che ci siamo visti.

Siate sempre gentili con gli altri, se ci albeririuscite. Perché non è detto che ci sia sempre una possibilità per rimediare.
Ciao Maria. Danno sempre la colpa al Comune.
Ma io e te sappiamo che non è vero…

Morti che parlano

È vero, siamo pieni di morti che parlano.
Ci parlano con coraggio nel buio ci certe sere malinconiche quando contando i passi che ci separano da casa ripensiamo a quei cento passi che Peppino Impastato percorse a testa a alta a Cinisi. Perché per noi mafia e antimafia non sono proprio la stessa cosa.
Che_GuevaraI nostri morti ci parlano con lucidità quando rileggiamo le parole di Pierpaolo Pasolini, ucciso due volte, prima a bastonate e poi nella memoria di chi ha voluto infangare la sua storia, spaventato dall’idea che la diversità possa essere così normale.
I nostri morti ci parlano con rabbia quando ripercorrendo sentieri appenninici risentiamo gli sforzi eroici dei partigiani della Stella Rossa impegnati contro un nemico troppo più grande ma non per questo meno determinati. Perché per quanto ci impegniamo noi non riusciamo a trovarci niente di buono nel fascismo che forse aveva a cuore certe famiglie ma di certo non quelle di contadini ed operai.
E li sentiamo eccome le urla a Portella della Ginestra, dove i nostri undici morti (tra cui due bambini) ancora oggi chiedono chi può essere così vile tra sparare sulla gente in festa per la vittoria alle elezioni del Blocco del popolo. Ed è un morto che parla anche Placido Rizzotto, un sindacalista della CGIL ucciso per il suo impegno a favore dei contadini, lui che sì, credeva che i sindacati servono eccome, anche se voi altri vorreste sbarazzarvene con metodi certo meno cruenti ma altrettanto risoluti.
Ci sono morti viventi, si perché per noi sono ancora vivi, che parlano da tanto tempo e altri che invece hanno cominciato a parlare in tempi recenti, come Angelo Vassallo, un ambientalista vero che mai si sarebbe presentato al Quirinale in suv.
Siamo pieni di morti che parlano, ma anche se imperterriti continuate a insultarci noi non risponderemo perché l’istinto di mandarvi a quel paese è frenato dal ricordo di quell’uomo che disse beati i miti, anche se, non abbiamo dubbi, voi in piazza gli avreste preferito Barabba.
E se pure continuerete a ripetere che è tutto uguale, che non ci sono differenze, noi continueremo a preferire Berlinguer ad Andreotti, Obama a Bush, Che Guevara a Valerio Borghese. Perché sono le loro voci a tenerci svegli e all’erta, non certo le vostre battute volgari.
Perché i nostri eroi vengono uccisi, e con loro le loro idee di pace, libertà, uguaglianza.
Ma dopo risorgono più forti di prima.

Buona Pasqua,
Speriamo di uscire dal buio e tornare a rivedere le stelle, prima o poi. Quelle vere.

Lavorano gratis da mesi. Non lasciamoli soli

Non so se vi è mai capitato di entrare in un ambiente dov’è possibile avvertire un rumore, come un treno o un automobile. Dopo alcuni minuti, quel rumore non lo sentite più. Oppure vi sarà successo di indossare un capo di biancheria e avvertirne il contatto sulla pelle: dopo pochi istanti, anche quel contatto non lo percepite più. È il nostro cervello che disabilita automaticamente quelle percezioni continuative ma povere di informazione che altrimenti ci farebbero impazzire. E meno male che dopo un po’ ci abituiamo persino a certi odori in autobus, ma un po’ più a fatica.

Alcuni vorrebbero che accadesse così anche per i fatti che riguardano le persone che ci stanno intorno. A furia di sentirli ripetere, alla fine non ci facciamo più caso. Ci anestetizzano, e dopo un po’ l’evento “perde di notiziabilità” come dicono gli esperti di media, e non se ne parla più.  A Roma da molti mesi migliaia di dipendenti di alcune cliniche private romane (Idi Irccs, Villa Paola e Ospedale San Carlo di Nancy) stanno lavorando senza prendere lo stipendio.

Una di queste è una mia amica che con i suoi colleghi si sta battendo perché le vengano riconosciuti i diritti più essenziali, il diritto alla retribuzione.

Se accedete al sito dell’Ospedale San Carlo vi chiedono se volete prenotare una visita e si tessono le lodi di quella che era, anzi è, un’eccellenza nel sistema sanitario italiano, con centinaia di posti letto e all’avanguardia nella cura di tante malattie. Però un box in homepage ricorda anche che “la Provincia Italiana della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, quale Ente cui fa capo l’Ospedale San Carlo, è stata ammessa alla procedura del concordato preventivo(…)”Insomma, ad un passo dal baratro finanziario.

La vicenda è troppo complicata per essere raccontata qui, e poi non avrei gli elementi per farlo. Già il fatto che una congregazione religiosa gestisca delle aziende sanitarie private, a me, cattolico praticamente, non mi entusiasma. Che poi le faccia fallire, e porti alla disperazione lavoratori che dimostrano una professionalità straordinaria continuando a lavorare gratis, è veramente intollerabile. Invece di riempirsi la bocca di parole sulla famiglia, perché certi prelati non fanno un esame di coscienza sullo stato in cui stanno riducendo le migliaia di famiglie dei dipendenti di questi istituti gestiti da religiosi? Se io fossi papa venderei seduta stante un po’ di argenteria intanto per pagare i debiti, almeno quello. Poi si cerca di rimediare agli errori, ma intanto rimettiamo i nostri debiti. Ma tanto io papa non lo sono, e anzi nel mio modesto punto di vista di laico ricordo che i farisei volevano buttare Gesù giù dalla montagna perché non amavano quello che diceva loro. E se una volta l’ha scampata alla fine sappiamo com’è andata a finire.

Però queste cose devono fare rumore, e dobbiamo sentirlo questo rumore. Il cervello non può e non deve disattivarlo. Perché è un grido assordante, un tanfo che rende l’aria irrespirabile, un capo di biancheria pieno di spine che dovrebbero farci gridare in difesa di quei lavoratori, e di tutti quegli altri in giro per il nostro disgraziato paese, che hanno perso il lavoro anche se lavoravano bene eccome.

PS I lavoratori del San Carlo hanno creato una pagina su Facebook. Credo che il minimo che si possa fare è cliccare su “mi piace”, per farli sentire meno soli. Anche se no, non ci piace per niente che si debba lavorare gratis.

Odio gli indifferenti

Il logo del Comitato 16 novembreÈ vero, abbiamo raggiunto un livello di barbarie. E non certo perché i magistrati hanno condannato chi sappiamo per evasione fiscale (anche Al Capone fu fermato così)…Il fatto è che ci sono notizie che dovrebbero occupare i titoli dei giornali, farci scendere in piazza, farci gridare che così non si va avanti, e invece vengono relegati in qualche notiziario locale o qualche sito di volenterosi.

Io ho solo questo blog, e nel mio piccolo faccio in modo di dare visibilità a questa notizia: 70 malati di sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica) sono in sciopero della fame da una settimana per chiedere che il governo stanzi i soldi che ha promesso per il piano per l’autusufficienza. La sla è una malattia devastante, che costinge alla completa paralisi i malati che dipendono in tutto e per tutto dall’assistenza di chi gli sta accanto, malati che solo grazie a costose tecnologie riescono a comunicare con il mondo che li circonda. E noi vogliamo fare spending review su queste persone? E soprattutto, vogliamo rimanere indifferenti mentre queste anime straziate rinunciano al sostentamento perché qualcuno si ricordi di loro?

E noi ce ne rimaniamo indifferenti, a discutere di ricchi che non si possono tassare perché sono gi unici che spendono, come dice Confindustria,  mentre la casta blocca i tagli alla politica per continuare a sguazzare nell’ingordigia più vomitevole?

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. (…) Antonio Gramsci

 

Grazie Cardinale

Il tramontoC’è un libro che, come si suol dire, ha cambiato la mia vita. Non è un romanzo, non è un libro di poesie, forse non è nemmeno un libro: È “Il lembo del mantello”, la lettera pastorale che il Cardinal Martini scrisse nel 1992 e che io lessi un po’ di tempo dopo. Ero un liceale indeciso sul mio futuro, allora: mi affascinavano le materie sociali di stampo psicologico anche se in maniera fumosa, mi appassionavano le nuove tecnologiche e l’informatica anche se i linguaggi di programmazione mi sembravano troppo aridi, mi sembrava che ingegneria ambientale suonasse bene anche se un po’ troppo ingegneria e un po’ troppo poco ambiente, le mie capacità di favella  mi portavano a non escludere giurisprudenza.

Poi lessi “Il lembo del mantello”.

In quel testo il Cardinal Martini trattava il tema della comunicazione, che, ricordava, aveva molto in comune con la parola “comunità”. Proprio come il lembo del mantello di Gesù, che una donna malata tocca tra la folla ottenendo, grazie alla sua fede, la guarigione, gli strumenti di comunicazione di massa (allora si chiamavano ancora così) rappresentavano per Martini uno strumento umile, che talvolta striscia per terra aggiungo io, ma che può farsi strumento di salvezza. Fui letteralmente folgorato, decisi che mi sarei occupato di comunicazione, che si poteva cercare una strada in questo settore anche senza avere ambizione di diventare showman o veline (non c’erano ancora, ma il concetto sì: anzi, visto che siamo in tema di comunicazione, c’era la sostanza e in parte la forma del contenuto ma ne mancava l”espressione).

Non mi dilungo oltre su quella meravigliosa lettera che ho scoperto essere stata pubblicata integralmente dall’ordine dei giornalisti della Lombardia, per cui vi consiglio di leggerla. In seguito anche un mio docente universitario prematuramente scomparso, Mauro Wolf, ci consigliò di leggerla accanto ai manuali di giornalismo e sociologia.

Ebbi modo di sentirlo parlare di persona nel 1997 a Parigi, dove tenne una lectio divina durante la giornata mondiale della gioventù, ed è inutile dire che è uno dei ricordi più intensi di quella esperienza. Definirlo “progressista” rispetto al “conservatore” Ratzinger è sicuramente limitativo: diciamo che Martini aveva il dono di farsi comprendere ed amare da tutti, mentre forse per capire il Papa attuale bisogna avere determinati strumenti (di cui io sono privo, per intenderci). Chissà cosa sarebbe successo se fosse diventato papa lui, si dice che alla prima votazione abbia ottenuto più voti di Ratzinger ma che abbia chiesto di non essere votato perché già gravemente ammalato di Parkinson. Ogni volta che qualche comportamento nella gerarchie ecclesiastiche o nel Vaticano mi turbava, andavo a leggere le sue parole e mi tiravo su. Ossigeno puro in mezzo a scarichi maleodoranti.

Adesso non c’è più, un’altra finestra da cui scorgere la luce dello spirito santo si è chiusa. Grazie per quello che ci hai dato, Cardinale. Speriamo che si aprano in fretta altre finestre, le tenebre incombono quaggiù.

L’involuzione della specie

Mi è capitato di ascoltare una persona di una certa età del piccolo paese dove lavoro, Monzuno, dove come nella maggior parte delle località appenniniche e non in questi giorni sta nevicando moltissimo, tra le proteste del popolo dei “io pago le tasse” che passa la domenica pomeriggio a guardare le partite in tivù e domani griderà perché il Comune non gli spazzato il marciapiede sotto casa. A parte che ho l’impressione che chi di solito chi rivendica con aggressività di pagare le tasse spesso dimentica di pagarne una parte, , perché invece noialtri dipendenti preferiamo non evocarle nemmeno. Ma questa è un’altra storia.

Raccontava, dicevo, che quando era piccolo lui non c’erano certo gli spalaneve (in queste ore a Monzuno ne operano 14, tanto per dare un’idea, e costano almeno un centinaio di migliaia di euro alla collettività). C’erano alcuni agricoltori che avevano
dei trattori da adattare, erano due o tre al massimo: bisognava aspettare che smettesse di nevicare, affinché si predisponesse il trattore, e dopo un giorno o due quelli cominciavano a spalare. Eppure nessuno blaterava di tonnellate di sale da spargere (che distrugge le strade e a temperature sotto zero non serve, ricordiamolo) o peggio ancora di composti chimici inquinanti per sciogliere la neve.
Nessuno gridava che è uno scandalo, che è una vergogna, che così non si va avanti, impugnando il telecomando in una mano e la birra nell’altra.
Perché erano uomini, quelli lì, che si tiravano su le maniche e si davano da fare, e in mano avevano la vanga, e non lamacchina fotografica con cui andare in giro a fare foto da pubblicare su Facebook.  Erano uomini cui la guerra aveva insegnato a battersi in prima persona senza aspettare che qualcun altro lo faccia per te.
Erano uomini (e donne!) che si preoccupavano di come stessero i bambini, e non di trovare ossessivamente qualcuno a cui sbolognarli visto le scuole chiuse, erano uomini che rispettavano la Natura e i suoi cicli e non cercavano di stravolgerla per adattarla agli orari del loro aperitivo.
La strada vicino casa mia è piena di neve e in macchina non ci si muove, e io in questi giorni mi sto alzando poco dopo le cinque per andare al lavoro con i mezzi pubblici, facendo un paio di chilometri a piedi, e ci ho messo anche cinque ore per tornare a casa. Nel mio piccolo è il contributo che sto dando al rispetto della natura, il mio modo di sentirmi uomo, perché penso che sia meglio spendere i soldi pubblici per gli ospedali, gli asili e le biblioteche, piuttosto che per garantire il diritto a prendere la macchina in qualunque situazione. Quando sento le persone che arrivano in Comune per protestare perché c’è la neve sul cassonetto vicino casa loro, e nessuno glielo ripulisce, e loro pagano le tasse!, allora capisco che Darwin aveva ragione, ma non aveva previsto l’inversione del suo piano: siamo in piena involuzione.
I discendenti di quelli che protestano continueranno a protestare, ma avranno una clava, in mano, e non un cellulare con fotocamera.