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Arrivederci professore. Deve ancora farmi quella domanda…

Umberto Eco il giorno della mia laurea15 settembre 1994.
Dopo una notte passata in un albergo di via Galliera a Bologna, un giovane pugliese alle prime esperienze “da grande” si aggira sperduto nei pressi di un freddo piazzale in viale Berti Pichat. La città l’ha lasciato un po’ perplesso, non è proprio bella come se l’aspettava ma d’altronde ha visto stazione, via Galliera di sera e i viali, ed è un po’ prematuro da parte sua esprimere un giudizio. Una folla di altri giovani alle prime armi come lui chiacchiera nel piazzale. Sono centinaia. E non sono tutti: le domande per accedere al test di selezione di Scienze della Comunicazione sono state più di 4000, i posti sono 150. I test sono stati organizzati in diverse strutture. Il giovane pugliese è affascinato dalla potenza organizzativa dell’Università più vecchia del mondo, se pensa che lui al liceo faceva ginnastica all’aperto solo nei giorni di bel tempo, quasi ha un mancamento di fronte alla grandezza che gli si propone innanzi. Una voce lo scuote da suoi sogni, è una persona che riconosce: è Umberto Eco, il professor Umberto Eco, che si avvicina e chiede: ragazzi, ma è qui che si tiene il test per scienze della Comunicazione?
Il giovane pugliese pensa allora che tutto sommato anche la potenza nordica di Bologna mostra qualche limite. Ma tanto lui sa che quel test non lo passerà mai, non ha nemmeno preso 60 alla maturità, è qui solo per farsi un’idea, punta semmai di essere ammesso a Siena.
Estate 1996
Il professor Eco è seduto in fondo alla stanza, gioviale e chiacchierone come sempre. Spiega che ha letto la tesina che il pugliese e un amico romagnolo hanno predisposto, è un ottimo lavoro, diligente e accurato. I due hanno analizzato un ipertesto sul processo di Norimberga, prodotto su floppy-disk (floppy-disk!)  e i loro commenti sono tutti a segno. L’esame di semiotica del testo sembra indirizzato ad un successo. La sua assistente Giovanna Cosenza interviene: si, il lavoro è accurato, però, però. Però non esageriamo. Non è che i due abbiamo scoperto la ruota. Non bisogna essere di manica troppo larga. C’è un attimo di dibattito, il pugliese è concentrato per trattenere lo sfintere e le altre funzioni vitali che in quel momento lo avvicinano all’uomo primordiale, che evacuerebbe e scapperebbe via. Sembra ci si indirizzi verso il trenta. Il professore alza gli occhi verso i due, e lancia la sfida. Facciamo così: vi faccio una domanda. Se rispondete bene, 30 e lode. Se sbagliate 28. Altrimenti ve ne andate con un 30. Lascia o raddoppia, insomma. Solo che il Mike Bongiorno in questione non è uno qualunque. Farsi interrogare da lui in semiotica è come rispondere ad una domanda di Dante sulla poesia medievale, o di Einstein in fisica teorica. I due giovani si guardano per un millesimo di secondo, allungano il libretto quasi in contemporanea. Il trenta andrà benone.
Caro professore, non saprò mai cosa ci avrebbe domandato, e se saremmo stati in grado di risponderle. Porterò sempre con me un suo insegnamento: essere colti non vuole dire conoscere la risposta ad ogni domanda. Essere colti vuol dire sapere in dieci minuti dove trovare la risposta a quella domanda. Tanto è vero che ai suoi esami scritti si potevano consultare i libri. Con Wikipedia e gli smartphone, che allora non c’erano, forse potremmo ridurre quei minuti a cinque.
Io però quel giorno non credo che sarei stato in grado di risponderle nemmeno dopo dieci ore. O forse si. Magari questo me lo dirà la prossima volta che ci vedremo.

Potrei ancora raccontare della mia seduta di tesi, quando, appena entrammo, il professore si accorse della presenza di mia cognata, che allora era una bimba di otto anni, e mi domandò a brucia pelo: abbiamo appena discusso una tesi su Satanik. La prego, mi dica che la sua non ha temi affini, perché vedo che ci sono minori tra gli astanti. Oppure di tutte le volte che la lezione finiva all’una ma lui rimaneva sull’uscio fino all’una e quaranta per rispondere a tutte le domande che noi giovanotti curiosi gli ponevamo.

Ma il messaggio finale in realtà voglio lasciarlo a tutti coloro che svolgono il prezioso e delicato incarico dell’insegnamento: che voi siate insegnanti in una scuola primaria o docenti universitari, che il vostro sia uno stipendio da titolare di cattedra o facciate fatica ad arrivare a fine mese, non liquidate in fretta le domande dei vostri allievi. Non trascurateli perché vi sentite superiori. Non irritatevi nei momenti di stanchezza. Voi potete davvero incidere nell’esistenza dei vostri allievi. Proprio come il professore fece con la mia.

Questo non dimenticatelo mai.

Mockumentary, che paura

Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione
Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione

Se oggi mi occupassi di comunicazione a livello accademico sicuramente sarei interessato al mockumentary, e in particolare a quello che fa uso di falsi found footage. Se infatti la semiotica è una teoria della menzogna, quale migliore strumento per decriptarne i meccanismi?
Ma per fortuna io non sono un professore e quindi scendo precipitosamente di livello esibendomi in questo post.
Intanto chiariamoci subito: dietro i paroloni anglosassoni che ho sparato per darmi un tono c’è una pratica che non è per niente nuova nell’ambito della creatività umana.

Il mockumentary infatti altro non è che un documentario falso, e il found footage è quel genere cinematografico caratterizzato dal montaggio di spezzoni di altri filmati. Vi ricordate i Promessi Sposi? O se avete ripudiato gli studi scolastici, avete letto Cervantes? Ebbene, in entrambi i casi (ma fu Manzoni a ispirarsi a Don Chisciotte, essendogli posteriore) il romanzo si basa sulla trascrizione di un presunto manoscritto ritrovato dall’autore. In fondo si tratta di un innocuo gioco letterario, un espediente attraverso il quale l’autore giustifica una ricerca stilistica non attuale, e prende la distanza dalla storia per avvicinarsi astrattamente al lettore, che finge di affiancare nella lettura di questo manoscritto ritrovato. Nessuno ci crede da vero, e tutto finisce lì. Nel mockumentary però le cose stanno diversamente. Il mockumnetary infatti dichiara di essere vero, e spesso fa uso di trovate commerciali che rafforzino questa impressione. L’esempio forse più famoso è The Blair Witch Project, la storia di tre ragazzi che fanno una brutta fine in un bosco (ops, che brutto spoiler) ricostruita partendo da presunto materiale ritrovato. Materiale falso, che però un abile campagna pubblciitaria che anticipa l’uscita del film fa credere vero. Complice la facilità di diffusione delle bufale tramite il web prima e in maniera esponenziale con i social network poi, il giochino funziona maledettamente bene. Sia perché siamo abituati a credere al paratesto che anticipa e chiude il film (quello per intendere che sottotitola “Tratto da una storia vera” o che alla fine del film ci racconta come hanno continuato la vita i personaggi). Sia perché il cinema è sospensione dell’incredulità, e allargarla un po’ al di là dei confini tradizionali in fondo ci piace.
Un caso più recente di mockumentary è “Il quarto tipo”, altro film horror che a parte una sceneggiatura sgangherata con un paio di momenti di ridicolo involontario, porta all’esasperazione in maniera interessante questo concetto. Basato su studi documentari, recita già la locandina. Un altro horror, che racconta di rapimenti da parte di alieni, perché in effetti le finte immagini di repertorio recuperate, con i colori slavati di un vhs e l’inquadratura un po’ sghemba mettono decisamente paura. Mi fanno paura certi superotto anni settanta di parenti e amici, figuriamoci uno costruito per spaventare. Ma la domanda da ricercatore, se fossi un ricercatore – e qui ci infilo anche una riflessione morale e forse moralistica – è: è corretto tutto ciò? In altre parole, è giusto ingannare lo spettatore in maniera così spudorata? Ci deve essere un confine oltre il quale dire: ok, finora abbiamo scherzato, adesso siamo seri? Io credo di no perché porre limiti all’arte è inutile oltre che rischioso, eppure il dubbio, silenzioso, strisciante, rimane. Non è che a furia di guardare documentari falsi, ci verrà il dubbio che anche quelli su Auschwitz, per dirne una, siano costruiti? Non è che, abituati al cinismo con cui guardiamo il filmato dell’uomo sulla luna (un caso straordinario di mockumentary), finiremo per non credere nemmeno a chi racconta, a rischio della propria vita, i conflitti in giro per il mondo?
Non lo so, non voglio trovare risposta. Ma se c’è qualcosa che davvero mi ha angosciato de “Il quarto tipo” non è l’innocuo lungometraggio, ma o spaventoso dibattito che si è aperto tra le persone sane di mente che hanno visto un film mediocre e chi sostiene che è tutto vero e che sono la CIA, gli uomini in nero, il complotto sionista e i templari a tenerci tutto nascosto perché noi non dobbiamo sapere. Ecco, sono quelli lì che mi spaventano davvero, non i mockumentary.