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Il silenzio di Suviana

Avvicinarsi a Suviana vuol dire avventurarsi in un viaggio nel silenzio più profondo. Perché se c’è qualcosa di peculiare di queste vallate, di questo bacino costruito dall’uomo per accendere le lampade in città, di questo spazio verde ai confini dell’Emilia-Romagna è proprio il silenzio. Persino d’estate, persino quando le famiglie frequentano la spiaggetta per mangiare al fresco, persino quando gli appassionati di sport acquatici indossando le loro mute per veleggiare lontano, persino allora il silenzio ti avvolge e ti invita alla meditazione.

Però non può passare in silenzio la morte di sette persone. Una morte che speriamo sia stata rapida e indolore, perché per associare un’esplosione, un crollo e un allagamento ci vuole una mente capace di andare oltre l’orrore.

Sette tecnici venuti da lontano che in fondo a quel pozzo hanno concluso la loro esperienza di vita, senza neppure il tempo di voltarsi indietro a salutare. Perché uno che va a lavorare non lo mette in conto di poter morire. Per carità, forse gli astronauti, i piloti di competizioni automobilistiche, qualche pensiero cupo in fondo alla coscienza ce l’hanno: ma non è un caso che si tratti di esperienze al limite e peraltro tendenzialmente ben remunerate, anche se poi non c’è compensazione che tenga in caso di morte. Ma quei tecnici avevano chiacchierato in pausa pranzo, parlato magari del campionato di calcio o delle vacanze da pianificare, qualcuno avrà accennato forse al collaudo della turbina, chissà. Magari c’era quello vegetariano che ha chiesto se si poteva avere una piadina senza affettato, quello che mostrava le foto dei nipoti nel cellulare, quello che preferiva stare leggero sennò poi sai che sonnolenza.
E non ci sono più.

In attesa che si chiariscano le cause dell’incidente, che gli inquirenti facciano il loro lavoro, aboliamo per favore la parola fatalità. Il fato non c’entra. Se il cuore ti si ferma mentre dormi e però da anni tu non facevi delle analisi per controllare le tue condizioni, non è una fatalità, è noncuranza. Se la tua automobile esce fuori di strada sotto la pioggia perché hai i pneumatici consumati non è fatalità, è imprudenza. Se il tuo medico non si accorge di una malattia e ti rimanda a casa e poi muori, non è una fatalità, è incompetenza.
Anche per i mestieri più complessi ci deve essere una accurata valutazione dei rischi, una prudente stima delle possibilità che qualcosa possa andare storto, e una analisi fatta con competenza. Perché se di Suviana si è parlato tanto, è perché sono morte sette persone insieme. Per quanto sia cinico dirlo, la verità è che se fossero morte in sette posti diversi, non ne avrebbe parlato nessuno. Perché muoiono lavorando più di mille persone l’anno, tre al giorno.

Non solo per le comunità di provenienza dei lavoratori, ma anche per la comunità di Camugnano sono stati giorni molto dolorosi, vorrei mandare un abbraccio a tutti loro. Ahimè gli abitanti da quelle parti ormai sono così pochi che potrei davvero abbracciarli tutti uno per uno e non metterci troppo tempo: ma mi limito a un sostegno fatto di parole, che sono gli strumenti a me più consoni.

Ancora una volta, come così spesso mi è capitato di scoprire lavorando da quelle parti, la gente scopre l’Appennino solo in caso di tragedie. Ma l’Appennino è molto altro. Suviana è un posto meraviglioso che invito a visitare a chiunque cerchi un po’ di tranquillità e meditazione.
Un posto dove deve tornare a regnare il silenzio della pace, non quello della rassegnazione.

Morire sul lavoro non è una fatalità, è una vergogna.

Amatevi e godetevi il viaggio

Sarebbe bello se, nel momento del dolore più acuto per una perdita imprevista, ci fosse qualcuno che ti dicesse: non preoccuparti del resto, ci penso io. Cura le tue ferite dell’anima, che se non disinfettate diventano purulente come le altre.

Una specie di assistenza post funebre che ti accompagni negli adempimenti successivi.

Che io sappia tutto ciò non esiste, anche perché la burocrazia in tanti casi non ammette deleghe: sei tu che devi firmare, tu che devi muoverti tra marche da bollo, dichiarazioni e fotocopie dei documenti del tuo caro, tu devi chiedere, tu devi agire. Sei tu che devi rispondere all’operatrice telefonica per dire che si, il numero di cellulare vuoi disattivarlo subito anche se hai pagato fino a fine mese, perché tanto lo sai che a quel numero non ti risponderà più.

Sei tu che devi esibire l’estratto dell’atto di morte a destra e manca come se non bastasse la tua faccia a dimostrare quello che stai passando.

Il momento per me più difficile di questi giorni, tuttavia, non è legato alla tradizionale sceneggiatura funebre. La camera ardente, i fiori, i messaggi, le telefonate, fanno parte di un percorso che ti aspetti.

Il momento più difficile è stato quando l’addetta delle Ferrovie dello Stato (peraltro con molto garbo e tatto) mi ha chiesto di tagliare la tessera di viaggio di mio padre e mandargli una foto dopo.

Per papà sono esistiti fondamentalmente quattro universi: la famiglia, la sua comunità di amici, l’arte e la ferrovia. Tagliare quella tessera è stato per me come sancire l’addio: se non c’è più il ferroviere in pensione, non c’è più Tonino, non c’è più papà.

E comunque l’ho fatto, mi consola sapere che quando verrà il mio momento basterà non pagare più la tassa dell’ordine per annullare il mio tesserino da giornalista.

Adesso però, basta malinconie. La vita è come un treno, c’è chi sale e chi scende.

Celebrerò il ricordo di papà canticchiando una delle canzoni che intonava accompagnandoci al mare, quando l’autoradio non esisteva.

“Azzurro
Il pomeriggio è troppo azzurro
E lungo per me
Mi accorgo
Di non avere più risorse
Senza di te
E allora
Io quasi quasi prendo il treno
E vengo, vengo da te
Il treno dei desideri
Nei miei pensieri all’incontrario va”.

Amatevi e godetevi il viaggio perché non si sa quando scenderemo.

Imparare ad essere maschi

Se inviti una donna a uscire fuori, sei il solito maschio aggressivo che vede le donne come prede.
Se aspetti che una donna ti inviti a uscire fuori, sei un pesce lesso.

Se  ceni fuori con una donna e ti offri di pagare, hai un secondo fine.
Se  ceni fuori con una donna e proponi di pagare ognuno per sé, sei un taccagno.

Se apri lo sportello dell’auto a una donna, sei un damerino.
Se non apri lo sportello dell’auto a una donna, sei un cafone.

Se non dai una mano con i lavori di casa, sei un maschilista spregevole.
Se fai tu i lavori di casa, non sei un vero uomo.

Se ti piacciono le automobili e lo sport, sei uguale a tutti gli altri.
Se non ti piacciono le automobili e lo sport, che problema hai?

Se richiedi il congedo di paternità sei un lavativo.
Se non richiedi il congedo di paternità sei ossessionato dal lavoro.

Se guadagni più della tua compagna, non è perché sei bravo, ma perché sei favorito in quanto maschio.
Se guadagni meno della tua compagna è perché non sei bravo.

Se non ti piacciono i bambini, non sei in grado di avere una famiglia.
Se ti piacciono i bambini… Davvero ti piacciono i bambini? Oddio che schifo, quelli come te dovrebbero essere fucilati in piazza.

La parità dei sessi è un obiettivo da raggiungere prima possibile, ma – in minima parte – anche i maschi subiscono la cultura maschilista.

Una donna casalinga è una vittima.
Un uomo casalingo un mantenuto.

Se non bevi, non fumi e stai attento all’alimentazione sei una fighetta.
Se bevi, fumi e mangi qualunque cosa sei un ribelle.

Se una donna indossa giacca e cravatta è originale.
Se un uomo indossasse un tailleur … Vabbe’.

E infine.

Se un criminale infame bastardo ignobile abietto indegno uccide una donna, anche noi in fondo abbiamo qualcosa in comune con lui, diciamocelo.
Dovremmo vergognarci. Dovremmo scusarci. Perché mai? Perché siamo maschi? Siamo una specie di unicum indistinto, un enorme organismo pluricellulare, anzi pluripatriarcale?

Ogni anno in Italia oltre cento donne vengono uccise dai loro compagni, ex-compagni o parenti. Una cifra mostruosa. Molte di più subiscono discriminazioni a scuola, sul posto di lavoro, a casa.
Se vogliamo veramente sconfiggere questa cultura patriarcale, dobbiamo prima di tutto insegnare ai maschi qual è il loro posto nel mondo. E ricordarlo alle donne.

A oltre quarant’anni dal testo di Teorema di Herbert Pagani, sembra ancora sia ancora difficile distinguere gli uomini per bene, che amano i bambini, fanno la spesa, a volte offrono il pranzo, altre volte se lo fanno offrire, bevono con moderazione e magari non conoscono la regola del fuorigioco dagli altri, i veri sfigati, che si rendono conto di esserlo quando per le loro donne è troppo tardi.

Bologna città 3000

Da qualche mese il dibattito bolognese è concentrato sul tema della cosiddetta “Città 30“. Lo spiego in due parole: l’amministrazione comunale ha stabilito che in larga parte del centro cittadino , pari a circa il 70% delle strade, non si potrà superare la velocità di 30 chilometri all’ora.

Attenzione, però, prima che finiate nel coro di quelli che gridano di giornate intere trascorse in auto per raggiungere l’ufficio o di frizioni bruciate, sappiate che nelle ore di punta a Bologna andare a 30 all’ora è un sogno. Quando usavo l’auto per attraversare la città a fatica riuscivo a inserire la terza, in certe circostanze. E poi il limite dei 30 all’ora non coinvolge le arterie a scorrimento più veloce.

Personalmente la trovo una scelta tipicamente italiana: metto il limite di velocità ai 30 così almeno non superi i 50, vista l’abitudine italica a farsi uno sconto rispetto alle norme. Io personalmente avrei mantenuto i limiti ai 50, sequestrando l’auto e penalizzando fortemente i criminali che vanno a 90 all’ora in stradine frequentate da anziani e bambini (e ce ne sono eccome).

Però la velocità non è che la punta dell’iceberg di un’idea di città che prima di essere bolognese è delle grandi metropoli europee come Parigi e Londra, centri che questo percorso l’hanno già intrapreso. Una città che rappresenta il trionfo della classe borghese su quello che una volta si chiamava proletariato. La città dei ricchi che non sopporta lo smog prodotto dai poveri, insomma. Alla faccia della città più progressista di Italia.

Sì perché il modello di questa città è fatto di piste ciclabili, aree pedonali, zone verdi, riduzione delle corsie e soprattutto sparizione dei parcheggi. Chi usa l’auto è un avvelenatore mefitico, un retrogrado, uno sporcaccione.
Evidentemente a essere soddisfatto di questo modello è chi ha una villetta in prima periferia con il garage che ospita le vetture di papà, mamma e figlio, lavora in centro e si reca in ufficio in moto, forse in bici perché tanto ha il bagno personale dove può fare la doccia, oppure può spendere venti o trenta euro all’ora per una di quelle macchinuzze elettriche che salveranno il mondo. Via i parcheggi, più spazio per dehor, viva la democrazia del tagliere.

E se abiti lontano dalla città, ma ci lavori? Usi i mezzi pubblici, ovvio. Ora, premetto che io ho da diversi anni l’abbonamento annuale ai mezzi e li uso per andare a lavoro tutti i giorni. Ma prima di fare una affermazione del genere, bisognerebbe usarli i mezzi, cacchio. Per recarmi a Vergato con i mezzi uscivo di casa alle 7,15 e timbravo alle 9,10. Per Monzuno l’uscita era prevista alle 6,15, prima autobus, poi treno, poi corriera. Arrivo alle 7,45. Se però il treno faceva tardi e la corriera non lo aspettava, arrivavo intorno alle 10. E succedeva, ah se succedeva. Ovviamente, lo stesso vale per un poveraccio che fa il viaggio in direzione opposta. Impediamogli di usare l’auto puzzona, al maledetto, che si adegui. E il pensionato che vorrebbe trascorrere il fine settimana nella casa in Appennino? Anche lui senz’auto? Ovvio. E se la domenica non ci sono i mezzi pubblici, ci vada in bici, con le ciclabili siamo collegando Helsinki con Malta, hai voglia.

Quando fai notare queste difficoltà, la risposta è: i mezzi pubblici sono lenti perché ci sono le auto. Ma è falso. I mezzi pubblici sono lenti perché da anni gli investimenti si concentrano su turisti, manager, su quelli di cui sopra: perché abbiamo potuto spendere milioni di euro per collegare l’aeroporto con la stazione con il trenino di Gardaland, ma la ferrovia Porrettana è a binario unico dal secolo diciannovesimo.

Le nuove linee del tram seguono questa logica. Un metropolitana connessa alle linee ferroviarie che collegasse San Pietro in Casale a Porretta e Zola a Ozzano, quella sarebbe servita. Magari evitando le zone del centro più delicate.

E non venitemi a dire che non si può perché Bologna è una città sull’acqua: è anche l’unica città con la stazione per l’alta velocità sotterranea,  che stanno collegando con un percorso ferroviario interrato fino alla zona Roveri, in periferia. Praticamente un pezzo di metropolitana ce l’ha senza saperlo.

Una metropolitana ci voleva, non questi trasportini per stranieri pronti a pubblicare su Instagram le bellezze colte dal finestrino del tram elettrico. Ma a un certo punto parlare di metropolitana ha voluto dire essere di destra, mentre il tram è di sinistra. Magari un giorno qualcuno mi spiegherà perché.

I centri delle città italiane si avviano a trasformarsi in parchi dei divertimenti per turisti e per cittadini benestanti che le frequentano per una mostra, un aperitivo o una passeggiata. Che gli altri si arrangino.
Non è una città 30, è una città 3000, e sono gli euro che devi guadagnare al mese per essere degno di frequentarla.

La geografia del dolore. Forza Monzuno

C’è un detto montanaro che ripete che a Monzuno anche le galline hanno i freni. Quest’immagine da sola racconta più di mille studi di orografia la natura di una terra a me cara che sta vivendo giorni difficili.

Contatto L., mi risponde che sta bene. La strada che conduce a casa sua si è sbriciolata come una millefoglie troppo cotta e per andare in ufficio percorre quattro o cinque chilometri a piedi, ma sta bene. Quando lavoravamo insieme era sempre la prima a sistemarsi dietro la scrivania, magari in questi giorni ci metterà un po’ di più. M. mi spiega che è tra i fortunati laggiù, tra i monti e il fiume, che ha ancora una casa integra e può ospitare i parenti cui è andata meno bene. Vicino a G. hanno fatto evacuare già alcune famiglie, si chiede se toccherà anche a lei. M. (non è la stessa persona di prima) dopo aver fatto il giro della zona rossa con i volontari osserva il suo bucato steso, lavato, impolverato e rilavato dalle piogge che aspetta che qualcuno lo raccolga, ma va bene.

L’unità di misura del benessere, dello stare bene andrebbe ricalibrata dopo il disastro che ha colpito la pianura, infangata e sommersa, e la montagna, che cade a pezzi, e non solo metaforicamente.

A queste persone sta letteralmente venendo meno la terra sotto i piedi, però ci sono e questo gli basta per rispondermi che dai, va bene. Non invito ad ammirarli ché non abbiamo bisogno di eroi, invito a ripensare ai nostri bisogni di elevati standard qualitativi, per i quali per stare bene ci servono sempre più tempo, spazio, risorse.

Qualcuno con un po’ di malinconia fa notare che anche nella disgrazia l’Appennino viene dopo. Tutto il mondo infatti ha testimoniato il dramma della Romagna, chissà in quanti sanno che anche da queste parti l’acqua si è portata via case, strade, ricordi. Per fortuna non vite.

Ma non c’è una classifica della tragedia, e se i frutteti devastati della bassa avranno un drammatico impatto sull’economia di queste terre, anche il fabbro di Vado non ha più niente con cui lavorare. La geografia del dolore non ha sfumature di intensità, chi perde tutto perde tutto a qualunque latitudine, e anzi in montagna forse ci mette anche di più a rimettersi in piedi.

I miei 24 lettori sanno che il maresciallo Luccarelli, protagonista di tanti miei racconti e di qualche romanzo, ha la caserma in Val di Setta. Dove ho lavorato diversi anni. I più attenti avranno capito che sorge proprio lì, a Vado, una delle zone più colpite dalle alluvioni del maggio 2023. Mi vengono in mente le parole di un ex sindaco che anni fa mi fece notare come Vado derivi da “guado”, e questo qualcosa dovrebbe insegnarci. Ma non ora, non è il momento. Guardate che vivere in una valle non è facile come negli spot televisivi. Fa freddo in inverno e caldo in estate. I percorsi di accesso non sono semplici. Ci vuole coraggio, per vivere in una valle, bisogna volerle bene.  Anche perché quelle che noi chiamiamo Food Valley, Motor Valley, Data Valley, se prendete un atlante scoprirete che in realtà sono pianure che giocano con l’assonanza anglosassone.

Ebbene se il maresciallo esistesse davvero oggi sarebbe lì, nella valle, a spalare fango e terra. Chi gli dà voce più modestamente può, al massimo, fare quello che gli riesce meglio, mettere in fila parole che fissino i ricordi. Perché sono i ricordi le prime vittime di questi disastri. La lunga strada di curve e tornanti che da dalla provinciale dopo l’autostrada si arrampica su a Monzuno, e se svolti subito a destra passi davanti alla stazione e da lì raggiungi la piazza del paese, se la rivedi in foto non è più come la ricordavi. Non ti riconosci più nel percorso che facevi dalla delegazione comunale per arrampicarti fino alla stazione (sì, in Appennino tutto è un po’ sotto sopra, e le stazioni stanno in cima ai centri abitati) arrivando paonazzo a prendere il regionale delle 15. La fondovalle Savena che hai percorso in auto centinaia di volte, e quel mercoledì mattina hai pure esagerato con l’acceleratore ma cavolo, tua moglie ti aveva chiamato per dirti che le si erano rotte le acque, quella strada non si percorre più. In futuro, forse, chissà. Ora è strozzata come un sifone incrostato. È questo che fanno i disastri naturali, stravolgono lo spazio per alterare la tua cognizione del tempo. Questi eventi catastrofici che rivoltano l’orizzonte intorno a noi non cambiano solo le nostre storie: modificano per sempre la nostra percezione dei ricordi.

Una delle zone più martoriata dal fiume – dovremmo chiamarlo torrente ma la furia non era quella di un corso d’acqua minore – si chiama Blogna. Senza o.

Il segretario generale correggeva sempre quell’errore negli atti, finché non gli spiegarono che ormai quel refuso, quel retaggio dialettale si era fissato per sempre: quella frazione era per tutti Blogna. Anni fa, quando mi occupavo di servizi demografici, feci correggere con un atto di giunta la toponomastica di “via delle Quercie” con “via delle Querce”, perché le maestre venute da fuori acquietassero il loro sdegno ortografico di fronte a quella “i” di troppo, ma Blogna è rimasta così. Blogna non si tocca.

E invece. E invece non solo è stata toccata, ma adesso sarà inevitabilmente destinata a cambiare.
Si tornerà a vivere lì? E che vita è quella di chi ogni giorno rivede il mostro che ti è entrato in casa lasciandoti nudo con i tuoi rimorsi?

Difficile fare previsioni, difficile rimanere lucidi mentre si alza il coro sdegnato di chi ha sempre ragione e soprattutto ha qualcuno a cui dare una colpa. È colpa del Comune, della Città metropolitana, della Regione, del Governo. A seconda dei colori cambia il capro espiatorio su cui scaricare la propria frustrazione impotente. Ma intanto si spala, e non è che siccome sei di sinistra ciascuno spali secondo le proprie possibilità e siccome sei di destra allora premiamo quello che spala di più. Di fronte a questi eventi si spala e basta.

I den sänper la colpa alla C’muna mi spiegò un’amica nata lassù, abituata a fare pace con il mondo osservandolo dall’alto, nei pomeriggi dopo la scuola, tra le atmosfere rarefatte di Monte Venere.

Quell’amica se n’è andata troppo presto ma le sue parole sono rimaste: è sempre colpa del Comune (o degli altri enti, è uguale). È sempre colpa degli altri, il nostro stile di vita va bene così, possiamo continuare a consumare impunemente il pianeta, purché il sindaco tenga puliti i fossi.

Forza Monzuno, non dar retta ai saccenti che vomitano sui social la loro presunta superiorità, non sentirti nemmeno seconda perché da te o a Monterenzio non sono venuti ministri e presidenti europei. Le tue galline hanno i freni, si salveranno anche stavolta.

Concludo con la mia personale immagine del disastro di questi giorni e della risposta di chi vive e lavora in Emilia Romagna. Una foto che ho rubato online al mio amico Gianluca.

Si tratta di uno smottamento a Monzuno e nemmeno dei più gravi, visto che sono venuti giù fianchi delle montagne come fette di pandoro inzuppate di latte. In confronto questa è una roba da ridere.

Ma questa foto mi piace perché quasi ce lo vedo il mio ex collega ignorante che non dorme da giorni, è corso su e giù a verificare, aiutare, indirizzare, e porca di quella miseria nemmeno ce l’ha più un cartello di divieto di accesso.

Perché ci sono più frane che cartelli in questi giorni nel mio amato Appennino. Ma il collega ignorante se ne frega delle difficoltà, tira fuori il cartello del mercato settimanale e la strada è chiusa.

Il giorno del mercato poi ci porremo il problema, adesso la risolviamo così.

Se fossimo tutti un po’ più come quegli operai che cercano di salvarci tra la pioggia e il fango e un po’ meno come quelli che dopo aver riposto la laurea di epidemiologia presa presso me stesso si scoprono ingegneri idraulici, ecco io penso il mondo sarebbe un posto migliore.

Forza Monzuno.

E sì, ci mancherebbe, forza Vado. Lo so che ci tenete. Rinforzate per bene quei pendii, non sia mai che quei gallinacci monzunesi con i freni più usurati vi finiscano in testa.

Non chiamateli gialli

Da sempre la letteratura poliziesca e la cronaca nera rappresentano due vasi comunicanti: le vicende criminali alimentano la fantasia degli scrittori e a loro volta c’è chi – nel male ma anche nel bene – nella vita si ispira a personaggi letterari.

Personalmente trovo molti spunti nei fatti di cronaca realmente avvenuti, utili a tracciare le vicende dei miei romanzi, perché mi sembra che così le storie siano più realistiche. Può darsi che in questo incida anche la mia formazione giornalistica.

Non ci trovo niente di male in tutto ciò: è il contrario che mi mette in imbarazzo. L’utilizzo cioè di tecniche letterarie per raccontare la cronaca nera, a cominciare dall’abuso della parola “giallo”.

Sappiamo bene che l’origine del termine per indicare la narrativa poliziesca nasce dal colore della famosa collana Mondadori. Però il giallo è fantasia, è divertimento, intrattenimento.

Anche nelle versioni più crudeli, spietate, nel noir più angosciante, alla base c’è l’immaginazione dello scrittore. Che può fare riflettere, appassionare, denunciare, angosciare forse, ma un pubblico di lettori che ha scelto di farlo. E che in ogni momento può chiudere il libro, o spegnere la tivù. Nella vita è diverso. Non ci sono gialli, nella vita, ma tragedie. C’è gente che soffre, non fantasie. Gente che non ha scelto di essere lì, di vedere morire un proprio caro, un parente, un amico. Sono persone, non personaggi. Invece, dai plastici agghiaccianti di certi salotti televisivi al proliferare di documentari che adesso si chiamano “true crime”, la passione morbosa verso queste storie cresce e disorienta chi, come me, non riesce a non essere empatico nei confronti delle vittime, ma anche dei carnefici, che spesso sono vittime a loro volta.

Per cui, cari colleghi giornalisti, documentaristi, cineasti, continuate a raccontare la cronaca perché è un presidio della libertà e nessuno ha nostalgia negli anni in cui era sparita dai quotidiani perché andava tutto bene e i treni erano puntuali. Però con il tatto e la consapevolezza di incidere nella carne viva delle persone.
In caso contrario, potete sempre scrivere romanzi.

PS. Chiudo con una civetta di alcuni anni fa per sdrammatizzare un po’.
Ritrovato dito mozzato di un cinese.
È giallo.