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L’ora del mistero. Come tornare bambini di fronte a una serie che ha fatto la storia

Avevo una decina d’anni, la televisione d’estate di solito non proponeva granché, a parte i Giochi senza frontiere e le solite commedie con Bud Spencer. Però quella sera la guardai, evidentemente non avevo nulla di meglio di fare, in prima serata su Rai Uno. Trasmisero un breve film di 70 minuti talmente claustrofobico e angosciante e con un finale così stupefacente, che non ho fatto che pensarci per anni. Magnifico.

Però noi non avevamo Internet né servizi streaming, e anche i videoregistratori sarebbero arrivati tempo dopo. Per cui solo la memoria poteva fissare l’emozione, e magari la condivisione il giorno dopo con qualche amico che avesse visto lo stesso programma. Potete immaginare la sorpresa e l’entusiasmo di riscoprire quel breve film su Prime Video, rendermi conto che si chiamava “Un gioco da bambini” e che faceva parte di una serie di 13 episodi prodotti per la tivù inglese a metà degli anni Ottanta, indipendenti uno dall’altro, intitolata in italiano “L’ora del mistero”. Il nome inglese “Hammer House of Mystery and Suspense” forse dirà qualcosa agli amanti del genere horror, visto che la Hammer Productions è una celebre casa di produzione che nel secondo dopoguerra ha realizzato decine di film (di qualità spesso discutibile) con Dracula e Frankenstein. La mano della Hammer si sente in questa serie, è inevitabile. Uno dei cliché più ripetitivi è quello dell’incredulo, il personaggio cioè che di fronte a fenomeni paranormali nega fino alla fine, e di solito non è una bella fine. Poi ci sono le corna, tante corna, quasi in ogni puntata. L’altro, che a me ha fatto sorridere, è il fatto che prima o poi le protagoniste (bellissime) vengono colte nel sonno in sottoveste e devono fuggire o correre mostrandosi in abbigliamento intimo. Alla Hammer piacevano certe situazioni pruriginose che oggi troviamo ridicole ma all’epoca evidentemente erano il massimo che si potesse chiedere a una serie televisiva in prima serata. Sul fronte tecnico, abituati come siamo a effetti speciali, uso spericolato della fotografia, inquadrature originali, sappiate che la regia è spesso più piatta delle ripresa di uno spettacolo parrocchiale (con diverse valide eccezioni), i colori sono quelli di una serie tivù di quaranta anni fa e il doppiaggio di tanto in tanto si perde la traduzione italiana: non litigate con il telecomando, è proprio la versione online ad avere qualche carenza.

Detto ciò, ecco di seguito i miei commenti alla serie, episodio per episodio: a parte le donne in sottoveste, si spazia dall’horror allo spionaggio, dalle storie di fantasmi al giallo più tradizionale, cercando sempre il colpo di scena finale. Purtroppo “Un gioco da bambini” è l’unico veramente straordinario; degni di nota anche “Salto nel tempo” dello stesso regista, il grottesco e stralunato “Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers?” e soprattutto “Un grido lontano”. Per gli altri c’è molto mestiere, a volte talento, a volte né l’uno né l’altro. Ecco in ogni caso gli episodi con il mio voto, evito ovviamente di anticipare i finali che spesso presentano colpi di scena interessanti.

  1. Il marchio del diavolo. Voto: 3

Uno dei peggiori della serie, superato solo dal leggendario “Il campo da tennis”, davvero non capisco la sequenza scelta dai produttori perché immagino che molti spettatori abbiano abbandonato dopo questo episodio. Il protagonista è Sberla dell’A-Team (sì d’accordo l’attore ha un nome ma per la mia generazione è Sberla dell’A-Team), che fa il piacione squattrinato. A causa di una sua cattiva azione, un misterioso tatuaggio comincia a espandersi sul suo corpo. Dopo la buona idea iniziale l’episodio scivola verso il finale più scontato e prevedibile della serie.

  1. Il video testamento. Voto: 6

La trama sembra uscita da una commedia con Nando Buzzanca e Renzo Montagnani: un anziano è sposato con una giovane bellissima che però trova sollazzo con carni ben più giovani. Non tutto andrà come previsto. C’è il tema della tecnologia che oggi risulta obsoleta ma che all’epoca doveva destare una certa inquietudine (videocamere e registrazioni che torneranno anche nell’Eredità Corvini), c’è una cattiveria di fondo che però non disturba, anzi solletica il sadismo dello spettatore. Mistero però poco.

  1. Accadde a Praga. Voto: 6,5

Episodio abbastanza insolito, visto che siamo nel mondo delle spy-story, con una suggestiva ambientazione nella Praga sovietica. Una donna si ricongiunge con l’ex marito che la porta con sé per un viaggio di lavoro a Praga e poi sparisce. Che ne è stato di lui? Un po’ piatto come giallo, dalla storia ingarbugliata per non dire confusa, che però si riscatta con un finale inatteso.

  1. Un grido lontano. Voto 7

Bellissima ambientazione in un hotel sulla scogliera, dove una coppia di amanti si rifugia al riparo dal marito di lui. Un uomo misterioso però spia la donna. Chi è? Il suo amante stesso, invecchiato e moribondo, che ritorna dal futuro per comprendere quello che da allora lo angoscia. E in un ribaltamento spazio temporale tipico della fantascienza ecco che il destino dell’uomo del futuro è segnato proprio dal suo viaggio nel tempo. Qualche ingenuità di troppo tipica della serie che non vi svelerò, ma merita.

  1. La defunta Nancy Irving. Voto?

Il più misterioso di tutti, visto che da Prime Video è scomparso. Non c’è. Evidentemente non sono riusciti a recuperare una versione qualitativamente decente del video, o più probabilmente del doppiaggio.

  1. Salto nel tempo. Voto 8

Come anticipato, questo è un altro episodio che con un uso sapiente di rallenty, soggettive, colpi di scena e musiche di commento in alcuni momenti riesce davvero a mettere paura. Una coppia sta per lasciare l’appartamento a Londra per trasferirsi all’estero a causa del lavoro di lui, ma l’ultima notte una serie di apparizioni li fa cadere nella più profonda angoscia. Che siano fantasmi? Che si tratti di un appartamento stregato? Attendete il finale per scoprirlo, ma godetevi anche il resto.

  1. Che fine hanno fatto i favolosi Verne Brothers? Voto 7,5

Sicuramente il più “Hammer” episodio della serie, perché qui c’è veramente di tutto, omicidi, misteri, necrofilia, villaggi dannati, personaggi fuori di testa, musica rock. Mescolato in maniera a volte arbitraria ma proprio per questo ancora più divertente. Uno scrittore e una giornalista devono scoprire cosa è successo ai Verne Brothers, coppia di musicisti di successo scomparsi anni prima, di cui nessuno sa più nulla. C’è la nebbia, il paesino abbandonato, il finale teso anche se un po’ prevedibile. Come verosimiglianza siamo a livelli bassi, ma cosa importa? Un episodio che sarebbe piaciuto a Shalaman, e chissà che non l’abbia visto.

  1. Il dolce profumo della morte. Voto 6,5

Eccoci di nuovo nell’ambito del giallo più classico. C’è una dimora di campagna isolata (un elemento classico della serie) e una donna perseguitata dal suo passato. C’è un marito preoccupato ma molto preso dalla sua vita professionale (è un politico), c’è un finale coerente e credibile. Più Jessica Fletcher che mistero, a dirla tutta, ma si lascia guardare.

  1. L’uomo che dipinse la morte. Voto 7

Come sempre i titoli in italiano svelano più di quanto non dovrebbero. Però se vi dico che c’è un pittore che dipinge la sua morte non svelo troppo, perché è proprio questo l’incipit della storia. Un artista si finge morte perché i suoi quadri acquistino valore, nel frattempo la moglie si distrae con il commerciante d’arte e scopre che spassarsela con lui mentre il marito dipinge chiuso nella soffitta non è poi così disdicevole. Interessante la critica del mondo dell’arte, belli anche i quadri anticipatori, unico elemento paranormale estraneo alla solida costruzione gialla, il problema dell’episodio è il finale: se di solito sono il punto di forza dell’Ora del mistero, questo invece è veramente scontato.

  1. L’eredità Corvini. Voto 7

Forse il più cinefilo episodio della serie, tra Hitchcock, De Palma, Polansky e Cronenberg, girato molto bene anche se decisamente lento e in alcuni momenti addirittura noioso. Forse è il più profondo ma non necessariamente il più appassionante. Come al solito finale sorprendente anche se dalla collana maledetta mi sarei aspettato qualcosa in più.

  1. La parete maledetta. Voto 5

I temi cari all’horror ci sono tutti. La setta satanica, la chiesa maledetta, il dipinto nascosto. E poi la bella funzionaria che crede nel paranormale, i costruttori preoccupati del rispetto dei tempi (ma quando mai? In Inghilterra, forse, in Italia dopo il primo omicidio avrebbero chiuso il cantiere per cinque anni almeno), il giovane che fa disegni misteriosi e inquietanti. Il tutto però è parecchio raffazzonato, tirato via, gli attori recitano sopra le righe, la regia ha un’unica buona idea, quella del dipinto satanico che non riusciamo mai vedere se non per qualche macchia di colore.

  1. Un gioco da bambini. Voto 10

Non vi dirò assolutamente nulla. Dovete guardarlo e basta. Capolavoro.

  1. Il campo da tennis. Voto 2

Purtroppo il finale crolla nel comico involontario. In assoluto il peggiore episodio della serie, ha tutti i difetti della Hammer (donne svestite e sin troppo libertine, trucchi splatter di pessima fattura, paranormale di bassa lega, risparmio sui costi) senza avere quel mistero che invece caratterizza altri episodi. Qui a essere maledetto è un campo da tennis, ma lo spirito che vi aleggia non è quello di un morto, ma di un vivo che ha in parte abbandonato il suo corpo (e già qui…). Nonostante le palline sanguinantI e i rumori notturni, il capannone però non ha il fascino di una vecchia magione o di una cantina dimenticata.  Il finale da esorciccio poi davvero non si può guardare, nonostante il successivo tentativo di ribaltamento, ancora più irritante. Vi dico solo (e pazienza se faccio un po’ di spoiler, questo film va visto per quanto è brutto, la trama non c’entra) che in pieno stile Ed Wood, la trama si sposta tra il presente e il passato: ma mentre il protagonista, per rendere la storia più credibile, è interpretato da due attori diversi, uno giovane e l’altro anziano, gli altri due per risparmiare sono interpretati dagli stessi attori a cui aggiungono giusto qualche capello bianco. Argh!

Pietoso a dir poco, per non parlare dell’esperto di paranormale, il peggior personaggio dell’episodio, della serie, del cinema di tutti i tempi forse. Ammazza che zozzeria.

Mockumentary, che paura

Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione
Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione

Se oggi mi occupassi di comunicazione a livello accademico sicuramente sarei interessato al mockumentary, e in particolare a quello che fa uso di falsi found footage. Se infatti la semiotica è una teoria della menzogna, quale migliore strumento per decriptarne i meccanismi?
Ma per fortuna io non sono un professore e quindi scendo precipitosamente di livello esibendomi in questo post.
Intanto chiariamoci subito: dietro i paroloni anglosassoni che ho sparato per darmi un tono c’è una pratica che non è per niente nuova nell’ambito della creatività umana.

Il mockumentary infatti altro non è che un documentario falso, e il found footage è quel genere cinematografico caratterizzato dal montaggio di spezzoni di altri filmati. Vi ricordate i Promessi Sposi? O se avete ripudiato gli studi scolastici, avete letto Cervantes? Ebbene, in entrambi i casi (ma fu Manzoni a ispirarsi a Don Chisciotte, essendogli posteriore) il romanzo si basa sulla trascrizione di un presunto manoscritto ritrovato dall’autore. In fondo si tratta di un innocuo gioco letterario, un espediente attraverso il quale l’autore giustifica una ricerca stilistica non attuale, e prende la distanza dalla storia per avvicinarsi astrattamente al lettore, che finge di affiancare nella lettura di questo manoscritto ritrovato. Nessuno ci crede da vero, e tutto finisce lì. Nel mockumentary però le cose stanno diversamente. Il mockumnetary infatti dichiara di essere vero, e spesso fa uso di trovate commerciali che rafforzino questa impressione. L’esempio forse più famoso è The Blair Witch Project, la storia di tre ragazzi che fanno una brutta fine in un bosco (ops, che brutto spoiler) ricostruita partendo da presunto materiale ritrovato. Materiale falso, che però un abile campagna pubblciitaria che anticipa l’uscita del film fa credere vero. Complice la facilità di diffusione delle bufale tramite il web prima e in maniera esponenziale con i social network poi, il giochino funziona maledettamente bene. Sia perché siamo abituati a credere al paratesto che anticipa e chiude il film (quello per intendere che sottotitola “Tratto da una storia vera” o che alla fine del film ci racconta come hanno continuato la vita i personaggi). Sia perché il cinema è sospensione dell’incredulità, e allargarla un po’ al di là dei confini tradizionali in fondo ci piace.
Un caso più recente di mockumentary è “Il quarto tipo”, altro film horror che a parte una sceneggiatura sgangherata con un paio di momenti di ridicolo involontario, porta all’esasperazione in maniera interessante questo concetto. Basato su studi documentari, recita già la locandina. Un altro horror, che racconta di rapimenti da parte di alieni, perché in effetti le finte immagini di repertorio recuperate, con i colori slavati di un vhs e l’inquadratura un po’ sghemba mettono decisamente paura. Mi fanno paura certi superotto anni settanta di parenti e amici, figuriamoci uno costruito per spaventare. Ma la domanda da ricercatore, se fossi un ricercatore – e qui ci infilo anche una riflessione morale e forse moralistica – è: è corretto tutto ciò? In altre parole, è giusto ingannare lo spettatore in maniera così spudorata? Ci deve essere un confine oltre il quale dire: ok, finora abbiamo scherzato, adesso siamo seri? Io credo di no perché porre limiti all’arte è inutile oltre che rischioso, eppure il dubbio, silenzioso, strisciante, rimane. Non è che a furia di guardare documentari falsi, ci verrà il dubbio che anche quelli su Auschwitz, per dirne una, siano costruiti? Non è che, abituati al cinismo con cui guardiamo il filmato dell’uomo sulla luna (un caso straordinario di mockumentary), finiremo per non credere nemmeno a chi racconta, a rischio della propria vita, i conflitti in giro per il mondo?
Non lo so, non voglio trovare risposta. Ma se c’è qualcosa che davvero mi ha angosciato de “Il quarto tipo” non è l’innocuo lungometraggio, ma o spaventoso dibattito che si è aperto tra le persone sane di mente che hanno visto un film mediocre e chi sostiene che è tutto vero e che sono la CIA, gli uomini in nero, il complotto sionista e i templari a tenerci tutto nascosto perché noi non dobbiamo sapere. Ecco, sono quelli lì che mi spaventano davvero, non i mockumentary.