Nelle case dei nostri nonni c’era sempre un angolino dedicato ai defunti. Magari una mensola con una candela e qualche fotografia in bianco e nero, a volte un mobiletto dedicato, si trattava di uno spazio privato, riservato, dedicato alla spiritualità, per chi credeva, o semplicemente al ricordo, per tutti gli altri.
Si trattava di un’eredità antica: i romani, nelle loro domus, riservavano uno spazio all’ingresso per una edicola dedicata ai lares familiares, gli antenati che vegliavano sui membri della famiglia come divinità protettrici.
Gli altarini sono scomparsi, soppiantati da televisori sempre più grandi, librerie ricolme di soprammobili e qualche volta libri, armadi ipertrofici. Però negli ultimi anni un nuovo tipo di angolino si sta formando nelle abitazioni di tutti: è l’angolo della videoconferenza. Sempre di una corresponsione di amorosi sensi si tratta, ma stavolta non sempre amorosi, visto che non comunichiamo con entità sovrannaturali, ma con gli altri condomini, i parenti di giù, i colleghi in ufficio.
Anche nelle case più disordinate e sfatte, quelle in cui se entra un rapinatore se ne va perché capisce che qualcuno l’ha anticipato, c’è un angolo in cui la famiglia mantiene l’ultimo barlume di dignità, offrendo ai videoconferenzieri una vista linda e serena. Sullo sfondo I libri vanno per la maggiore, c’è gente che ha recuperato persino i manuali di scuola guida con la Fiat 128 in copertina pur di riempire quelle mensole vuote. Ma anche i fiori di plastica, sono apprezzati, come le pretenziose stampe di sconosciuti paesaggisti ottocenteschi. I più audaci azzardano una finestra: dà sul giardino di quell’antipatico del vicino ingegnere, ma tanto chi glielo deve dire al prof di matematica che quel verde non è il nostro?
Nemmeno gli effetti digitali introdotti dalle varie software house che si occupano di videconferenze, quelli sfondi artificiali che ci proiettano in un’isola tropicale o in una navicella spaziale, hanno avuto un grande successo, dopo un inizio promettente. Un po’ per gli effetti indesiderati che fanno sparire il braccio dell’interlocutore o gli fondono per un attimo la testa con il tramonto sul mare. Un po’ perché lo pensiamo tutti, dai: cos’hai da nascondere, dietro quello sfondo fittizio? Il tuo cane che cerca di accoppiarsi con l’appendiabiti? I resti della pizza con cui hai cenato ieri sera? I tuoi calzini sporchi lasciati sulla sedia? Cosa vuoi occultarci alla vista?
Speriamo tutti di metterci la pandemia alle spalle, ma sono sicuro che l’angolo per le videoconferenze rimarrà. Perché diciamoci pure la verità, la didattica a distanza è stata un incubo, ma le assemblee di condominio online si reggono meglio. Per non parlare dei colloqui con i professori: i più fortunati e scaltri, dal vivo, riuscivano a incontrarne al massimo 4, 5 forse, perdendo interi pomeriggi nel corridoio. Online riesci a parlare persino con l’insegnate di religione e con quello di educazione fisica, se proprio ci tieni.
Ho riscoperto persino i corsi di inglese, grazie all’online. Conversare con un brasiliano e una rumena sotto la supervisione di un insegnante a migliaia di chilometri di distanza all’inizio può risultare straniante, ma davvero vi sollevereste dal divano per andare in centro e ripetere il present perfect? Non credo proprio. Non ora che abbiamo un angolino così ben arredato.
Se i miei genitori volevano sapere come mi era andata a scuola, me lo dovevano chiedere, e fidarsi delle mie parole. Almeno fino al giorno del colloquio con i professori. Quel giorno si sarebbero messi in coda pacificamente, selezionando con attenzione le file per evitare magari di passare il pomeriggio ad aspettare il turno, vittime della logorrea dell’insegnante di italiano, mentre gli altri raccoglievano soddisfatti i bollini del professore di disegno o musica. Alla peggio si poteva fare un salto anche dal docente di educazione fisica, giusto per dargli una pacca sulle spalle e dimostrare che lo si riteneva un essere umano come gli altri, o addirittura da quello di religione. Opzione questa indispensabile, per le famiglie come la mia, se l’insegnante era un sacerdote verso il quale sarebbe stato insostenibilmente scortese non fare una capatina.
Fareste mai progettare un ponte ad un bambino di 12 anni? Chiedereste ad una studentessa di terza media, magari la prima della classe, non dico di no, di preparare un composto per curare l’influenza? E vi fareste redigere la dichiarazione dei redditi da un gruppo di ragazzini durante il doposcuola? E allora perché, santa miseria, perché pensate che i bambini di scuola media siano adatti a disegnare loghi? La comunicazione è una scienza, che richiede studi, competenze ed esperienza proprio come la medicina, l’ingegneria o quella roba che fanno i commercialisti. E certo le conseguenze non sono immediate come per un ponte che crolla o una colossale multa tributaria, ma a lungo andare i loghi brutti che ci circondano hanno un effetto tipo le polveri sottili. Non te ne accorgi ma alla lunga ti avvelenano.
I compiti a casa non sono solo l’incubo degli studenti. Sono anche l’ossessione dei giovane papà, che nel fine settimana vorrebbe rilassarsi un po’, mettere il naso fuori casa, divertirsi, e invece se ne sta lì, accigliato, di fronte alla durissima poesia senza rime che occorrerà imparare questa volta, e che gli riempirà buona parte del week-end. Avete presente il momento in cui ti arriva una raccomandata verde, e il cuore sembra rallentare fino quasi ad arrestarsi mentre fai mente locale cercando di ricordare se e quando avresti potuto prendere una multa? Oppure quello in cui ti affrettavi nei corridoi del liceo cercando i famigerati “quadri”, l’esposizione al pubblico ludibrio di un anno di fatiche?
Non mi è mai piaciuto fare i compiti. Andare a scuola era un dovere, magari noioso, ma, con i limiti della maturità che può avere un bambino, ne comprendevo l’utilità. Ma i compiti no, i compiti erano un’invasione dei miei tempi che tolleravo a fatica.