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Giù le mani dal trailer

Credo sia arrivato il momento di fare una riflessione su un genere poco considerato, ma che invece richiede competenza, attenzione e cura: il trailer cinematografico. Se c’è un motivetto che tutti possiamo legare a un ricordo di infanzia, secondo solo alla sigla di Novantesimo Minuto, è proprio quello di “Appuntamento al cinema”, il programma Rai che presenta una serie di trailer. Torno a usare il termine inglese, sapete che non amo particolarmente l’uso di parole straniere ma in questo caso “anticipazione” fa sorridere, “promo” sa di televendita, “traino” mi ricorda un carretto per non parlare del termine “provino” che usavano i nostri nonni sbagliando, per giunta, perché un provino è un’altra cosa. Ci sarebbe anteprima, ma viene usata spesso per indicare un prodotto che anticipa sì il film, ma magari durante le fasi di produzioni, con il backstage, le prime immagini dal set. Qualcosa di meno codificato insomma di quei tre minuti che tutti, con buona pace dell’Accademia della Crusca (sempre sia lodata) chiamiamo trailer.

Il trailer deve incuriosire, stuzzicare, provocare forse, insomma mettere voglia di andare a vedere il film al cinema. È uno dei pochi prodotti cinematografici per i quali non solo tollero la voce fuoricampo, ma addirittura la auspico: serve eccome, perché ovviamente quando il regista ha pensato al film non ha potuto prevedere quegli elementi di collegamento necessari a tenere insieme pochi spezzoni. Uno dei maestri nel realizzare i trailer secondo me è Carlo Verdone, che talvolta girava dei veri e propri mini film per presentare il suo lavoro, con scene non presenti nella pellicola stessa. Il guaio di Verdone, semmai, è che è talmente bravo a realizzare i trailer che di solito li arricchisce di quattro o cinque sequenze comiche che ahimè alla fine si rivelano essere gli unici momenti autenticamente divertenti del film.

Ma perché faccio questa riflessione? Perché se da un lato i trailer continuano a godere di ottima salute (in particolare nelle arene estive finché il sole non tramonta e il barista non serve l’ultimo panino si va avanti con la programmazione di  tutta l’estate e se non basta anche dell’autunno), dall’altro ho scoperto con sgomento e raccapriccio che le società di streaming o non li pubblicano (è il caso di Disney Plus), o ne creano una versione loro, sulla base di non si sa bene quale scelte (mi è successo con Netflix), oppure, e qui siamo allo scempio più assoluto, con il trailer ti raccontano mezzo film (Prime Video è colpevole di questa spregevole scelta criminale). Davvero, se vi capita fateci caso, magari con un film noioso che non avete intenzione di guardare: l’anteprima della piattaforma di Bezos sceglie le sequenze in ordine, dall’inizio alla fine, per cui più che un trailer è un bignamino del film. Ripeto: perché? State forse pensando a film a velocità 2x, come i messaggi whatsapp (che detesto a qualunque velocità, amici sappiatelo, io i messaggi li cancello quasi sempre perché se mi graffiate l’auto con gessetto mi irritate meno)? Avete trovato un algoritmo che seleziona le scene e ne infila una ogni dieci? Fate fare il trailer a uno stagista con un dottorato in filmologia francese che non sa usare Adobe Premiere? Smettetela subito. Io voglio il trailer originale, quello passato al cinema, quello che ho visto nelle arene estive (chissà perché arrivo sempre in anticipo e me ne sorbisco quaranta alla volta).

Altrimenti me lo cerco su Youtube, e voi lo sapete che se comincio così passo la serata a vedere video di gol del Taranto degli anni Novanta, corsi di pronuncia in inglese e recensioni di dispositivi tecnologici che non potrò mai permettermi e ciao film su Prime Video.

Noiosa da morire. Recensione della fiction di Rai Uno con Cristiana Capotondi

Amo particolarmente le serie televisive, soprattutto quelle brevi: capolavori di scrittura come Modern Love, dall’impatto visivo notevole come The Loop, spassose e irriverenti come Good Omens, persino dai risvolti insospettabilmente profondi come The Good Place (viste tutte su Prime Video). Per non parlare dei classici come la Signora in Giallo o delle indimenticabili situation comedy come Friends, How I met your mother, The Big Bang Theory. Se il format era già vincente di per sé, perché per esempio con una miniserie si può raccontare un romanzo in maniera più rispettosa che in un film, perché la durata è più flessibile,  oggi con le tv via streaming il successo è diventato dirompente. Penso, per citarne solo alcune, a Stranger Things, Arsenio Lupin, La Regina di Scacchi e Black Mirror di Netflix. Senza contare che la Marvel edizione Disney userà sempre di più questo strumento, come ha già fatto con Wanda Vision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier.

Questa lunga e fondamentalmente inutile premessa (ma il blog è lo spazio delle inutili divagazioni che non mi posso permettere né da addetto stampa né da romanziere) serve solo ad attestare che le serie mi piacciono, ma soprattutto mi piace parlare di quelle riuscite male. Perché tanto le stroncature sono un genere che i giornali non possono permettersi più (chi lo sente poi l’editore), al massimo se qualcosa non ti piace non ne scrivi.  E invece io ne voglio scrivere eccome.

La stroncatura di oggi è dedicata alla fiction (chissà perché usiamo questo termine inglese che gli inglesi non usano) “Bella da morire” di Rai Uno. Perché ho cominciato a guardarla? Perché noi italiani con le serie balbettiamo un po’, per carenze di risorse e di scrittura, scivoliamo troppo spesso nella sciatteria. Non siamo capaci per esempio di scrivere serie comiche (e dire che nel cinema invece è un genere in cui eccelliamo),  i tentativi di situation comedy sono tutti facilmente dimenticabili. Lasciamo perdere poi il fantasy o la fantascienza, lo storico è spesso limitato ad agiografie di santi religiosi e laici. Nel poliziesco, però, abbiamo una certa competenza. Anche perché gli sceneggiatori possono saccheggiare da una letteratura piuttosto ricca e variegata: facile citare Andrea Camilleri con il suo immortale Montalbano, ma anche l’ispettore Coliandro di Carlo Lucarelli è da anni un cult. Tra gli ultimi arrivi l’Imma Tataranni di Mariolina Venezia e l’Alligatore di Massimo Carlotto. Poi capita però che qualcuno scriva storie originali per la tivù. Insomma, dopo aver visto un bel film del regista, Andrea Molaioli, che si era fatto apprezzare per le atmosfere da thriller nordico de “La ragazza del lago“, ho voluto provare.

Ed è arrivato il patatrac.

Bella da morire” è una serie in otto puntate basata su un soggetto che avrebbe potuto reggere al massimo un lungometraggio di un’ora e mezza, due al massimo. C’è un omicidio, le indagini, un paio di false piste, il colpo di scena. Però mamma Rai ci tiene a fare un prodotto “educational” contro la violenza sulle donne, e allora dacci dentro con monologhi moraleggianti, dati e statistiche sul femminicidio snocciolati in dialoghi surreali. E poi tante sottotrame sentimentali, troppe.
Un lago c’è anche qui, e anche una ragazza: peccato però che Cristiana Capotondi, la protagonista, ricordi il primo Clint Eastwood dei western di Sergio Leone, quello che per intenderci aveva solo due espressioni: con il cappello e senza. Solo che nel caso in questione non c’è neanche il cappello, e la protagonista si limita a sbarrare gli occhi tutto il tempo, probabilmente esterrefatta dalle battute che è costretta a recitare. Intorno a lei altri attori che abbiamo amato in altre serie: la Buffa e Gambero di Coliandro (Benedetta Cimatti e Paolo Sassanelli) l’Alligatore (Matteo Martari), persino una bellissima Lucrezia Lante Della Rovere che ha fatto tanto teatro e ci tiene che gli spettatori se ne accorgano.

Siccome i primi piani agli occhioni della poliziotta non bastano a riempire otto episodi, gli sceneggiatori si inventano improbabili sottotrame sentimentali per allungare il brodo. Intanto c’è la banalissima storia della protagonista con l’ispettore bello e tenebroso (con un passato opaco). Non solo: quasi tutti gli altri interpreti meritano una sottotrama: la sorella della protagonista ha la sua  complicata storia di ragazza madre, il padre ha problemi con il vicino, il procuratore capo (pure lei!) non sa scegliere tra amante e marito, il medico legale soffre per un amore impossibile. Per non parlare della famiglia della vittima. Il povero regista cerca di arrabattarsi con lunghe inquadrature del suo amato lago, aiutato da una buona fotografia, la disperazione lo porta persino a infilarci un paio di scene di sesso passionali quanto una puntata delle previsioni del tempo, ma alla fine sembra stufo anche lui.

C’è addirittura chi minaccia una seconda serie. Con la prima ho raggiunto il bonus noia per i prossimi dieci anni, non ci ricascherò. Cari sceneggiatori italiani, ce l’avete Netflix e Prime Video? Ecco, dateci un’occhiata. Imparare da chi è più bravo è segno di intelligenza.