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Syriana

Girato in maniera asciutta, netta, privilegiando un approccio episodico talvolta un po’ ostico ma affascinante , Syriana è un film agghiacciante, soprattutto alla luce di quello che sta accadendo in questi giorni in Libano. Un film corale che, dietro la tranquillizzante professionalità di Hollywood, i volti noti di Clooney e Dillon, le apparenze di un thriller di fantapolitica, nasconde una denuncia estrema, nitida, perentoria, di gran lunga più violenta di certi ripetitivi slogan noglobal. Un film da vedere, nonostante un po’ di sadismo compiaciuto e il costante rischio di cadere nel luogo comune (le villette a schiera degli impiegati americani della CIA, il principe arabo buono con gli occhi azzurri, la moglie saggia del giovane yuppies). Molto bello il personaggio minore dell’avvocato di colore con padre alcolizzato ma, forse, più vigile di lui.

Sin City: quando si dice un fumettone


Frank Miller è un ottimo autore di fumetti americani che, visto il livello medio (Muoviti SuperCiuk, non c’è molto tempo! Dannazione Uomo Gommalacca, stavolta non mi avrai!) si è convinto di essere Dante.
Ha scritto una graphic novel (gli americani chiamano così i fumetti lunghi: allora Tex dovrebbe essere un graphic poem) che non giudico perché non l’ho letta, e ne ha tratto un film che giudico perché l’ho visto, Sin City, la città del peccato.
Non solo, Francuzzo ha pure preteso di intervenire sulla regia. Il risultato è un polpettone indigesto di due ore di squadrismo machista e sgangherato, infarcito di frasi fatte e scene pulp già (teste mozzate che esplodono, amputazioni di genitali, torture). Il direttore della fotografiaja scoperto che in digitale si possono colorare solo alcuni elementi e lasciare in bianco e nero il resto, e ripete entusiasta il trucchetto per due ore, come un ragazzino con la playstation nuova.
Dovrebbe esserci lo zampino di Tarantino, ma non c’è traccia di ironia (a parte due gangster con la fissazione dell’eloquio, completamente fuori contesto). La violenza di Tarantino è catartica, i suoi duri sono una caricatura di certi atteggiamenti da american hero. Qui no, Miller si prende maledettamente sul serio, il suo qualunquismo fracassone centrifuga pedofili e senatori corrotti, poliziotti che sfruttano le prostitute e sicari sadici, con una costruzione ad episodi della storia che, oltre ad essere poco adatta al cinema, alla fine lascia solo una sosddisfazione, quella di vedere sbudellati Vinicio Del Toro, Bruce Willis, Eliah Wood e tutti gli altri interpreti: così imparano a girare filmacci come questo.

Arrivederci amore ciao

Uno pensa: che bello, finalmente un film italiano nero, tenebroso, uno fuori dai soliti schemi della commedia con la crisi generazionale. Poi guarda "Arrivederci amore ciao" e si rende conto che se gli italiani fanno sempre commedie un motivo ci sarà.  Per comprendere il film bisogna tenere presente che il regista Michele Soavi è stato aiuto regista di Dario Argento. Ora, l’aiuto regista è uno che guarda il maestro, cerca di rubargli i segreti del mestiere e magari gira anche qualche scena, quelle più piatte che il boss non ha voglia di curare. Spesso i grandi registi sono stati prima ottimi aiuti; altrettanto spesso, però, questi ultimi dei grandi rubano soprattutto la tecnica ma non l’estro. Michele Soavi è uno convinto che la differenza tra fiction e cinema consista nel fatto che i film possono essere infarciti di soggettive inutili, inquadrature sghembe, artifici sonori e giochi di luci da spot pubblicitario dozzinale. La conseguenza è la continua rottura della sospensione dell’incredulità, perché appena lo spettatore sta per immegersi nella storia ne viene risucchiato fuori da un fuoco d’artificio del regista che gli ricorda "ehi ehi sono qui, ci so fare con la cinepresa eh?". Soavi ha fatto tanto fiction e sente il bisogno di sfoggiare la sua creatività, ma il risultato è un polpettone squilibrato nella sceneggiatura, impregnato di qualunquismo moralista, che si regge in piedi solo grazie alla bravura degli attori (soprattutto Michele Placido, fantastico, mentre Boni è fuori parte e Isabella Ferrari una bellezza sprecata). Il ritmo si regge solo grazie a massicce di violenza brutale, belle canzoni di sottofondo e la cara voce fuori campo, salvagente di sceneggiatori in crisi. In conclusione, ci auguriamo che Soavi torni a fare della fiction, dove certe libertà non gli sono concesse, mentre noi preferiremo ricordare "Insieme a te non ci sto più" per l’immensamente più degno "La stanza del figlio".

Il dottor T e le donne

La mano di Altman si nota immediatamente nella coralità di un film che conferma Richard Gere nel ruolo di "amato tra le donne" ma per una volta ne fa una vittima piuttosto che un manipolatore. Nei quartieri altolocati di una Dallas vitale e metereologicamente imprevedebile il vecchio maestro del cinema americano distilla con sapienza le sue gocce di veleno nei confronti di una società vuota, frenetica, dove ci si parla solo per telefono e dove si fa fatica ad accettare di essere quello che si è.
 Il dottor T del titolo, ginecologo di fama, scoprirà quanto complicato è l’universo di sua moglie, delle sue figlie, delle sue colleghe e delle sue amiche, con qualche lungaggine di troppo (specie le scene nello studio del dottore sanno un po’ troppo di misoginia) e un finale catartico e di speranza, dopo tanta amarezza.
 Dopo tutto, nonostante le nostre meschinità – e quelle delle donne – la vita continua.

La terra

Rubini torna ancora una volta nella natìa Puglia teatro di molta della sua produzione cinematografica per ambientare "La terra", forse la sua opera più matura. Accanto alla capacità registica di raccontare il paesaggio con inquadrature che sottolineano senza marcare troppo il territorio e alla indiscutibile capacità di guidare gli attori (persino Violante Placido in passato è sembrata un’attrice sotto la sua direzione), finalmente Rubini trova anche una sceneggiatura solida, che ha ritmo, i tempi giusti, e non sbanda mai come talvolta accadeva nei film precedenti. La storia è quella di un professore che da anni vive a Milano che torna a casa, a Mesagne, per quella che sembra una formalità : la vendita della proprietà dei genitori, la terra del titolo, appunto.
Il bravo Bentivoglio da solo è sintomo di serietà del progetto, poi qui è accompagnato da un gruppo di bravi attori tra cui quell’Emilio Solfrizzi che dà il meglio di sè  quando può tornare a esprimersi con la comicità un po’ amara alla Sordi che è nelle sue corde, libero dallo sforzo di coprire la mimica e l’accento che invece caratterizzano alcune sue nefandezze televisive. Indovinatissimi gli elementi di contorno (la politica ridotta a farsa, la religiosità un po’ magia un po’ superstizione, la piccola odiosa malavita di periferia, il volontariato come unica possibilità di riscatto dell’uomo di oggi), il film sarebbe stato perfetto se non fosse stato per una post-produzione apparsa un po’ distratta: il montaggio non è esente da errori ma soprattutto il commento musicale è troppo carico, ridontante, ossessivo, fastidioso. In alcuni momenti verrebbe voglia di abbassare il volume.
Ma siamo al cinema e il telecomando, purtroppo o per fortuna, non c’è.

The interpreter

Non è facile coniugare un thriller che rispetta fedelmente i canoni del genere (ritmo, suspence, intrigo) con un tema sociale di difficile gestione come la situazione politica in certi stati africani. Ci voleva il genio di Pollack e la bravura di due attori del calibro di Sean Penn e Nicole Kidman (quest’ultima molto più a suo agio nel ruolo di terzomondista impegnata e idealista che in quella di femme fatale che le hanno affibbiato ultimamente). Penn è una maschera di sofferenza e rabbia soffocata, capace di raccontare con uno sguardo a mezz’asta la disillusione di un uomo ad un bivio; la Kidman è bella come sempre ma anche misteriosa e affascinante. Un film da vedere, insomma, in cui niente è scontato (e mi fermo qui per non fare dello “spoiling” come si dice adesso), e la cura maniacale dei dettagli realizza un affresco che si dipana davanti a noi un po’ per volta lasciandoci, negli ultimi passaggi, un briciolo di sana incaxxatura, come ogni film che racconta una realtà scomoda dovrebbe fare.